di Mario Braconi

Il libro "Nudge", disponibile anche in Italia con il titolo "La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità", è un successo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Nonostante il titolo, che rischia di fare venire l'orticaria ai lettori più smaliziati ("oh no, il solito manuale di self-help made in USA!") è un lavoro diretto più ai governanti che ai comuni cittadini: governanti di ogni colore politico, visto che le idee che i due autori, Thaler (economista) e Sunstein (giurista ed “obamite”) intrigano i Conservatori britannici come i Democratici americani (in particolare, Austan Goolsbee, capo-consigliere economico di Obama).

Da esperto in economia comportamentale quale egli è, Thaler abbatte un vecchio tabù, smentendo l'assunto secondo cui l’agire economico è sempre basato su scelte razionali; compito di un economista è lo studio degli Umani, spiega, e non gli Econ, cioè di quelle astrazioni che gli studiosi hanno creato in laboratorio per farli funzionare nei loro modelli.

Nel mondo di Thaler, il cervello umano più che ad un “supercomputer in grado di risolvere qualsiasi problema” assomiglia a quei “vecchi Apple Mac che andavano piano e si piantavano ogni secondo minuto”. Inoltre, le scelte economiche sono influenzate da quelle dei propri simili molto più di quanto si sia disposti ad ammettere.

“Certo, siamo leggermente superiori ai criceti, ma subiamo l'influenza delle opinioni e delle azioni degli altri” protesta Madeleine Bunting, firma di punta del Guardian; dunque somigliamo “più ad Homer Simpson che al Dottor Spok”, ribadisce Aditya Chakrabortty, caporedattore della pagina economica del quotidiano: però, grazie ad una forma gentile di manipolazione da parte dello stato, ("nudge", appunto) dovremmo poter ottenere quello che da soli non riusciamo a conseguire: metter via qualche soldo in più, evitare l'obesità e le malattie che ne conseguono, chissà, magari anche essere più felici.

Il capo dei Conservatori britannici, David Cameron, è un fan dichiarato del “nudge”: in un suo discorso dello scorso giugno ha detto che non gli dispiacerebbe “spingere dolcemente” i suoi concittadini per aiutarli a risolvere almeno tre problemi che gli stanno a cuore: “rendere socialmente inaccettabile per i giovani andare in giro con un coltello, convincere la gente a riciclare i rifiuti, limitare il consumo di cibi e bevande dannose per la salute”. Cameron ha fatto anche un esempio: se nella bolletta della luce venisse mostrato il conto del vicino di casa, il cittadino si renderebbe conto che può razionalizzare i suoi consumi, con benefici evidenti per l'ambiente e per il suo bilancio familiare - resta da chiarire quale comportamento porrà in essere quando si accorga che il suddetto vicino consuma il triplo di lui: facilmente potrebbe concludere che non valga la pena darsi all’austerità.

Negli USA è invece il Presidente Obama a far propri gli argomenti di Thaler: l’esempio più conosciuto di “nudge à-la-Obama” è il meccanismo per il quale i lavoratori sono automaticamente iscritti in uno schema pensionistico; se lo vogliono, essi possono sempre abbandonarlo, eppure è assai probabile che l'inerzia abbia la meglio e che essi vi lascino investiti i loro risparmi. Basta con i proverbiali bastone e carota: lo Stato, pur consentendo al cittadino di fare scelte dannose per sé e per la collettività, non obbliga a perseguire la strada più giusta. Niente più governo (balia al più, ironizza Chakrabortty) un governo "au pair": creatura “più informale, dalla mano più leggera, ma pur sempre un po’ invadente”.

Come mai il "nudge" affascina sia a destra che a sinistra? Non occorre tirare in ballo i massimi sistemi: basta considerare che quello della "manipolazione dolce" é un approccio pragmatico, con il quale si auspica di trovare un compromesso tra l'ossessione liberista per il libero mercato e quella democratica per il “command and control” (comandare e controllare). E' abbastanza ovvio che siano i partiti politici più dinamici a tentare strade nuove: in America i democratici di Obama, in Gran Bretagna e i Conservatori del furbo Cameron, questo anche perché i Neo-Laburisti, annichiliti dal disastro del progetto di Blair, restano inchiodati a contemplare il proprio ombelico.

