di mazzetta

La crisi ha battuto un colpo e Dubai è rimasta al tappeto. Tecnicamente la richiesta di congelamento dei pagamenti da parte di una delle imprese dello sceicco regnante non è un default del paese, ma il significato per la comunità internazionale è comunque quello di un default visto che le casse dello stato si confondono con quelle dell'imprenditore e che in nessuna di queste sembra esserci il denaro per pagare i debiti.

La giostra finanziaria dell'emiro è rimasta a secco di capitali e non da oggi; sono ormai mesi che il destino dell’emirato appare segnato e oggi Dubai è nella condizione che fu dell'Argentina, non ha i soldi per pagare i debiti in scadenza. Non ce li ha perché il potere magnetico di Dubai e dei suoi investimenti immobiliari è evaporato con l'apparire della grande crisi e con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha trovato scoperte le scommesse sul futuro dell'emiro e dei suoi soci.

Non ci sono i soldi per aprire nuovi cantieri e nemmeno per terminare quelli già iniziati, progetti immobiliari già acquistati sulla carta in giro per il mondo, caparre già pagate e mutui già accesi che stanno andando in fumo perché il valore di quelle proprietà tende a zero, visto che in gran parte non si sa quando e se saranno mai realizzate. Lo sceicco e i suoi soci vendevano allo scoperto, come con le catene di Sant'Antonio e gli ultimi investitori pagavano a prezzi drogati la realizzazione delle case di quelli che li avevano preceduti. E’ bastato che la crisi rallentasse l'afflusso e lo sceicco si è ritrovato nella situazione di un Maddof qualunque, anche se sicuramente finanziariamente più coperto di Maddof.

Per questo le azioni di numerose istituzioni finanziarie sono andate giù alla notizia del default prossimo. Molte banche europee sono esposte per decine di miliardi di euro con Dubai e con gli altri paesi dell'area che rischiano di essere accomunate dalle sventure del vicino, sono cadute le borse, è franata la Sterlina (già svalutatissima) e un brivido ha percorso veloce la finanza globale, ma l'effetto dell'annuncio di Dubai va molto oltre.

In primis è la dimostrazione, la prova provata, che i “salvataggi” finanziari non hanno salvato nessuno e sono stati solo una costosissima operazione di maquillage. Nemmeno le iniezioni di capitali da parte dei “cugini” del Golfo ha risollevato il mercato immobiliare di Dubai, che non è esattamente un mercato rovinato dai famigerati sub-prime, ma che sconta una distanza enorme tra il valore presunto degli immobili e quello che possono realizzare in questo momento. L'intervento dei vicini a coprire completamente la voragine, fosse pure l'emirato cugino di Abu Dhabi, non è cosa semplice, perché chiama in causa delicati equilibri politici per i quali non sembra praticabile che lo sceicco ceda la guida delle attività fallite, che sono carne della sua carne e il successo delle quali è legato alla visione di futuro che ha proiettato sul suo regno.

La borsa che corre, mentre tutti i fondamentali arretrano, è la conseguenza di queste mosse di trucco & parrucco: inondare i mercati finanziari di un'enorme massa di denaro, mentre negli Stati Uniti e altrove si permetteva alle istituzioni finanziarie fallite di manomettere i bilanci per rimandare il fallimento formale, ha permesso di tappare solo apparentemente la falla nei conti. Invece di correre a riempire i buchi, coperti dalla possibilità di assegnare valori di fantasia a poste di bilancio altrimenti mutilate, le grandi istituzioni finanziarie non hanno fatto altro che buttare i soldi dei bailout statali (non solo di quello americano) sul mercato finanziario, esattamente come facevano prima della crisi.

Coprire i buchi non fa guadagnare e comprare a prezzo di fallimento genera aspettative di profitti sicuramente più allettanti, ancor di più se l'iniezione di capitali ha la capacità d'inflazionare valori di mercato ormai crollati. La borsa è decollata di nuovo, ma senza che i fondamentali sottostanti migliorassero e senza che nessuno si sia curato di riempire le voragini lasciate dallo scoppio delle varie bolle; si è semplicemente sperato l'impossibile, e cioè che la risalita dei corsi azionari facesse recuperare i denari persi e anche quelli dei guadagni virtuali iscritti a bilancio. Intanto i crediti inesigibili sono cresciuti inesorabilmente, altre banche sono fallite e l'implosione dell'economia reale è proseguita imperterrita, si è erosa la massa dei consumatori e anche la base di capitale è ben lontana dall'essere ricostituita ai livelli ante-crisi.

L'unico risultato certo è che i grandi amministratori della finanza mondiale hanno guadagnato come prima della crisi, se non di più, facendo esattamente quello che facevano prima della crisi, che nella pratica significa gonfiare bolle. Altre bolle si sono segnalate ovunque, perché una buona parte dei capitali non più attratti dalla pericolosa economia statunitense hanno cercato di allocarsi nei paesi in via di sviluppo o in quei segmenti delle economie asiatiche più promettenti. Se la scarsità di capitali è un male, la sovrabbondanza provoca comunque problemi e, infatti, molti governi sembrano orientati a regolare l'afflusso di capitali per difendersi da questa alluvione ingestibile.

