“I dati sono la risposta migliore: non c’è modo di intimidirli”. Con queste parole Tito Boeri rilancia contro il vicepremier Matteo Salvini, che martedì aveva minacciato di rimuoverlo dalla presidenza dell’Inps. Nel presentare a Montecitorio la Relazione annuale dell’Istituto di previdenza, l’economista bocconiano non solo ribadisce le posizioni sui migranti che avevano fatto saltare i nervi al leader leghista, ma rincara la dose, attaccando il governo anche su altri due fronti: il Decreto Dignità varato lunedì e il progetto di controriforma delle pensioni. 

 

Questa settimana, Boeri ha detto e ripetuto che l’Italia ha bisogno di “aumentare l’immigrazione regolare”, altrimenti in futuro i contributi non basteranno a pagare le pensioni. Per due ragioni. Primo, “perché sono “tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere”. Secondo, perché il nostro sistema previdenziale “non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro”.

L’ombrello di Francoforte sta per chiudersi, ma di pioggia non dovremmo morire. La settimana scorsa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha annunciato che il 31 dicembre sarà interrotto il Quantitative easing, il programma di acquisto titoli che negli ultimi tre anni ha portato nella pancia della Banca centrale europea migliaia di miliardi di euro in obbligazioni pubbliche e private dell’Eurozona. Non solo: a partire dalla prossima estate torneranno a salire anche i tassi d’interesse.

 

Cosa significa tutto questo? All’orizzonte non ci sono invasioni di locuste o spari dai tetti, ma qualcosa cambierà.

 

Innanzitutto, per le casse dello Stato. Senza gli acquisti calmieranti della Bce, i rendimenti sui nostri titoli pubblici saliranno. Secondo l'economista Carlo Cottarelli, l’anno prossimo un aumento stabile dell’1% comporterebbe un costo aggiuntivo per finanziare il debito pari a 3,7 miliardi di euro.

Il dominio di Amazon e delle grandi corporation sulla politica degli Stati Uniti e non solo è cosa risaputa da tempo. Una recente vicenda che ha riguardato la città americana di Seattle, nello stato nord-occidentale di Washington, ha mostrato però nel concreto quale sia l’influenza di colossi simili e, dietro l’apparente impulso allo sviluppo economico e sociale che essi sembrano garantire, la loro portata distruttiva per intere comunità o, quanto meno, per le fasce più povere della popolazione.

 

La storia in questione si è chiusa martedì con un ripensamento umiliante e senza precedenti da parte del consiglio comunale di Seattle, protagonista di un voto a larga maggioranza che ha cancellato l’introduzione di una modesta tassa destinata a gravare sulle maggiori compagnie con sede in quest’area degli Stati Uniti.

 

Questa tassa è durata nemmeno un mese. Il sindaco della città, la democratica Jenny Durkan, aveva firmato la legge il 16 maggio scorso dopo che il consiglio comunale l’aveva approvata all’unanimità (9-0) due giorni prima. Dietro le pressioni e i ricatti di Amazon e delle altre più importanti compagnie dello stato, martedì l’imposta è stata abolita con il voto favorevole di sette consiglieri.

 

Il contributo (“head tax”) avrebbe dovuto essere di 0,14 dollari per ogni ora lavorata da ogni dipendente delle aziende con un fatturato annuo superiore ai 20 milioni di dollari. Complessivamente, il costo per ogni lavoratore sarebbe stato di circa 275 dollari all’anno. Il peso della tassa per Amazon, visti i suoi più di 45 mila dipendenti nell’area di Seattle, ammontava a un importo ridicolo per le dimensioni della compagnia: 12 milioni di dollari. Il fatturato totale di Amazon è stato di 178 miliardi di dollari nel 2017 e il suo numero uno, l’uomo più ricco del pianeta Jeff Bezos, detiene beni personali pari a 138 miliardi.

 

Gli amministratori di Seattle intendevano raccogliere, grazie alla tassa, 47 milioni di dollari all’anno da destinare alla lotta contro l’emergenza senzatetto nella città. Il sindaco aveva preannunciato un piano imponente di investimenti in abitazioni popolari, rifugi provvisori e strutture sanitarie, ma, in realtà, le risorse raccolte in questo modo sarebbero state nettamente insufficienti a far fronte alla crisi.

