di Mario Braconi

A dispetto della sua irrilevanza artistica, Lily Allen, stellina britannica del pop, ha ricevuto l'onore della cronaca quando, qualche settimana fa, si è schierata senza mezze misure a favore delle misure draconiane che il governo britannico sta studiando per contrastare il fenomeno del file sharing di musica e film. Il piagnisteo delle case discografiche e di quelle cinematografiche, riverberato sul governo britannico attraverso attività di lobby via via più pesanti, alla fine ha convinto Lord Mandelson, Ministro dell’Economia, a far la voce grossa, includendo il “taglio” della connessione internet tra le possibili misure da prendere nei confronti dei "colpevoli" recidivi.

La ventiquattrenne Allen, nota per le non immortali Smile, LDN, e per i tormentoni Not Fair e Fuck You (sic!), ha rilasciato una dichiarazione che riflette la malcelata invidia di un’artista mediocre più che un solido argomentare logico: “Ritengo che la pirateria musicale stia producendo effetti disastrosi sulla musica inglese, anche se alcuni artisti ricchi e famosi come Nick Manson dei Pink Floyd e Ed O’ Brien dei Radiohead non la pensano così”.

Il riferimento è alle posizioni assunte dalla FAC (Featured Artist Coalition, un’associazione di cantanti britannica che si batte per la riforma della regolamentazione del copyright), che, almeno inizialmente, ha deciso di non lanciare inutili anatemi al download illegale, considerato da alcuni dei suoi membri un’opportunità offerta agli artisti per far conoscere la propria arte e, paradossalmente, un metodo originale per promuovere la vendita regolare (provo gratis, mi piace, lo compro); in ogni caso, a Ed O’ Brien l’idea di punire i colpevoli di pirateria con il distacco dalle Rete è sembrata eccessiva e capace solo di far imbufalire i fan colpiti da questa misura, il cui profilo di legittimità, peraltro, è tutto da dimostrare (in fondo la connettività, almeno nelle democrazie occidentali, potrebbe essere considerata un diritto inalienabile).

Il risultato della boutade della Allen è stato apparentemente devastante: la tempesta di messaggi di protesta che le sono piovuti addosso come sassate la ha costretta a chiudere il suo blog; non prima, però di aver informato i fan che intende piantare la sua carriera musicale per dedicarsi a quella di attrice (dato che è figlia di un attore e di una produttrice cinematografica, c’è da ritenere che continueremo a sentir parlare di lei per un bel pezzo…). Eppure ha prodotto un piccolo miracolo: quello di “far metter la testa a posto” anche agli artisti “ribelli” della FAC, inizialmente più lungimiranti degli altri e comunque decisi a non piegarsi ai diktat governativi.

Infatti, in una dichiarazione del 24 settembre la Coalizione ha espresso solidarietà per la Allen e condannato la campagna “al vetriolo” che si è scatenata nei suoi confronti negli ultimi giorni. Inoltre, e qui viene l’elemento interessante, il FAC comunica che, a seguito di una votazione, è emerso che la larghissima maggioranza degli artisti della Coalizione sono favorevoli alla sanzione del “tre volte e poi sei fuori”, secondo cui, “coloro che reiteratamente scaricano file illegali riceveranno una prima lettera di avviso, poi una seconda comunicazione più decisa, ed infine verranno sanzionati con una restrizione della banda di un livello tale da rendere di fatto impossibile il file sharing pur consentendo le più elementari funzionalità di navigazione internet e posta elettronica”.

Un cambiamento epocale per i “libertari”, che sembravano far campagna per la “riduzione del danno” anziché per la proibizione armata: certo, la posizione del “tre volte e poi sei fuori” è meno forte di quella che vorrebbe Mandelson (taglio della connessione tout-court), ma, come nota la BBC, rappresenta pur sempre un’inversione ad U rispetto alle idee progressiste di cui la FAC si fregiava fino a qualche settimana fa. O’ Brien non crede che si sia consumata una capitolazione. “Sono tutti molto soddisfatti” ha dichiarato al Guardian: “Il risultato è del tutto coerente con l’approccio che abbiamo dato alle nostre discussioni interne; sono stati affrontati i temi che ci preoccupavano”.

