di Agnese Licata

"Qua se ti vedono di colore o sei puttana o fai le pulizie. Non puoi essere altro per loro". Parla a bassa voce, Margaret Edaqe. La forza di questa piccola donna keniana è tutta in due occhi neri che non hanno paura di guardare dritto in quelli di chi ha di fronte. Con questa voce flebile e con questi occhi decisi, Margaret racconta la quotidianità di una donna di colore in una città - Trieste - che fa della multietnicità la sua bandiera, il suo vanto più grande. Racconta di un lavoro, quello di mediatrice culturale, che troppo spesso è confuso con la semplice traduzione. E si sporge in avanti, si avvicina, quasi per essere sicura che la sua voce e la sua rabbia arrivi dall'altra parte, quando parla del suo Paese, del suo continente, di quest'Africa che piano piano "sta morendo".

di Cinzia Frassi

Come accaduto ad alcuni dei suoi predecessori, anche il ministro Mastella si troverebbe nella scomoda posizione di portare la croce della laicità dello Stato, sancita dalla Carta Costituzionale.
Ad investirlo della questione sarebbe il giudice Luigi Tosti, magistrato ordinario di Camerino e imputato in vari procedimenti penali davanti al Tribunale dell'Aquila, tutti riguardanti la sua richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule giudiziarie e il suo contestuale rifiuto di tenere udienze alla presenza sul muro alle sue spalle del simbolo religioso. Molti ministri della Giusitizia, da Claudio Martelli a Giovanni Maria Flick ad Oliviero Dilliberto, furono destinatari, tra gli altri, di missive volte ad ottenere risposte circa l'annosa questione crocifisso si, crocifisso no nella lunga vicenda processuale Montagnana, relativa in particolare all'esposizione del crocifisso presso i seggi elettorali. Ancora, l'ex ministro della Giustizia Castelli si trovò a fare i conti con le polemiche legate ai casi di Adel Smith e della cittadina finlandese, vicende giudiziarie simili per la rimozione dei simboli religiosi dalle aule scolastiche.

di Marco Dugini

Mentre la polemica sul testo dell'Ucoii, che ha paragonato le stragi in Libano a quelle di sterminio razziale della Shoah, ha nuovamente infiammato il dibattito sull'integrazione dei cittadini non comunitari, Berlusconi parla in termini nostalgici di "Italia agli italiani", il ministro Amato propone una "Carta dei valori" democratici da sottoscrivere per ottenere la cittadinanza, alcune forze politiche minacciano prossime "invasioni", e si torna pure a parlare di politiche dell'integrazione, assimilazionismo, multiculturalismo, cioè concetti e modelli da lungo tempo dibattuti in sociologia. In questo caso il campo sociologico è assai interessante, in quanto scevro dalle strumentalizzazioni e dall'ideologia della paura più o meno politically correct cui ci ha abituato la politica, in particolare le formazioni dalle fondamenta culturali populiste e/o xenofobe.La distinzione tra i due campi, l'uno sociologico, l'altro politico, si vede bene attraverso le prese di posizione di chi li batte entrambi.

di Alessandro Iacuelli

Il quadrimotore B-29 battezzato Enola Gay dal nome della madre del suo comandante, il colonnello Paul W. Tibbets, era partito alle 2.45 del 6 agosto 1945 dalla pista di Tinian, nelle isole Marianne.
Con il B-29 di Tibbets erano partiti altri due aerei, muniti di apparecchiature per rilevare gli effetti prodotti dallo scoppio; a loro volta i tre quadrimotori erano stati preceduti da altri ricognitori, che avevano il compito di segnalare a Tibbets, in base alle condizioni atmosferiche, su quale delle 4 città individuate come possibili obiettivi occorreva dirigersi.
A bordo sapevano di portare un carico eccezionale, come eccezionali erano le disposizioni date per quel bombardamento, diverso dai precedenti. Tra le misure prescritte c'era quella di indossare, alcuni attimi prima del lancio, occhiali scurissimi da tenere fino ad esplosione avvenuta. La contraerea giapponese non entrò in azione, si trattava di un solo aereo, ad altissima quota. A quota talmente elevata da non potere fare danni, con delle bombe convenzionali. Non fu neanche azionato l'allarme antiaereo per allertare la popolazione civile. Di solito, gli aerei americani che volavano a quote così alte erano dei semplici ricognitori.

di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro

Infuria da qualche tempo al di là dell'atlantico una strana passione per Roma e il suo impero, questa passione riguarda in principal modo il domino che la civiltà dei Cesari è riuscita ad ottenere in gran parte del mondo conosciuto.
Nell'eccezione statunitense, gli USA rappresentano la versione moderna dell'impero Romano e della sua missione civilizzatrice.
Principali animatori di questo dibattito sono le fondazioni di ispirazione neocon. In questi anni, infatti molti analisti e think-tank vicini al governo centrale hanno sterzato verso i paragoni con l'Imperium di romanica memoria. Questa nuova retorica delle elites conservatrici ha trovato spazio, anche da noi, in un articolo di qualche mese fa sul Il Riformista, in un editoriale intolato "L'america faccia sua la lezione dell'Impero Romano". L'autore è nientemeno che Rufus Fears,il presidente di quella Heritage Foundation legata a doppio filo con il partito repubblicano e la figura di Ronald Regan.


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