 

Una crisi che è in larga misura da attribuire proprio all’espansione di giganti come Amazon o del settore tecnologico, la cui presenza su un determinato territorio genera un’impennata dei costi degli immobili e degli affitti che ha conseguenze devastanti sui redditi più bassi. Soprattutto per questa ragione, Seattle è oggi la terza città americana - dopo New York e Los Angeles - con il maggior numero di senzatetto. Nella città dello stato di Washington, più di seimila persone ogni notte non hanno un posto dove dormire. Secondo i dati ufficiali, nel solo 2017 sono morte ben 169 persone senza fissa dimora nella contea di King, che include Seattle.

 

Da parte loro, i membri del consiglio comunale della metropoli hanno chiarito che non esistono altri modi per reperire il denaro necessario ad adottare almeno qualche provvedimento per provare a contenere l’emergenza. Nonostante l’ostentata impotenza, ciò dipende esclusivamente da ragioni politiche e di classe, come dimostra la vicenda della tassa appena revocata.

 

Nell’area di Seattle hanno sede alcune tra le grandi compagnie americane più remunerative per i loro investitori. Oltre ad Amazon ci sono ad esempio Starbucks, Vulcan, cioè la società di investimenti del co-fondatore di Microsoft, Paul Allen, e svariate compagnie operanti nel settore alimentare.

 

Una minima parte dei loro profitti, o della ricchezza dei proprietari e top manager, sarebbe sufficiente a risolvere la crisi abitativa della città e dell’intera contea. Non solo, il sistema fiscale dello stato di Washington è considerato come il più regressivo di tutti gli Stati Uniti, ma una tassa sul reddito dei contribuenti più benestanti di Seattle è stata recentemente bocciata da un tribunale statale.

 

Per Amazon e gli altri, qualsiasi iniziativa a qualsiasi livello che intacchi i loro profitti, anche in maniera minima, viene tuttavia considerata come una minaccia inaccettabile da annientare sul nascere e, per raggiungere questo obiettivo, vengono impiegati tutti i mezzi disponibili e l’enorme influenza che le corporation hanno sulla classe politica.

 

Nel caso di Seattle, il comportamento della compagnia di Bezos è stato particolarmente cinico. La tassa sui dipendenti delle grandi aziende era inizialmente più incisiva di quella approvata nel mese di maggio, ma è stata in seguito annacquata proprio a causa delle pressioni o, meglio, dei ricatti di Amazon.

 

Malgrado il consiglio comunale della città avesse alla fine acconsentito a dimezzare l’entità della tassa, Amazon aveva subito avviato una campagna per boicottare la nuova legge, promuovendo in primo luogo un referendum che intendeva abolirla al prossimo appuntamento elettorale nel mese di novembre. In parallelo, Amazon aveva anche sospeso i lavori per la costruzione di una nuova sede a Seattle, in attesa che la questione della tassa venisse risolta a proprio favore.

 

Alla fine così è stato e l’epilogo si è consumato in un’atmosfera di farsa, con il sindaco e i membri del consiglio comunale di fatto prostrati di fronte ai grandi interessi economici della città. In maniera patetica e di fronte alle proteste dei residenti che hanno presenziato al voto di martedì, alcuni dei consiglieri hanno ribadito il loro sostegno alla tassa ma hanno affermato di essere stati costretti a votare per la revoca sia per evitare il protrarsi della polemica con le corporation nel periodo pre-elettorale sia perché la legge sarebbe stata comunque sconfitta nel referendum di novembre.

 

La questione della mancata tassazione di Seattle è infine un avvertimento a tutte quelle località americane in competizione per ospitare la costruzione del cosiddetto “secondo quartier generale” di Amazon. I vertici della compagnia intendono ottenere le migliori condizioni fiscali, logistiche e di sfruttamento dei loro dipendenti e per fare ciò opereranno senza alcuno scrupolo per le conseguenze sociali che si riverseranno sulle comunità interessate.