Insomma, sembra che Lily Allen cada sempre in piedi: prima mette a segno 3 “numero 1” nella classifica britannica cantando (così così) della musica di bassissima qualità, e poi riesce a portare dalla sua parte anche i nemici giurati del file sharing illegale, tra cui si trovano personaggi che (a differenza di lei) hanno realmente fatto la storia della musica pop e rock.

Possiamo solo immaginare la grande soddisfazione che deve aver provato Lord Mandelson davanti alla apparente capitolazione della FAC. Tutti soddisfatti, dunque, a parte i ragazzini che riempiono i loro i-Pod di roba illegale? Non sembra: tra i grandi scontenti si annoverano le compagnie telefoniche, non proprio eccitatissime all’idea di sottoporre i propri clienti a controlli di tipo poliziesco. E questo non solo per motivi di ordine etico, di solito risolvibili, ma per più prosaiche questioni di costi: secondo John Petter, capo della divisione Privati della British Telecom, l’obbligo di sospendere la connessione a chi scarica illegalmente file musicali potrebbe costare ad ogni singolo fornitore di banda larga un milione di sterline al giorno (o 25 sterline al giorno per ogni cliente ADSL nel Paese). Se questi numeri sono corretti, possiamo stare tranquilli e continuare a servirci tranquillamente (e gratis) della musica che più ci piace.

di Mario Braconi

Qualche genio del marketing sostiene che, quando si va a comprare una borsa o un paio di scarpe griffate non è solo un oggetto di qualità e uno status symbol quello che si porta a casa, ma un’ “emozione”. Impossibile non rammaricarsi per la miseria di questo nostro oggi, in cui le “emozioni” si trovano, e a pagamento, nelle botteghe dove si smerciano merci di uso comune. Merci, per inciso, prodotte da terzisti per multinazionali che le rivendono al dettaglio con un mark-up del 45%. Ma questo è il mondo con cui dobbiamo fare i conti, ci piaccia o meno.

Uno dei servizi pubblicitari di punta di Google è AdSense, un software proprietario che consente agli inserzionisti di creare “annunci sponsorizzati”; per intendersi, quelli che compaiono a destra nella paginata dei risultati della ricerca. E’ l’inserzionista a decidere che tipo di parola contenuta nella ricerca debba attivare l’annuncio su Google e quanto è disposto a pagare per ogni click che gli internauti vi faranno sopra (meccanismo noto come “pay-per-click”, o PPC).

Gli annunci pubblicitari su Google sono organizzati secondo una gerarchia basata sui PPC degli altri inserzionisti e sul “punteggio di qualità”, un “voto” determinato (da Google) in funzione diversi fattori, tra cui i dati storici sui click effettuati, la “storia” dell’inserzionista, la “rilevanza” del testo e delle parole chiave da lui richieste. Il costo minimo del PPC è determinato tanto dal “punteggio di qualità” che dalle caratteristiche del sito di “atterraggio” del link sponsorizzato, in termini di qualità, contenuti, trasparenza e natura del business.

Dato che Google è un quasi-monopolista nelle ricerche online, non è difficile capire quanto sia importante per chi vende poter disporre di una vetrina di questo tipo, che può essere vista da milioni di persone contemporaneamente. Ed in effetti Google ricava dalla pubblicità 21,1 dei 21,8 miliardi di dollari del suo giro d’affari del 2008: in gran parte si tratta di keyword advertising, ovvero di pubblicità su parola chiave: ad esempio, dopo aver digitato il nome di una marca di auto di lusso nella finestrella di Google, sulla destra della pagina dei risultati mi appaiono i collegamenti ad una serie di concessionari con sede in Italia.

Praticamente una miniera d’oro, non solo per le aziende. Si pensi infatti ad Alex Tew , uno studente inglese di ventuno anni, che qualche anno fa ha fatto un milione di dollari in due mesi con keyword advertising un po’ speciale: ha comprato un dominio dal nome accattivante www.themilliondollarhomepage.com, che conteneva solamente una pagina bianca con un quadrato di mille pixel di lato, cioè, precisamene, una pagina con un milione di pixel bianchi. Alex ha messo in vendita quadrati a lotti minimi da 10 pixel: l’inserzionista aveva diritto di mettere il suo logo sullo spazio acquistato, con il collegamento al suo sito. Dopo una settimana aveva già venduto annunci pubblicitari per 40.000 dollari, e in cinque mesi ha centrato il suo obiettivo: guadagnare un milione di dollari per mantenersi agli studi.