Le grandezze relative sono tali che una porzione minima degli investimenti dirottati dagli Stati Uniti può trasformarsi in un diluvio di denaro per un paese emergente, che spesso non ha nemmeno i mezzi per controllare certi movimenti, ma ci sono molte economie asiatiche che a loro volta registrano quotazioni irrealistiche e quindi bilanci incerti e poco affidabili. Anche la ricchezza della Cina è una grandezza sopravvalutata e nasconde opacità bancarie e sopravvalutazioni immobiliari.

La velocità con la quale le istituzioni finanziarie hanno finto di aver risolto qualcosa è funzionale alla necessità di evitare di giungere alla resa dei conti, perché se è vero che l'economia globale è dominata dal sentiment, è pur vero che i numeri hanno la sgradevole caratteristica di fregarsene del sentiment. I numeri della crisi sono stati riscritti, nella speranza che la realtà economica avesse il buon gusto di riallinearsi in fretta ai bilanci taroccati.

I numeri incorruttibili ci dicono che mentre le borse hanno ripreso a correre, tutto il resto è arretrato. Sempre più disoccupati, sempre più banche fallite, sempre meno capitale disponibile per l'economia reale. Come in passato, tutti guardano al magico calderone che dovrebbe moltiplicare i soldi e agli stregoni che presiedono a questo rito e molti piccoli investitori avranno già ributtato nel calderone quanto scampato alla crisi; ma lo stregone è sempre lo stesso di prima, quello che costruiva i derivati con una coda di Parmalat, un po' di pelo di bond Argentino e succo di Cirio.

È per questo che il denaro viaggia sempre nella stessa direzione, sarebbe ben strano che i grandi della finanza si preoccupassero di creare profitti da distribuire ai piccoli investitori o di finanziare attività non speculative per questo sconosciute. I politici che hanno sperato nella ripresa dell'erogazione del credito personale e strumentale erano illusi o conniventi, trattandosi di impieghi che generano meno profitti della roulette finanziaria.

Il botto di Dubai potrebbe riportare tutti alla realtà, il sentiment si è incrinato subito e tutti hanno capito qual è la posta in gioco. Infatti le azioni degli emirati si sono inabissate e i costi per assicurare i bond di tutti i paesi della Penisola Arabica sono schizzati verso l'alto. Una banca Saudita ha fermato un'emissione di bond in programma nei prossimi giorni e le altre economie dell'area hanno accusato il colpo, che si è allargato a cerchi concentrici fino ad increspare tutti i mercati. A poco sono servite le rassicurazioni che da Dubai sono giunte per chiarire che non si tratta di un default e che la questione non riguarda il ramo delle attività che si occupa della gestione portuale, la quarta impresa al mondo in questo campo. Il solo annuncio di Dubai ha messo molti attori in difficoltà reali e tangibili, difficoltà che ancora una volta rischiano di sommarsi a valanga.

C'è da credere che la fantomatica “ripresa” non sarà favorita dalla notizia, ma c'è anche il rischio che la crisi di Dubai rompa quel magico velo che ancora separa i mercati finanziari dalla realtà; nel qual caso c'è da tremare sul serio, perché è abbastanza evidente che non si potrà continuare per molto a negoziare titoli e valutare proprietà come se nulla fosse successo. La botta di Dubai rischia di incrinare quel che resta della fiducia di buona parte degli investitori, unendosi alla serie ormai completa dei dati economici tendenti al disastro, in particolare quelli che provengono dagli Stati Uniti.

Nessuna ripresa plausibile sarà mai in grado di neutralizzare in breve tempo le perdite reali nascoste nei bilanci e determinate con lo scoppio della crisi e nessuna ripresa plausibile è in grado di riportare a breve l'occupazione ai livelli pre-crisi. Ma il vero problema è che nessuno di questi obiettivi sembra nel mirino delle persone e alle istituzioni che dovrebbero regolare il mercato finanziario globale, tutte invece abbastanza propense a seguire ancora una volta l'istinto primario della caccia al profitto a breve termine. Per preservare questo stato di cose fino ad oggi non è stata implementata alcuna legislazione, locale o globale, che abbia come obiettivo la repressione significativa dei comportamenti leciti ed illeciti che hanno provocato la crisi.


 

di Mario Braconi

Goldman Sachs è la sola tra le banche d'affari sopravvissuta quasi indenne alla crisi finanziaria: pur non essendo la più grande del mondo (30.000 dipendenti, 11 volte di meno della Industrial and Commercial Bank of China), né quella con il bilancio più robusto (totale attività pari a circa 900 miliardi di dollari, contro i 2,4 del colosso britannico HSBC), è di gran lunga la più redditizia (222.000 dollari per addetto - la seconda in classifica, JP Morgan, arriva "appena" a 133.000). Simbolo quintessenziale del liberismo più spericolato, icona del mondo finanziario, conventicola infiltrata nelle stanze dei bottoni dell'universo mondo, c'è chi la chiama Goldmine Sachs ovvero Miniera d'oro - Sachs, chi Government Sachs, ovvero Governo - Sachs.

La banca d'affari fondata a New York nel 1869 da due ebrei bavaresi (Marcus Goldman e Samuel Sachs) è stata per quasi un secolo e mezzo oggetto di ammirazione quanto di odio: il giornalista freelance John Arlidge è riuscito a penetrare all'interno del quartier generale di Goldman Sachs, un edificio anonimo al numero 85 di Broad Street, a New York, e a raccontare la Goldman ai lettori del Sunday Times.