Alla sinistra britannica, però, la “spinta gentile” non piace neanche un po': secondo Danny Alexander, il deputato liberaldemocratico che sta coordinando la stesura del programma del suo partito, “c’é qualcosa di preoccupante, di illiberale in questa faccenda del “nudge”: se il Governo intende modificare i nostri comportamenti senza sentire l’obbligo di spiegare che cosa sta facendo, come e con quale obiettivo, in definitiva sta ignorando ciò che desiderano gli elettori”.

La Bunting, dalle colonne del Guardian, è ancora più netta: “Se è vera a tesi del libro, secondo cui i nostri processi di scelta sono sostanzialmente difettosi, il capitalismo consumista non è più un mosaico di milioni di decisioni indipendenti prese da persone che esprimono una loro soggettività, ma solo un metodo grazie al quale le norme sociali vengono manipolate per trasformare cittadini in consumatori entusiasti”.

La Bunting è convinta, inoltre, che la portata pratica del “nudge” sia tutta da dimostrare: ridurre il riscaldamento globale a forza di “spintarelle delicate” è più o meno come cercare di respingere un tank armati di una fionda. Tutto da buttare, dunque? Non proprio. E vero, sono molte le pubblicazioni recenti che attingono alla sociologia, alla psicologia evoluzionistica e alle neuroscienze per dimostrare quando sia fragile la diffusa convinzione di riuscire a controllare la propria vita e prendere decisioni razionalmente (“Nudge” in effetti ne è solo l'esempio più di moda e politicamente interessante); ma questa forma di distruzione creativa ha dato un contributo culturale importante: innanzitutto ha chiarito la natura sociale del nostro cervello, per lungo tempo sottovalutata. Non siamo, come vorrebbe l'antica metafora, palle da biliardo lanciate casualmente su un tavolo rivestito di panno verde, ma punti nodali di una rete di relazioni.

Semplificando al massimo: “Siamo creature sociali con un’innata tendenza alla cooperazione e all'approvazione altrui: non è dunque solo il semplice tornaconto personale di breve termine ad informare il nostro comportamento”. Inoltre, dalle neuroscienze abbiamo appreso che, a differenza di quanto si è creduto per lunghi anni, il cervello è un organo plastico ed è sempre possibile riprogrammare i suoi processi.

La cattiva notizia è il pericolo di essere efficacemente manipolati non è un'ossessione paranoica; la buona, è che abbiamo nelle nostre mani un'arma potente per “ricablare” il nostro cervello e formulare nuovi pensieri, nuove abitudini, un nuovo stile che ci faccia vivere meglio e in modo più equilibrato le relazioni con nostri simili e con l'ambiente. Idee che danno speranza, perfino a chi è costretto ad affrontare ogni giorno i deliri leghisti e gli scandali di Papi.

di Rosa Ana De Santis

Antonio Iavarone e Anna Lasorella sono italiani, italianissimi; ma in Italia torneranno solo per presentare l’importante risultato della loro ricerca sui tumori maligni del cervello. Fuggiti causa nepotismo baronale nel 1999 dal Policlinico Gemelli di Roma, hanno potuto proseguire le loro importanti ricerche negli Stati Uniti, prima all'Albert Einstein College of Medicine, poi al Columbia University Medical Center. L’individuazione del ruolo svolto dalla proteina Huwe1 nella crescita delle cellule staminali neuronali, ha permesso di studiare il rapporto tra la sua assenza e la proliferazione incontrollata delle cellule nel caso del glioblastoma multiforme, la peggiore forma di tumore maligno cerebrale.