Un marchio di moda che nasconde “emozioni” e dotato del misterioso potere di attribuire senso ad esistenze altrimenti biodegradabili; più un motore di ricerca in grado di intercettare i desideri di milioni di persone trasformandoli in consumo entusiasta: ecco la tempesta perfetta.

Pochi conoscono questo mondo come la conglomerata del lusso Louis Vuitton Moet Hennessy (LVMH): il brand è tutto: in fondo è solo grazie a quelle due letterine stampigliate che una normale borsa da donna in tela plastificata può essere venduta ad un prezzo minimo di 490 euro. E i dividendi di quel nome magico capace di prodigi da Re Mida non possono essere spartiti con nessuno. E’ questo il senso di una serie di azioni legali lanciate da LVMH contro Google, colpevole, a suo dire, di aver accettato denaro in pagamento di annunci pubblicitari in cui figurano i nomi dei marchi da essa gestiti.

Su questo tema la giustizia francese ha fornito verdetti contrastanti: ha dato ragione a LVMH nella sua causa contro eBay, accusata di aver violato le leggi sul marchio di fabbrica per aver consentito la messa all’asta di prodotti griffati dalla Casa francese. Ma in altri casi il verdetto è stato favorevole alla società Internet. Dopo l’appello presentato da Google contro la decisione di un tribunale francese che aveva dato ragione al gigante del lusso francese, il tribunale è ricorso alla Corte di Giustizia europea.

Luís Miguel Poiares Pessoa Maduro, uno degli Avvocati Generali della Corte di Giustizia, cui compete l’incarico di esporre conclusioni motivate sulle cause sottoposte alla Corte, si è espresso contro LVMH: “Nell’impedire le violazioni delle norme sul marchio non ci si può spingere ad impedire l’utilizzo di qualsiasi marchio nel cyberspazio. Dunque, Google non ha violato la legge quando ha consentito ai suoi inserzionisti di scegliere parole chiave che contengono marchi”. Anche se la decisione dell’Avvocato Generale non è vincolante per la Corte, nell’80% dei casi essa vi si adegua.

Via libera, dunque, alle parole chiave che comprendono un marchio, ma massima severità contro gli annunci che danneggiano i brand: se le aziende proprietarie del marchio dimostrano che l’annuncio su Google ha danneggiato i suoi interessi - ad esempio collegando ad un sito dove si vende merce contraffatta - la società di Mountain View potrà essere chiamata a risponderne. Chissà se prima o poi la giustizia europea riuscirà a mettere un freno all’arroganza di LVMH e alla furbizia di Google: se infatti la casa del lusso francese ha esagerato con le tutele pretese, il minimo che si richiede a Google è di essere certa della buonafede dei suoi inserzionisti prima di accettare il loro denaro.

di Mario Braconi

Fa discutere il film "Disctrict 9", uscito negli USA il 14 agosto (in Italia lo vedremo dal 2 ottobre). Chi non ama la fantascienza potrà anche snobbarla come intrattenimento per deboli di mente, ma questa strana pellicola offre diversi spunti di riflessione, quale che sia l'angolazione dalla quale la si analizzi: artistica, culturale o politica. Questa, in breve la storia: un'astronave aliena, a causa di un inspiegabile incidente, si arresta nel cielo della Johannesburg degli Anni 80; dopo un breve periodo di stallo, le autorità decidono di sequestrare il veicolo e rinchiudere gli extraterrestri superstiti in un ghetto sorvegliato da una milizia privata, la MNU (Multinational-United, parodia delle Nazioni Unite). Le creature, classificate come "lavoratori" (anche se vengono chiamati "gamberetti" poiché assomigliano un po' a dei crostacei) passano le loro giornate in un inferno fatto di disoccupazione, delinquenza e segregazione, a scatenare risse per le strade e a "farsi" di cibo per gatti (per loro è una droga). La MNU ha ora deciso di deportare i circa 2 milioni di alieni in una nuova area, il Distretto 10.