Arlidge intervista Lloyd Blankfein, CEO di Goldman Sachs, nato 54 anni fa nel Bronx da un postino e una receptionist, laureato ad Harvard con borsa di studio. Con una busta paga da 68 milioni di dollari (nel 2007), mezzo miliardo di dollari di azioni della sua banca nella sua custodia personale, un appartamento da 30 milioni di dollari a Central Park West e un buen retiro di 2.000 metri quadri negli Hamptons, Blankfein è uno di quelli che ha risalito la scala sociale a tre gradini alla volta. Parla da iniziato (il che non è poi così strano, visto che è il capo supremo di un'organizzazione che assomiglia più ad una chiesa laica che ad una banca) e la sua autostima è apparentemente illimitata: "Noi (le banche) siamo importanti. Aiutiamo le aziende sostenendole nel processo di reperimento di capitali. Le società creano benessere. Questo crea posti di lavoro, che stimolano nuova crescita e nuovo benessere. Abbiamo una missione sociale". Più una professione di fede che una provocazione, pare.

La situazione patrimoniale di Goldman Sachs è molto diversa da quella delle concorrenti: innanzitutto ancora esiste, cosa che non può dirsi ad esempio di Lehman Brothers (lasciata fallire e poi suddivisa tra Nomura e Barclays), della Bear Stearns (acquistata per pochi dollari dalla JP Morgan grazie anche all'aiuto delle autorità pubbliche americane); inoltre, ha subito perdite accettabili (i mutui le sono costati 1,7 miliardi di dollari), cosa che le ha impedito di fare la fine di Citi (salvata con i soldi pubblici), o di Merrill Lynch (spinta a forza tra le braccia di Bank of America). E poi, pur avendo incassato 10 miliardi di dollari dal TARP (Troubled Asset Relief Program - programma di recupero di attività di difficile liquidazione), li ha restituiti dal Governo con gli interessi (si dice di oltre il 20%). Cosa che peraltro consente alla Goldman di pagare tranquillamente bonus stellari ai suoi dipendenti anche in tempi di crisi e di grande quanto giustificata impopolarità per le banche: per quest'anno sono stati messi da parte a questo scopo 21 miliardi di dollari, pari ad un bonus medio di 700.000 dollari per ogni dipendente, dal CEO all'ultimo dei contabili.

Come ha fatto GS a passare indenne attraverso lo tsunami che ha sbaragliato tutte le sue concorrenti? Se lo si chiede ai suoi dirigenti, come ha fatto Arlidge, le risposte tenderanno all'autoincensamento. Secondo Liz Beshel, madre single quarantenne nonché tesoriera di gruppo (la più giovane nella lunga storia di Goldaman), si sono evitati i danni esplosivi sui subprime grazie ad una politica molto prudente di gestione del rischio. Tutte le posizioni in essere, continua Beshel, sono valutate quotidianamente al loro valore di mercato; quando si è visto che il portafoglio dei mutui non stava producendo la performance desiderata per più di una settimana, "quella che in altre banche sarebbe stata considerata una differenza irrilevante, o addirittura un arrotondamento, scatenò in Goldman Sachs un processo di verifiche culminato con un meeting tra i suoi grandi capi", nel quale si decise di alleggerire la posizione della banca su quel mercato. Certo, vi furono comunque perdite rilevanti, ma stiamo parlando di poco meno di 2 miliardi di dollari (si consideri ad esempio che UBS in questo modo ne ha persi quasi 60).

L'infallibilità di Goldman Sachs è uno di quei miti così pervicacemente alimentati, che metterlo in dubbio sembra quasi un'eresia. Goldman ha una sua filosofia, basata su alcuni presupposti: innanzitutto, una patologica attrazione per il denaro. Dice un ex Goldman che la cultura della banca è "completamente ossessionata dal guadagno. Mi sentivo come un asino davanti alla più grossa e succulenta carota che avessi mai immaginato. Il denaro è il metro con cui si misura il tuo successo. Se non compri una casa o una barca più grande, significa che stai rimanendo indietro". In secondo luogo, Goldman alimenta nelle sue persone il culto dell'insicurezza.

Come dice Mr. Sherwood, capo dell'ufficio di Londra, "c'è un clima di costante e profonda paranoia in tutto quello che facciamo". Si dice che i candidati per un posto di lavoro in Goldman vengano sottoposti mediamente a venti colloqui prima di essere assunti, anche se si registrano casi limite in cui le selezioni si sono concluse solo dopo la trentesima intervista. Se ci fosse ancora qualche dubbio sull'osservanza “darwinista” del dipartimento Capitale Umano (non risorse umane, "capitale umano"), è bene sapere che la regola, in GS, è "cresci o te ne vai", non c'è spazio per le mezze tacche.