Negli Stati Uniti hanno collezionato successi, i loro lavori sono stati pubblicati su importanti riviste di settore. All’Università Cattolica di Roma il loro prezioso lavoro era soffocato dalle pressioni del Prof. Mastrangelo, contro cui hanno vinto nella causa per diffamazione intentata dal barone, che aveva un figlio da collocare ad ogni costo, e da un ordinamento universitario che, come descritto in una lettera pubblicata nel 2002, ricordava nella scelta di equipe e collaboratori il vecchio stile del feudalesimo.

L’Italia paga un prezzo alto nel fenomeno cosiddetto del “Brain drain”. La sintesi brutale dice che si formano eccellenze che vengono poi utilizzate da altri. Cervelli che fuggono da scarse opportunità, da mancanza di trasparenza nella carriera e da pastoie moraleggianti che, quando non trasformano i laboratori in luoghi di peccato, li paralizzano con overdose di burocrazia. La storia di Iavarone e di sua moglie assomiglia purtroppo a tante altre che la cronaca sgocciola ogni tanto, quasi non volendo, ricordando che questa malattia sembra non essere curabile, che le istituzioni tacciono per omertà mentre il futuro della ricerca semplicemente non sta nell’agenda della politica.

Questa scoperta, che a settembre sarà presentata in Italia, ricorderà a tutti l’occasione che il nostro Paese ha perduto per sempre. Occupato a organizzare ammende e leggi spartane sugli immigrati per fingere di difendere i propri cittadini, costringe all’esilio le sue menti migliori o, per dirla meglio, le lascia andare via senza muovere niente di quell’osannato orgoglio di patria che sventola sui media. L’immigrazione indigna scatenando gli istinti più primitivi e l’emigrazione, che questa volta non è quella delle valigie di cartone e non colpisce più le braccia del popolo, non sembra interessare granché.

Il problema della ricerca italiana non è solo nei fondi disponibili, nella ristrutturazione degli enti di ricerca, finora perseguita a colpi di mannaia proprio sui ricercatori precari; non è solo l’aumento di finanziamenti di grandi privati - a tratti anche molto rischiosa soprattutto nella genetica medica - o la fondazione di un centro di ricerca di riferimento per tutto il paese, come ripete la Gelmini promettendo grandi manovre entro dicembre. E’ il metodo che governa l’assegnazione di posti e concorsi, gli equilibri di potere nei campus universitari e nelle aziende ospedaliere, il criterio del profitto legato al risultato, che fatica ad essere metabolizzato in un paese dove gli uomini di potere hanno un gran da fare per assicurarne altrettanto ai loro discendenti.

Ma il nepotismo nella sfera del pubblico non si fonda solo sull’eredità dei cognomi; esso, infatti, per quanto accentuato in alcune aree (l’università soprattutto), ha limiti numerici che lo rendono statisticamente relativo. E’ invece la partitocrazia, la vera sanguisuga del sapere e del meritare. Come una piovra dai tentacoli infiniti, l’occupazione dei partiti e dei poteri forti dei centri nevralgici della cultura italiana, ha come obiettivo tanto l’accaparramento delle risorse ad essa destinati, quanto il controllo totale sulla formazione delle classi dirigenti. La capacità di veicolare fondi e strutture dirigenti, infatti, è lo scopo di una struttura di potere che fa della cosa pubblica il suo regno privato, del merito strame e della raccomandazione metodo. Questo è l’assetto che permette la stagnazione del sistema paese.

E non risultano digeribili al nostro buonsenso, i finti rimedi delle presunte riforme istituzionali. Rimane una questione culturale e morale che ci porta indietro di tanto tempo e che ci colloca in un pietoso ritardo e lascia che le nostre giovani matricole ancora oggi s’interroghino sull’opportunità d’intraprendere carriere di studio come la medicina o la giurisprudenza provenendo da famiglie comuni.

Fa un po’ sorridere l’Italia che si avventura maldestra nelle teorie economiche del capitalismo più spavaldo, che vuole seguire la moda del “self made man”, sulle orme della religione del berlusconismo in tutte le salse più deteriori e meno nobili, e non riesce invece ad abbandonare la cultura della famiglia come curriculum e posizionamento sociale.