Wikus van der Merwe (Sharlto Copley, produttore ed attore sudafricano), è un agente della MNU, il cui DNA, a seguito di un incidente, viene alterato da materiale alieno. Vittima di un’ibridazione che lo mette in condizione di impiegare la sofisticata tecnologica bellica dei "non-umani", e costretto a sfuggire al suo datore di lavoro e ai suoi metodi brutali, finisce per rifugiarsi nella baracca di uno dei presunti leader alieni nel Distretto 9, dove apprenderà che spesso gli umani sono "mostri" e viceversa (cosa che in effetti tutti sappiamo dopo aver visto E.T.). Benché nel film, che rimane un prodotto commerciale, non siano presenti riferimenti espliciti al regime dell'apartheid, le allusioni al regime razzista sono talmente evidenti da risultare inevitabili.

Da un punto di vista economico, "District 9" è stato un autentico miracolo: costato la ridicola somma di 30 milioni di dollari anche grazie ad un cast senza star (per realizzare Spider Man 3 sono stati bruciati ben 250 milioni), ha raggiunto il pareggio nel solo weekend di lancio, in cui ha incassato 37 milioni (oggi siamo ad oltre 90 milioni). La regia è di Neill Blomkamp, ventinovenne sudafricano trapiantato in Canada, al suo esordio nei lungometraggi: dopo aver lavorato sin dall'età di 16 nell'animazione, prima di “District 9” ha girato alcuni brevi filmati legati ai temi del videogioco Halo della Microsoft e qualche spot pubblicitario. Quando la Universal chiamò Peter Jackson (regista de "Il signore degli Anelli") a produrre un lungometraggio basato sul videogioco, Blomkamp fu scelto come regista. Il progetto di Halo è però maledetto: pur avendo stimolato fior di cervelli (dallo scrittore Alex Garland al regista premio Oscar Guillermo Del Toro) non è mai riuscito a decollare. Anche se il film tratto dal videogioco più importante della Microsoft (almeno per ora) non vedrà la luce, tra Blomkamp e Jackson si è creata una buona chimica: così i due hanno deciso di realizzare un film a basso budget (da produrre in modo indipendente), basato su un cortometraggio dello stesso Blomkamp "Alive in Jo-burg".

Per quanto possano essere rimarchevoli le capacità di Blomkamp come regista (esperto realizzatore di falsi documentari o “mockumentary”) un film a basso costo difficilmente riesce a diventare un campione d’incassi. E qui entra in gioco l'artiglieria pesante della Sony, messa in campo grazie al gentile interessamento di Peter Jackson. La campagna di marketing virale ideata dalla multinazionale per lanciare "District 9" ha fatto storia: cartelli affissi sulle autostrade ("vietato caricare in macchina non umani, multe fino a 10.000 dollari"), sulle panchine ("panchina solo per umani") e alle fermate degli autobus ("fermata solo per umani").

Questo tipo di pubblicità, altamente e scientificamente "infettiva" ha sortito il suo effetto, attirando l'attenzione del pubblico e dei media. I falsi avvisi sono apparsi, infatti, molto prima della data di uscita del film, sulla quale la distribuzione è rimasta volutamente (e perversamente) sul vago, alimentando la curiosità, mentre - invertendo una tendenza consolidata nel business - sui media le scene più spettacolari sono state centellinate.

Si noti, per inciso, come la promozione commerciale si sia spinta ad evocare, tritare e risputare “luoghi” e situazioni che si credevano relegati nell’armadio degli orrori della Storia: autobus separati per bianchi e neri, panchine riservate a chi aveva il privilegio di nascere con la pelle più chiara sono infatti un bruttissimo frammento di storia americana (per non parlare di quella del Sud Africa ai tempi bui dell'apartheid). Una volta di più, vale il detto dell’imperatore Vespasiano, inventore della tassa sull’urina: “Non olet”.