Il terzo pilastro è quello delle relazioni: per inveterata tradizione, gli ex Goldman Sachs occupano poltrone rilevanti in tutti i gangli del sistema economico, finanziario, politico e mediatico, negli USA come in Europa. Hanno alle spalle una carriera in Goldman Sachs, ad esempio, il segretario del tesoro di Clinton (Hank Paulson), l'attuale presidente e il precedente direttore della Federal Reserve di New York, il capo dello staff dell'attuale Segretario di Stato (Mark Patterson), il consigliere economico di Hillary Clinton, i capi di ieri e di oggi nel New York Stock Exchange (la Borsa di New York), e perfino il capo delle operazioni della SEC (la CONSOB americana). Anche Mario Draghi, attuale Governatore della Banca d'Italia, è un ex Goldman.

Ma per capire veramente che cosa è Goldman Sachs, è necessario allontanarsi dall'ortodossia dei dogmi che essa stessa ammannisce alle folle. Innanzitutto, uno dei punti di forza della banca è quello di essere contemporaneamente advisor (consulente, non di rado dei Governi) e trader (operatore di mercato). Ciò significa che con una mano fa consulenza ai clienti in grosse operazioni e con l'altra prende posizione su mercati (azioni, obbligazioni, materie prime) sui quali si muove da maestra grazie alla sua esperienza di advisor. Ovviamente, qualsiasi Goldmanite ribatterà citando la mitica regola secondo cui i due bracci del business della banca sono separati da rigorose "muraglie cinesi"; si dice che, se un banchiere d'affari di Goldman entra nella sala operativa della sua stessa banca, verrà immediatamente interrogato dai suoi capi.

A costo di sembrare qualunquisti, questo idilliaco quadretto mostra la corda quando si tenti di rispondere alla domanda: qualora un grosso affare con ritorni da capogiro renda necessario non dico saltare, ma semplicemente anche solo sbirciare dall'altra parte della "muraglia", il tipico uomo (o donna) Goldman - praticamente un tossico del denaro - saprà resistere alla tentazione?

Inoltre, quella che viene spudoratamente  spacciata per sagacia nell'interpretazione delle tendenze dei mercati è in realtà la capacità di pompare certi settori per specularvi sopra, salvo poi abbandonarli repentinamente a missione compiuta. Non sono pochi gli analisti che attribuiscono a Goldman Sachs un ruolo essenziale nella creazione di bolle speculative (è stato così per la febbre delle dot.com, per il boom delle materie prime, e poi del mercato immobiliare) dalle quali la banca ha beneficiato con collocamenti azionari e trading sul debito - salvo poi tirarsi indietro subito dopo aver portato a casa il profitto - circa un minuto prima che tutto andasse in malora.

Un altro caso interessante è quello che ruota attorno al destino della AIG (American Investment Group), venditrice dei celebri credit default swaps, assicurazioni sul rischio di fallimento dei prenditori di fondi. Risulta che quando l'AIG, ormai decotta, fu rilevata dal Tesoro e dalla Fed, la prima, inspiegabile mossa del nuovo proprietario pubblico della compagnia assicurativa fu quella di liquidare il 100% del valore dei CDS alle banche che a suo tempo li avevano comprati, questo quando da mesi ormai AIG stava negoziando per pagare solo il 60% del loro valore facciale.

Una differenza che vale 13 miliardi di dollari in più passati direttamente dalle tasche dei contribuenti ai forzieri dei clienti di AIG (tutte le principali banche, tra cui anche Goldman Sachs). Stranamente, al timone della Federal Reserve ai tempi c'era Henri Paulson (ex boss della Goldman Sachs); stranamente Paulson, che pure aveva giurato di non farlo, ha incontrato i suoi ex colleghi del board di Goldman Sachs ad un "evento sociale" a Mosca (un luogo dove ci potrebbero essere problemi di giurisdizione); ancor più stranamente, proprio mentre Paulson lavorava al salvataggio di AIG, i tabulati telefonici provano che, in soli sei giorni, egli si sia sentito ben 24 volte con Blankfein, il nuovo CEO di Goldman Sachs.

Eppure Goldman ha avuto l'arroganza di sostenere pubblicamente che, se pure AIG fosse andata in bancarotta, la banca non sarebbe affondata, dato che era protetta da una combinazione di cassa e di garanzie. Peccato che David Viniar, CFO di GS, si sia rifiutato di rendere note le controparti di questi fantasmatiche operazioni di copertura, cosa che rende "ridicola", nonché controproducente, la sua prova muscolare. Sembra dunque che il vero volto di Goldman Sachs assomigli molto più a quello dipinto dai molti cospirazionisti che alle fattezze rassicuranti che ci propongono i suoi capi.

di Mario Braconi

"Non è accettabile che nel settore finanziario i benefici del successo vengano attribuiti ad una minoranza mentre i costi del fallimento siano messi in conto a tutti noi. I mercati finanziari globali vanno guidati verso una maggiore aderenza ai valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini: duro lavoro, senso di responsabilità, integrità e correttezza. Dobbiamo ideare un contratto sociale ed economico più efficiente tra istituzioni finanziarie e il pubblico, che si basi sulla fiducia reciproca e sulla equa distribuzione di rischio e rendimento." Non è la citazione di un militante no-global: è un estratto del discorso con cui il premier britannico, Gordon Brown, si è rivolto ai colleghi del G20 dello scorso fine settimana, tenutosi a St. Andrews (Scozia).