Lontana dalla modernizzazione, nemica della crescita e dell’innovazione, dietro le forme americane della propaganda si mantiene, impunita, un’antica aristocrazia di potere, illegittima ed illegale. Qualcuno la spiega come un effetto collaterale della storia mafiosa, qualcun altro come l’incapacità di una specifica cultura di valorizzare il singolo e il merito in un tessuto sociale dove al centro c’è sempre stata una massa condizionabile e i suoi illustri capipopolo. Ma è potere, controllo del territorio e delle risorse; perché controllare l’oggi, significa determinare il domani.

Il male del nepotismo è un vizio storico, profondo, del nostro Paese. In Italia, sul virus della casta e dei suoi privilegi ereditati per testamento, per sangue, per tessere, si scrivono fiumi di denunce e polemiche. Escono libri, si rincorrono trasmissioni. Chi non ricorda l’albero di cognomi illustri che infestava con la cadenza di un rosario l’università di Bari, presa d’assedio da Annozero? Si scrive, si segnala, si denuncia, ma ogni tentativo di cambiamento è ingoiato da un immobilismo indiscutibile.

La casta non è solo quella che copre di polemiche gli onorevoli della politica. La rimozione del merito e l’ereditarietà del ruolo di successo sono purtroppo presenti, con maggiore possibilità di danno, anche nella scienza e nel mondo della ricerca, a confermare una forma mentale che non riesce ad affrancarsi da quel costume mafioso che continua a legare il potere e i suoi vantaggi alla perpetuazione del comando. L’unico modo per dimostrare che si esiste.

di Mario Braconi

Immaginate un software che, una volta installato (gratuitamente) sul vostro computer, vi consenta di sentire tutte le canzoni che volete, creare playlist personalizzate e condividerle con gli amici. Siete esigenti, e pretendete un catalogo ricco, dove trovare artisti di massa come materiale di nicchia. Ma siete anche ragazzi per bene e vi ripugna scaricare illegalmente da server pirati. E, oltretutto, siete anche un po’ a corto di soldi ultimamente e di spendere soldi in CD proprio non avete voglia. Se pensate che questo “nirvana” dei melomani sia poco più di un’idea platonica in un mercato come quello della musica digitale online, dove la Apple, con il suo i-Tunes la fa da padrone e dove, se vi va di sentire qualcosa di nuovo, vi tocca comprare (quasi) a scatola chiusa, dovrete ricredervi.

di Rosa Ana De Santis

La tanto attesa enciclica di Ratzinger, Caritas in Veritate, apre la dottrina sociale della Chiesa cattolica, con maggiore sistematicità rispetto al passato, sui tanti problematici risvolti del mondo globale. La cronaca è fitta. Dalla crisi finanziaria, al tema della cooperazione e delle sue colpevoli lacune, alla questione dei migranti, fino al tema della dignità del lavoro, per poi passare alla grande questione dello sviluppo tecnologico in ogni campo dello scibile umano e al suo legame, carico di tensione e incoerenze, con il linguaggio della morale. La storia del pensiero della Chiesa sui temi sociali, cui Ratzinger si ispira con continue citazioni, è quella che inizia nel 1891 con la Rerum Novarum di Leone XIII, per poi arrivare alla Popolorum progressio di Paolo VI, e ai due importanti precedenti lasciati da Wojtyla con la Sollecitudo Rei Socialis e la Centesimus Annus.

di Mario Braconi

C’era una volta un uomo che, a dispetto dei suoi 50 anni, voleva restare bambino; ed una donna un po’ tirchia che sgranocchiava caramelle (hard candy). Anche se la sciatteria e la superficialità della stampa li ha identificati, rispettivamente, come Re e Regina della Musica Pop, i due non si sono mai sposati (né mai sono stati insieme) ed hanno collaborato una sola volta, anche se non se ne è fatto nulla (pare che il Re si sentisse a disagio per i testi un po’ sconci ideati dalla Regina). Si tratta ovviamente di Michael Jackson e Madonna, nati a due settimane di distanza in due Stati americani confinanti, di professione star globali.


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