Inoltre, “District 9" è sospettato di essere un film razzista. Nel plot, infatti, gli immigrati nigeriani impersonano spesso il ruolo dei "cattivi": nigeriani sono i signori della guerra, i killer, le prostitute e lo stregone e alcuni di loro sono cannibali. "Questa è l'Africa come se l’immaginano a Hollywood, giusto? I neri africani rappresentati come selvaggi degenerati che fanno sesso con non umani e desiderano gustare carne umana. Semplicemente disgustoso", commenta sul suo blog Nicole Stamp, regista ed attrice canadese, segnalando per inciso che il razzismo rende pure un cattivo servizio alla coerenza narrativa del film (ad esempio, se le prostitute nigeriane si accoppiano da anni con gli alieni, come mai la contaminazione del DNA avviene solo a seguito dell'incidente di cui è vittima Wikus van der Merwe?).

"District 9" è stato girato nella shanty town di Chiawelo a Soweto: un posto privo di acqua corrente ed elettricità, occupato da baracche di metallo quando non di cartone, in cui i bambini si divertono tirando calci ad una bottiglia di plastica nelle strade polverose. Per i suoi abitanti, l'arrivo della troupe di District 9 ha costituito un diversivo alle ore squallide bruciate nella miseria e nella desolazione, e per alcuni di loro anche un'occasione per raggranellare qualche rand.

Come è successo a France Mokoene, operaio non specializzato, che, durante la lavorazione del film ha ricevuto dalla produzione circa 14 euro al giorno. Ma l'inaspettata manna si è prosciugata e, ora che il film è nelle sale, gli abitanti di Chiawelo sono risprofondati nella miseria: il film che (per metafora) mette in scena il dramma delle varie Chiawelo del Paese macina milioni di dollari, mentre i suoi protagonisti non potranno mai permettersi nemmeno un biglietto del cinema.

Non solo: proprio come i 'non umani' del Distretto 9, gli abitanti di Chiawelo stanno per essere trasferiti in un complesso di abitazioni popolari a sette chilometri di distanza dalla shanty town. Anche se non tutti i residenti sono entusiasti, ed alcuni anzi vi si oppongono, in questa “deportazione” si legge più la cifra del progresso (fine delle baraccopoli, nuovo inizio in città) che quella del sopruso, un segno positivo che si fa strada dopo le false partenze di un Paese che, a decenni dalla fine della vergogna dell’apartheid, fatica ancora a dare il giusto ai suoi figli.

Non sorprende che la sicurezza a Chiawelo sia un problema serio; come riporta Sylvia Khoza, intervistata dal Guardian: "Questo posto non è sicuro, si registrano comportamenti criminali di ogni genere: rapine, stupri, assassinii. La gente del cinema era circondata da uomini della sicurezza". Anche il regista Neill Blomkamp ha un ricordo piuttosto negativo dei suoi giorni sul set di Chiavelo: in un'intervista, racconta che un veicolo del convoglio è stato sequestrato e poi rubato da un uomo armato.

Stupiscono però (e sono anche vagamente irritanti) le parole con cui descrive quei giorni difficili: "Ogni cosa diventava compicata. C'erano cocci di vetro e filo spinato arrugginito dappertutto e il livello di inquinamento era folle. E, in quel contesto, dovevi cercare anche di essere creativo." Si sarebbe tentati di concludere che, pur essendo nato ed avendo vissuto 18 anni della sua vita in Sud Africa, egli, dal suo ghetto per privilegiati bianchi, non abbia veramente visto il suo stesso paese.

di Mario Braconi

Il libro "Nudge", disponibile anche in Italia con il titolo "La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità", è un successo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Nonostante il titolo, che rischia di fare venire l'orticaria ai lettori più smaliziati ("oh no, il solito manuale di self-help made in USA!") è un lavoro diretto più ai governanti che ai comuni cittadini: governanti di ogni colore politico, visto che le idee che i due autori, Thaler (economista) e Sunstein (giurista ed “obamite”) intrigano i Conservatori britannici come i Democratici americani (in particolare, Austan Goolsbee, capo-consigliere economico di Obama).

Da esperto in economia comportamentale quale egli è, Thaler abbatte un vecchio tabù, smentendo l'assunto secondo cui l’agire economico è sempre basato su scelte razionali; compito di un economista è lo studio degli Umani, spiega, e non gli Econ, cioè di quelle astrazioni che gli studiosi hanno creato in laboratorio per farli funzionare nei loro modelli.