Brown fa sapere al mondo che desidera mettere in riga le banche, cioè quelle efficienti istituzioni che, secondo una stima di Bloomberg, sono costate ai cittadini dei paesi occidentali qualcosa come 500 miliardi di dollari tra iniezioni di capitale a copertura delle perdite, garanzie ed altre forme di salvataggio dal fallimento. Brown non ha una ricetta ben definita: potrebbe infatti trattarsi di costringere le banche a pagare il premio di una specie di "polizza assicurativa" a fronte del diritto ad usufruire del sostegno pubblico in caso di necessità (ipotesi sponsorizzata dagli Americani); ovvero della costituzione di un fondo speciale; o dell'emanazione di regole transitorie in materia di capitale da allocare a fronte degli impegni assunti; oppure ancora - teniamoci forti - di una tassa globale sulle movimentazioni di tipo finanziario (operazioni in cambi e derivati).

Brown ha tirato fuori la Tobin Tax dal cassetto in cui stava ammuffendo dagli Anni Novanta, e oggi sembra che le sue opinioni in tema di tassazione dei capitali non differiscano molto da quelle di Attac, la ONG che ha fatto della "tassa Tobin" uno dei suoi cavalli di battaglia. Una mossa che ha spiazzato politici e commentatori, anche perché tassare le transazioni finanziarie è considerata un'idea un po' estremista ai limiti del socialismo reale. Senza contare che ogni volta che è uscita dalle accademie per finire dentro qualche programma politico, ha avuto vita breve (e difficile).

L'ultimo caso si è verificato la scorsa estate in Gran Bretagna, quando Lord Adair Turner, capo della Financial Services Authority (la CONSOB del Regno Unito) in una intervista al mensile Prospect, ha sostenuto che per rimettere in sesto il settore finanziario britannico si rendono necessari interventi talmente drastici da far sembrare la polemica sui bonus dei banchieri "una digressione populista"; Turner ha poi sparato a zero sulla City, la quale, lungi dall'essere il fiore all'occhiello dell'economia d'Oltre Manica, ne costituisce invece l'elemento destabilizzante per eccellenza. Impagabile il passaggio dell'intervista in cui Lord Turner si duole del fatto che la finanza in questi anni ha risucchiando alcuni dei migliori talenti del Paese per aggiogarli a lavori "socialmente inutili". Turner conclude il suo intervento incendiario dichiarando che una eventuale tassa globale sulle transazioni finanziarie è un modo accettabile per contenere gli attività e profitti del settore finanziario, ormai fuori controllo.

Il numero di Prospect con la sua intervista è appena uscito dalle rotative e Turner è costretto a difendersi da una lapidazione mediatica: le questioni relative alla tassazione non sono materia del Ministro delle Finanze, non del capo di un'Authority, che invece dovrebbe occuparsi di regolamentare il mercato, gli si fa notare freddamente; l'idea di una tassa sui movimenti finanziari è roba per malati di mente - quasi impossibile da applicare e gravemente dannosa della principale attività del Paese, la finanza (60% del PIL della Gran Bretagna). Dettaglio interessante: in quell'occasione, il governo non si affretta (anzi) a difenderlo mentre sul suo capo solenne piovono incudini dai piani alti di Canary Wharf.

Guardandola dal punto di vista della politica interna, la boutade di Brown va inserita nel contesto dei risultati disastrosi del suo mandato e costituisce l'estremo tentativo del premier di guadagnare qualche consenso progressista dicendo qualcosa talmente "di sinistra" da essere inapplicabile. Questa è anche l'interpretazione (forse un tantino ingenerosa) che dell'uscita di Brown fa Vincent Cable, portavoce del Liberaldemocratici: "Una Tobin Tax è una buona idea, lo è stata da decenni, ma i governi ancora non hanno mai trovato modo di applicarla. Brown farebbe meglio a sfruttare il breve periodo che lo separa dal termine del mandato per introdurre misure più pratiche, quali l'incremento delle imposte sulle banche che sono troppo grandi per poter fallire." Eppure, l'idea sviluppata dall'economista premio Nobel nei primi anni Settanta (mettere "un po' di sabbia tra gli ingranaggi della finanza" per limitare i movimenti speculativi) è tuttora valida,  e probabilmente non merita di essere cestinata senza qualche approfondimento.

A prescindere dalle questioni di cucina laburista, come sottolinea William Hunt sul Guardian, la provocazione di Brown è "perfetta". In effetti essa non è che un modo per  rispondere alla domanda che molti cittadini si stanno ponendo in questi mesi: la relazione tra la Grande Finanza e i cittadini tassati è simmetrica e corretta? Non sembra proprio. Inoltre, non è vero che un'eventuale tassa Tobin sarebbe complicata da applicare e ridurrebbe la liquidità del sistema: al contrario, se dovesse passare la proposta americana, che prevede scambi centralizzati per una gran quantità di transazioni finanziarie, la tassa potrebbe essere applicata in modo assai agevole. Ma soprattutto è assurdo sostenere che la possibile riduzione del volume transato sui mercati in conseguenza della tassazione sarebbe un danno in senso assoluto, come argomentano molti nemici della Tobin tax.