Nel mondo di Thaler, il cervello umano più che ad un “supercomputer in grado di risolvere qualsiasi problema” assomiglia a quei “vecchi Apple Mac che andavano piano e si piantavano ogni secondo minuto”. Inoltre, le scelte economiche sono influenzate da quelle dei propri simili molto più di quanto si sia disposti ad ammettere.

“Certo, siamo leggermente superiori ai criceti, ma subiamo l'influenza delle opinioni e delle azioni degli altri” protesta Madeleine Bunting, firma di punta del Guardian; dunque somigliamo “più ad Homer Simpson che al Dottor Spok”, ribadisce Aditya Chakrabortty, caporedattore della pagina economica del quotidiano: però, grazie ad una forma gentile di manipolazione da parte dello stato, ("nudge", appunto) dovremmo poter ottenere quello che da soli non riusciamo a conseguire: metter via qualche soldo in più, evitare l'obesità e le malattie che ne conseguono, chissà, magari anche essere più felici.

Il capo dei Conservatori britannici, David Cameron, è un fan dichiarato del “nudge”: in un suo discorso dello scorso giugno ha detto che non gli dispiacerebbe “spingere dolcemente” i suoi concittadini per aiutarli a risolvere almeno tre problemi che gli stanno a cuore: “rendere socialmente inaccettabile per i giovani andare in giro con un coltello, convincere la gente a riciclare i rifiuti, limitare il consumo di cibi e bevande dannose per la salute”. Cameron ha fatto anche un esempio: se nella bolletta della luce venisse mostrato il conto del vicino di casa, il cittadino si renderebbe conto che può razionalizzare i suoi consumi, con benefici evidenti per l'ambiente e per il suo bilancio familiare - resta da chiarire quale comportamento porrà in essere quando si accorga che il suddetto vicino consuma il triplo di lui: facilmente potrebbe concludere che non valga la pena darsi all’austerità.

Negli USA è invece il Presidente Obama a far propri gli argomenti di Thaler: l’esempio più conosciuto di “nudge à-la-Obama” è il meccanismo per il quale i lavoratori sono automaticamente iscritti in uno schema pensionistico; se lo vogliono, essi possono sempre abbandonarlo, eppure è assai probabile che l'inerzia abbia la meglio e che essi vi lascino investiti i loro risparmi. Basta con i proverbiali bastone e carota: lo Stato, pur consentendo al cittadino di fare scelte dannose per sé e per la collettività, non obbliga a perseguire la strada più giusta. Niente più governo (balia al più, ironizza Chakrabortty) un governo "au pair": creatura “più informale, dalla mano più leggera, ma pur sempre un po’ invadente”.

Come mai il "nudge" affascina sia a destra che a sinistra? Non occorre tirare in ballo i massimi sistemi: basta considerare che quello della "manipolazione dolce" é un approccio pragmatico, con il quale si auspica di trovare un compromesso tra l'ossessione liberista per il libero mercato e quella democratica per il “command and control” (comandare e controllare). E' abbastanza ovvio che siano i partiti politici più dinamici a tentare strade nuove: in America i democratici di Obama, in Gran Bretagna e i Conservatori del furbo Cameron, questo anche perché i Neo-Laburisti, annichiliti dal disastro del progetto di Blair, restano inchiodati a contemplare il proprio ombelico.

Alla sinistra britannica, però, la “spinta gentile” non piace neanche un po': secondo Danny Alexander, il deputato liberaldemocratico che sta coordinando la stesura del programma del suo partito, “c’é qualcosa di preoccupante, di illiberale in questa faccenda del “nudge”: se il Governo intende modificare i nostri comportamenti senza sentire l’obbligo di spiegare che cosa sta facendo, come e con quale obiettivo, in definitiva sta ignorando ciò che desiderano gli elettori”.

La Bunting, dalle colonne del Guardian, è ancora più netta: “Se è vera a tesi del libro, secondo cui i nostri processi di scelta sono sostanzialmente difettosi, il capitalismo consumista non è più un mosaico di milioni di decisioni indipendenti prese da persone che esprimono una loro soggettività, ma solo un metodo grazie al quale le norme sociali vengono manipolate per trasformare cittadini in consumatori entusiasti”.

La Bunting è convinta, inoltre, che la portata pratica del “nudge” sia tutta da dimostrare: ridurre il riscaldamento globale a forza di “spintarelle delicate” è più o meno come cercare di respingere un tank armati di una fionda. Tutto da buttare, dunque? Non proprio. E vero, sono molte le pubblicazioni recenti che attingono alla sociologia, alla psicologia evoluzionistica e alle neuroscienze per dimostrare quando sia fragile la diffusa convinzione di riuscire a controllare la propria vita e prendere decisioni razionalmente (“Nudge” in effetti ne è solo l'esempio più di moda e politicamente interessante); ma questa forma di distruzione creativa ha dato un contributo culturale importante: innanzitutto ha chiarito la natura sociale del nostro cervello, per lungo tempo sottovalutata. Non siamo, come vorrebbe l'antica metafora, palle da biliardo lanciate casualmente su un tavolo rivestito di panno verde, ma punti nodali di una rete di relazioni.

Semplificando al massimo: “Siamo creature sociali con un’innata tendenza alla cooperazione e all'approvazione altrui: non è dunque solo il semplice tornaconto personale di breve termine ad informare il nostro comportamento”. Inoltre, dalle neuroscienze abbiamo appreso che, a differenza di quanto si è creduto per lunghi anni, il cervello è un organo plastico ed è sempre possibile riprogrammare i suoi processi.

La cattiva notizia è il pericolo di essere efficacemente manipolati non è un'ossessione paranoica; la buona, è che abbiamo nelle nostre mani un'arma potente per “ricablare” il nostro cervello e formulare nuovi pensieri, nuove abitudini, un nuovo stile che ci faccia vivere meglio e in modo più equilibrato le relazioni con nostri simili e con l'ambiente. Idee che danno speranza, perfino a chi è costretto ad affrontare ogni giorno i deliri leghisti e gli scandali di Papi.

di Rosa Ana De Santis

Antonio Iavarone e Anna Lasorella sono italiani, italianissimi; ma in Italia torneranno solo per presentare l’importante risultato della loro ricerca sui tumori maligni del cervello. Fuggiti causa nepotismo baronale nel 1999 dal Policlinico Gemelli di Roma, hanno potuto proseguire le loro importanti ricerche negli Stati Uniti, prima all'Albert Einstein College of Medicine, poi al Columbia University Medical Center. L’individuazione del ruolo svolto dalla proteina Huwe1 nella crescita delle cellule staminali neuronali, ha permesso di studiare il rapporto tra la sua assenza e la proliferazione incontrollata delle cellule nel caso del glioblastoma multiforme, la peggiore forma di tumore maligno cerebrale.

Negli Stati Uniti hanno collezionato successi, i loro lavori sono stati pubblicati su importanti riviste di settore. All’Università Cattolica di Roma il loro prezioso lavoro era soffocato dalle pressioni del Prof. Mastrangelo, contro cui hanno vinto nella causa per diffamazione intentata dal barone, che aveva un figlio da collocare ad ogni costo, e da un ordinamento universitario che, come descritto in una lettera pubblicata nel 2002, ricordava nella scelta di equipe e collaboratori il vecchio stile del feudalesimo.

L’Italia paga un prezzo alto nel fenomeno cosiddetto del “Brain drain”. La sintesi brutale dice che si formano eccellenze che vengono poi utilizzate da altri. Cervelli che fuggono da scarse opportunità, da mancanza di trasparenza nella carriera e da pastoie moraleggianti che, quando non trasformano i laboratori in luoghi di peccato, li paralizzano con overdose di burocrazia. La storia di Iavarone e di sua moglie assomiglia purtroppo a tante altre che la cronaca sgocciola ogni tanto, quasi non volendo, ricordando che questa malattia sembra non essere curabile, che le istituzioni tacciono per omertà mentre il futuro della ricerca semplicemente non sta nell’agenda della politica.

Questa scoperta, che a settembre sarà presentata in Italia, ricorderà a tutti l’occasione che il nostro Paese ha perduto per sempre. Occupato a organizzare ammende e leggi spartane sugli immigrati per fingere di difendere i propri cittadini, costringe all’esilio le sue menti migliori o, per dirla meglio, le lascia andare via senza muovere niente di quell’osannato orgoglio di patria che sventola sui media. L’immigrazione indigna scatenando gli istinti più primitivi e l’emigrazione, che questa volta non è quella delle valigie di cartone e non colpisce più le braccia del popolo, non sembra interessare granché.