Hunt ricorda che il volume delle transazioni che circolano sui mercati finanziari vale 10 volte il PIL mondiale: "Le dimensioni dei mercati finanziari sono esplose; essi sono dominati da banche-portaerei in grado di prendere in prestito migliaia di miliardi di dollari che, in caso di crisi di fiducia, possono buttar giù intere economie. Un modello efficiente solo per i singoli banchieri, i quali sono messi in condizioni di guadagnare fortune, ma inefficiente per tutti gli altri."

Secondo uno modello sviluppato di recente dall'Istituto Austriaco di Ricerca Economica, una tassa Tobin dello 0.05% su tutte le transazioni in divisa, in azioni e in derivati, produrrebbe un gettito di 360 miliardi di dollari l'anno; ma anche un gettito di 36 miliardi l'anno, corrispondente ad un'aliquota pari ad un decimo dello 0.05% (cioè dello 0.005%) produrrebbe un gettito interessante (36 miliardi). Max Lawson, consigliere anziano della ONG Oxfarm, non nasconde il suo entusiasmo: "Sarebbe un passo significativo nel processo di risanamento dopo il disastro provocato dall'avidità sfrenata dei banchieri. Ogni minuto, cento persone nel mondo vengono gettate nella povertà estrema a causa della crisi economica. Il denaro ricavato dalle transazioni finanziarie potrebbe cambiare radicalmente le loro vite."

Purtroppo a freddare gli entusiasmi di Brown e dei fan della Tobin Tax arrivano i rappresentanti di USA e Canada. In particolare, Geithner, in un'intevista a Sky News, ha dichiarato: "Questa tassa non è tra le misure che siamo pronti a sostenere, ma ritengo che tutti condividiamo il basilare interesse a governare un sistema in cui i cittadini che pagano le tasse non siano esposti ai rischi ed in cui le istituzioni finanziarie subiscono le conseguenze dei loro errori." Secondo Alastair Darling, che è subito corso in aiuto di Brown, la relativa freddezza di Geithner sul progetto di una tassa sulle transazioni finanziarie non esclude che anche gli USA stiano pensando a qualche strumento diverso che abbia comunque per oggetto il settore finanziario.

Non è escluso che quella di Darling sia la difesa d'ufficio di un autorevole compagno di partito e di governo di Brown; ma è difficile dare torto al collaboratore di Brown intervistato dal Guardian quando sostiene che anche i salvataggi statali delle banche e il condono del debito dei paesi in via di sviluppo fino a pochi anni fa erano considerati idee astratte ed invece hanno finito per guadagnare consenso in patria e all'estero. Ora la palla è nel campo americano.

 

 

 

di Mario Braconi

Riferisce il quotidiano Times che in una recente circolare interna, stilata in un inglese esilarante quanto incomprensibile, uno dei grandi capi della banca d’affari giapponese ha ribadito una volta per tutte le regole di etichetta che la Casa impone ai suoi dipendenti (in particolar modo a quelli di sesso femminile). Smalto per unghie di colori accesi, pantaloni al di sopra della caviglia, camicie di tessuto lucido, o con le maniche più corte della metà del bicipite, colpi di sole sui capelli: tutte queste cose sono sintomo di scarsa serietà  e pertanto non  sono coerenti con i rigidi canoni del dress code imposto dal vertice aziendale.

Sembra che i principali bersagli polemici dell'ignoto censore siano i dipendenti di Lehman Giappone, acquistata da Nomura a setttembre del 2008, dopo il fallimento della casa madre: è possibile che alla Lehman, negli USA come nel Paese del Sol Levante, le donne tendessero a godere (almeno in apparenza) di pari diritti rispetto ai loro colleghi maschi, un fatto che ai vertici di Nomura proprio non pare vada giù. La circolare-monstre citata dal Times è solo il caso più eclatante del conflitto intestino, quasi epico, che si sta consumando tra i due segmenti della attuale Nomura giapponese, quello originario e quello ex Lehman. Non si parla (solo) di uno "scontro di civiltà" tra il Medioevo contemporaneo giapponese e la (talora ipocrita e certamente incompiuta) modernità occidentale. Il modo di fare business, le strutture organizzative, i processi decisionali, i metodi di incentivazione del personale delle due banche non potrebbero essere più diversi e  questa grave disomogeneità costituisce un'ipoteca importante sull'integrazione.

Non è un mistero che Nomura abbia fatta propria la visione tradizionalista giapponese, secondo cui la donna deve essere sottomessa al maschio: anche in una sala cambi, le si chiede di interpretare con toni quanto più possibile sobri la sua “naturale” funzione ornamentale e di servizio all’uomo. Gli esempi non mancano: le Risorse Umane di Nomura hanno ritenuto di suddividere i neo assunti per sesso e di far seguire loro corsi separati. Al gruppo delle ragazze, tra cui si contavano anche laureate ad Harvard (assunte da Lehman prima che fallisse) è stata somministrata una formazione un po’ speciale, grazie alla quale le giovani hanno avuto la possibilità di apprendere come sistemarsi i capelli, preparare il tè e vestirsi in modo modesto ed appropriato alla stagione e al contesto, nozioni assolutamente necessarie a fare buoni affari sui mercati finanziari. Ancora: dopo l’acquisizione, gli indirizzi di posta elettronica delle ex dipendenti Lehman sposate sono stati modificati d’ufficio, sostituendo al loro cognome da nubili quello del marito; si dice che lo stesso sia accaduto alle dipendenti di Bear Stearns dopo l’acquisizione da parte della (ugualmente americana) JP Morgan.