Il problema della ricerca italiana non è solo nei fondi disponibili, nella ristrutturazione degli enti di ricerca, finora perseguita a colpi di mannaia proprio sui ricercatori precari; non è solo l’aumento di finanziamenti di grandi privati - a tratti anche molto rischiosa soprattutto nella genetica medica - o la fondazione di un centro di ricerca di riferimento per tutto il paese, come ripete la Gelmini promettendo grandi manovre entro dicembre. E’ il metodo che governa l’assegnazione di posti e concorsi, gli equilibri di potere nei campus universitari e nelle aziende ospedaliere, il criterio del profitto legato al risultato, che fatica ad essere metabolizzato in un paese dove gli uomini di potere hanno un gran da fare per assicurarne altrettanto ai loro discendenti.

Ma il nepotismo nella sfera del pubblico non si fonda solo sull’eredità dei cognomi; esso, infatti, per quanto accentuato in alcune aree (l’università soprattutto), ha limiti numerici che lo rendono statisticamente relativo. E’ invece la partitocrazia, la vera sanguisuga del sapere e del meritare. Come una piovra dai tentacoli infiniti, l’occupazione dei partiti e dei poteri forti dei centri nevralgici della cultura italiana, ha come obiettivo tanto l’accaparramento delle risorse ad essa destinati, quanto il controllo totale sulla formazione delle classi dirigenti. La capacità di veicolare fondi e strutture dirigenti, infatti, è lo scopo di una struttura di potere che fa della cosa pubblica il suo regno privato, del merito strame e della raccomandazione metodo. Questo è l’assetto che permette la stagnazione del sistema paese.

E non risultano digeribili al nostro buonsenso, i finti rimedi delle presunte riforme istituzionali. Rimane una questione culturale e morale che ci porta indietro di tanto tempo e che ci colloca in un pietoso ritardo e lascia che le nostre giovani matricole ancora oggi s’interroghino sull’opportunità d’intraprendere carriere di studio come la medicina o la giurisprudenza provenendo da famiglie comuni.

Fa un po’ sorridere l’Italia che si avventura maldestra nelle teorie economiche del capitalismo più spavaldo, che vuole seguire la moda del “self made man”, sulle orme della religione del berlusconismo in tutte le salse più deteriori e meno nobili, e non riesce invece ad abbandonare la cultura della famiglia come curriculum e posizionamento sociale.

Lontana dalla modernizzazione, nemica della crescita e dell’innovazione, dietro le forme americane della propaganda si mantiene, impunita, un’antica aristocrazia di potere, illegittima ed illegale. Qualcuno la spiega come un effetto collaterale della storia mafiosa, qualcun altro come l’incapacità di una specifica cultura di valorizzare il singolo e il merito in un tessuto sociale dove al centro c’è sempre stata una massa condizionabile e i suoi illustri capipopolo. Ma è potere, controllo del territorio e delle risorse; perché controllare l’oggi, significa determinare il domani.

Il male del nepotismo è un vizio storico, profondo, del nostro Paese. In Italia, sul virus della casta e dei suoi privilegi ereditati per testamento, per sangue, per tessere, si scrivono fiumi di denunce e polemiche. Escono libri, si rincorrono trasmissioni. Chi non ricorda l’albero di cognomi illustri che infestava con la cadenza di un rosario l’università di Bari, presa d’assedio da Annozero? Si scrive, si segnala, si denuncia, ma ogni tentativo di cambiamento è ingoiato da un immobilismo indiscutibile.

La casta non è solo quella che copre di polemiche gli onorevoli della politica. La rimozione del merito e l’ereditarietà del ruolo di successo sono purtroppo presenti, con maggiore possibilità di danno, anche nella scienza e nel mondo della ricerca, a confermare una forma mentale che non riesce ad affrancarsi da quel costume mafioso che continua a legare il potere e i suoi vantaggi alla perpetuazione del comando. L’unico modo per dimostrare che si esiste.


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