Da un punto di vista strategico, Nomura ha sempre avuto un gran bisogno di espandersi all'estero. E’ in quest'ottica che va letta la scelta di spedire fuori dal Giappone due pezzi da novanta dell'organizzazione: il capo del settore Investment Banking Hiromi Yamaji - a Londra - e lo "zar" dell'Azionario Naoki Matsuba, a New York. "Se non guardasse all'estero, la sua natura di casa di brokeraggio indipendente renderebbe Nomura vulnerabile a scalate azionarie ostili, orchestrate da una megabanca giapponese o, se è per questo, anche da chiunque altro abbia un qualche peso nel mercato internazionale", ha dichiarato qualche mese fa al Wall Streeet Journal Takumi Shibata, COO (Chief Operating Officer) di Nomura da marzo 2008.

Il sogno di Nomura è sempre stato quello di conquistarsi un posto al sole negli Stati Uniti. I primi tentativi con le cartolarizzazioni ed i prodotti strutturati sui mutui sono stati dolorosi per il bilancio (perdite per oltre 600 milioni di dollari) e per l'orgoglio. In questi mesi, però, con le banche americane ancora debilitate dal febbrone scatenato dalla crisi subprime, pare che Nomura stia finalmente "sfondando": lo scorso luglio è stata infatti inclusa nella lista ufficiale dei dealer sul mercato primario dei titoli di Stato americani, mentre prosegue con la sua politica aggressiva di assunzioni di persone strategiche da altre banche (Bank of America). Non a caso, i suoi dipendenti negli USA si avvicinano al migliaio, contro i 650 dell'anno precedente.

Un tema delicato è quello delle retribuzioni: mentre un capo della Nomura guadagna 250.000 dollari l'anno, un executive di Lehman era in grado di portare a casa anche decine di milioni di dollari. Nel tentativo di trattenere in azienda gli ex-Lehman, Nomura ha dovuto garantire ai dirigenti della banca USA livelli retributivi simili a quelli cui erano abituati, multipli rispetto a quelli tradizionalmente erogati. Risultato: costo del personale raddoppiato in un trimestre, con effetti negativi sul corso del titolo  azionario, ma anche sul morale dei  dipendenti Nomura, i quali (e giustamente) promettono battaglia.

Con l'arrivo di Lehman, inoltre, Nomura si è spinta a licenziare personale, una misura che per le aziende giapponesi è un vero tabù. Eppure gli ex-Lehman, apparentemente inconsapevoli di rappresentare un modello di gestione marcio e tossico, non contenti di pretendere retribuzioni scandalose che creano imbarazzo e rabbia nei loro colleghi, continuano a piantar grane: si lamentano del fatto che, non avendo Nomura acquistato il ramo USA di Lehman, è difficile fare business laggiù. Non tollerano di essere affiancati da colleghi giapponesi che sono "gli occhi e le orecchie" dei boss di Tokyo; sono talmente spudorati da fare la lagna perché il "processo di approvazione delle operazioni - in cui Nomura mette a rischio il suo capitale per supportare i clienti - è più lento e faticoso di quanto fosse in Lehman" (come se non si fosse visto dove ha condotto la disinvoltura e la velocità con cui in  Lehman si prendevano le decisoni!).

Quando poi più di un cliente è interessato ad un'operazione di M&A (acquisizione e fusione di società), gli ex Lehman si scontrano regolarmente con i loro capi della Nomura: mentre i primi tendono a privilegiare i clienti che pagano le commissioni più elevate, i giapponesi considerano anche altri criteri, ad esempio la lunghezza della relazione. Insomma, sembra proprio che la smisurata arroganza dello stile Lehman sopravviva al fallimento della banca. E che si appresti a fare altri danni.

di Ilvio Pannullo

È proprio il caso di dirlo: tutto scorre, tutto cambia nel Belpaese. Basta attendere il tempo necessario - spesso neanche troppo - per assistere ai cambiamenti più impensabili, cambi di strategia che generalmente maturano nel tempo, ma che in Italia si materializzano in pochi istanti. L’ultimo in ordine di tempo arriva da quel genio di coerenza politica che è Giulio Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze. D’un colpo, come un fulmine a ciel sereno, il Robin Hood dei ricchi stordisce quanti erano presenti al convegno, promosso dalla Bpm, sulla partecipazione dei lavoratori all'azionariato delle imprese, tornando ad elogiare il tanto vituperato posto fisso al punto da individuarlo come "la base della stabilità sociale".  Ad ascoltarlo tra i tanti erano presenti anche i segretari generali dei tre sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil.

"Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Parole che sembrerebbero uscite dalla bocca di qualche sindacalista. A pronunciarle in un pubblico dibattito è invece il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il discorso, ovviamente, assume un peso diverso.  Cambia al punto che si potrebbe gridare alla rivoluzione se non fossimo in Italia, un paese dove dal dopoguerra in poi le rivoluzioni non si sono mai fatte, ma sempre e solo annunciate. S’impone così una riflessione su quest’ennesimo annuncio dal retrogusto giacobino, un ragionamento che abbia come base la presa di coscienza dell’attuale natura schiavistica del mercato del lavoro.

Appare infatti paradossale che a pronunciare queste parole sia stato proprio quel Giulio Tremonti, titolare del dicastero dell’economia italiana in ogni legislatura del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Se tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi sono pochi, infatti, quelli che hanno potuto mantenere ruoli di rilevanza politica nel corso degli ultimi governi di destra, di certo uno di questi è proprio Tremonti. Presenza irrinunciabile per Berlusconi dal 1994 ad oggi, il divino Giulio ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Economia in ogni legislatura del Biscione, seguendo un percorso professionale difficile a causa di due dimissioni e dell’abbandono anticipato del ruolo in seguito alla crisi di governo nel 1996. Ciò nonostante si può certamente affermare che è stato uno dei primi responsabili dell’attuale situazione in cui versa l’economia italiana, avendo avuto la responsabilità di governare per quasi dieci degli ultimi 16 anni.

Anni in cui il mercato del lavoro è stato letteralmente sabotato in nome della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Il tutto per rendere - si diceva - più competitivo il paese. Peccato solo che alla flessibilità si sia sostituita la precarietà, il tutto realizzato sulla pelle dei lavoratori di colpo trasformati da esseri umani a capitale umano da gestire, con i soli bilanci dei padroni a trarne qualche giovamento. Quella flessibilità che, secondo il ministro, sarebbe figlia della globalizzazione che "non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile. Era inevitabile - dice - fare diversamente". Un po’ come dire che lui, poverino, non poteva fare nulla di diverso da quello che fece. Dopotutto, allora, era solo il responsabile del ministero dell’Economia. Adesso, par di capire invece che le intenzioni sono cambiate e, con esse, anche le politiche che s’intende adottare per il futuro. Il tempo dell'elogio della mobilità e dell'esempio americano sembrano passati di moda. L’Italia che lavora ringrazia, nella speranza che il nuovo orientamento culturale descriva la sensibilità dell’intero governo e non magari la personalissima idea del ministro.

È un uomo misterioso Giulio Tremonti, imperscrutabile per via della sua capacità di dire tutto ed il contrario di tutto molto velocemente e senza temere alcuna smentita. Va detto che difficilmente lo si vede scendere in proclami accompagnati da logiche di plenario ottimismo; l’inderogabile attività economica e finanziaria lo pongono sopra le logiche mediatiche, aggrappandosi alla gravità di tecnicismi che lo trattengono scostato dagli assetti politici più attinenti al pubblico riscontro. Nonostante questo, data la lungimiranza espositiva di questi anni, perfino il poco telegenico immobilismo di Tremonti ha saputo adattarsi alle esigenze televisive, divenendo presenza frequente nei più noti salotti d’attualità politica.
Su tutti lo studio di Vespa, oramai divenuto esso stesso simulacro del potere. Ed è proprio attraverso i meccanismi mediatici che ha potuto affinare le tecniche di abbordaggio pubblico, dove le parole si frantumano in peso indifferenziato ma costante, ed i significati giungono sottoforma di percezione. Il ricordo di quanto si è fatto sfuma, perde d’importanza e lascia il posto ad un camaleontico personaggio privo della più elementare forma di coerenza.

Si compie così il miracolo. L’ideologo del condono edilizio permanente, l’autore di tre scudi fiscali, il sostenitore della privatizzazione delle coste per ragioni di cassa, l’importatore nostrano della finanza creativa anglo-americana, magicamente si trasforma nel paladino della costituzione repubblicana, arrivando a giudicarla "ancora valida", ma "non del tutto applicata". Secondo Tremonti, nella nascita della Costituzione c'era "il confronto fra le tre diverse culture chiave che animavano lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale e la sintesi di queste diverse visioni sta nell'articolo sulla proprietà industriale. Quel passaggio - ha aggiunto il ministro - dove si dice che la Repubblica tutela, regola e disciplina il risparmio, identificando nell'industria del credito una realtà che favorisce l'accesso alla proprietà, all'azionariato popolare, ai grandi complessi produttivi del Paese, è fondamentale".

“Se la Costituzione diceva questo - ha continuato il ministro, senza il minimo accento autocritico - la sua applicazione e la legislazione hanno detto l'opposto. Si è organizzato per un decennio un sistema che in qualche modo ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli di debito. Giusto criterio per cui la grande proprietà industriale doveva essere in qualche modo controllata dal sistema bancario. Credo che un ritorno alla Costituzione - ha concluso - possa portare a concrete e non poche remote riflessioni".

Ovviamente non si è fatta aspettare la risposta dei sindacati. Luigi Angeletti, leader della Uil, ha chiosato l’intervento affermando: "Dalle cose che ha detto, è come se fosse un nostro iscritto”. Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, leader della Cisl: “Le parole di Tremonti sull'esigenza di avere posti di lavoro stabili sono sicuramente condivisibili. E' un obiettivo che inseguiamo anche noi”. Ne esce insomma un’immagine del ministro che da riciclatore di stato, agevolatore di evasori e fornitore di condoni ad ogni dove, si trasforma in sindacalista difensore dei lavoratori. Caustico, ma sempre meno di quanto occorrerebbe, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che alle affermazioni del ministro ha risposto seccamente: "Le farei commentare a Confindustria". Una nota di realismo in un paesaggio da favola.
   

 


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