 

Le città “finaliste” selezionate da Amazon sono una ventina e praticamente tutte, pur di essere scelte, hanno già promesso sostanziosi incentivi fiscali che, assieme agli effetti sul mercato immobiliare della presenza del colosso di Bezos, contribuiranno a generare un impoverimento di massa dietro l’illusione di nuove opportunità di lavoro e di crescita economica.

“Una rosa, con un altro nome, avrebbe lo stesso dolce profumo”, diceva Giulietta. Con meno poesia, il concetto vale anche per i condoni: li puoi chiamare in altro modo, ma conservano sempre la stessa puzza. Ed è proprio l’odore che si sente a pagina 21 del contratto Lega-5 Stelle, dove si parla di “pace fiscale”.

 

Vale la pena di leggere l’intero passaggio: «Il miglioramento delle procedure di riscossione passa inevitabilmente dal preventivo e definitivo smaltimento della mole di debiti iscritti a ruolo, datati e difficilmente riscuotibili per insolvenza dei contribuenti. È opportuno instaurare una “pace fiscale” con i contribuenti per rimuovere lo squilibrio economico delle obbligazioni assunte e favorire l’estinzione del debito mediante un saldo e stralcio dell’importo dovuto, in tutte quelle situazioni eccezionali e involontarie di dimostrata difficoltà economica. Esclusa ogni finalità condonistica, la misura può diventare un efficace aiuto ai cittadini in difficoltà ed il primo passo verso una “riscossione amica” dei contribuenti».

 

Domanda: come si può suggerire di stralciare parte degli importi dovuti dai contribuenti all’Erario e allo stesso tempo negare che si tratti di un condono fiscale? La formulazione vaga del programma non aiuta a capire.

 

Per fortuna, viene in nostro soccorso un’intervista ad Armando Siri pubblicata su La Repubblica lo scorso 11 maggio: «Famiglie, commercianti e imprese che hanno pendenze con Equitalia fino al 2015 - spiega il senatore leghista - potranno mettersi in regola versando in modo agevolato il 25%, il 10% o il 6% del dovuto, a seconda delle difficoltà economiche in cui si trovano».

 

Stop. La Treccani, alla voce “condono fiscale”, dà questa definizione: «Provvedimento legislativo che prevede un’amnistia fiscale e ha lo scopo di agevolare i contribuenti che vogliano risolvere pendenze in materia tributaria». È evidente che la “pace fiscale” dei penta-leghisti, che nella versione più estrema annullerà fino al 94% del debito del contribuente, non esclude affatto “ogni finalità condonistica”. Perché è un condono.

 

Purtroppo però non è finita qui. Al di là delle valutazioni sul merito del provvedimento, ci sono alcuni problemi tecnici da valutare.

 

Il primo ha a che vedere con il gettito atteso: «Nel 2019 contiamo di recuperare 35 miliardi - continua Siri - nel 2020 altri 25 miliardi». Entrate una tantum da utilizzare a copertura parziale della flat tax, che è strutturale e costa 50 miliardi l’anno (in teoria, una volta esaurito il tesoretto della “pace fiscale”, la tassa piatta dovrebbe autofinanziarsi grazie alla crescita innescata proprio dall’abbattimento delle tasse).

 

Il problema è che questi numeri si fondano su un calcolo discutibile. Come rileva LaVoce.info, la vecchia Equitalia (oggi Agenzia delle Entrate-Riscossioni) vanta crediti per 1.058 miliardi di euro: di questi, la Lega considera ancora esigibili almeno 650 miliardi, mentre Ernesto Maria Ruffini, ex amministratore delegato di Equitalia e ora direttore dell’Agenzia delle Entrate, in un’audizione parlamentare del febbraio 2016 aveva parlato di “posizioni effettivamente lavorabili” per soli 51 miliardi.

 

Anche se entrambi avessero torto e la verità fosse da qualche parte nel mezzo, i conti di questo condono rischiano di essere pesantemente sbagliati. Di conseguenza la flat tax, oltre a essere un’aberrazione sociale e costituzionale per la sua iniquità, sarebbe impossibile da finanziare, a meno di non trascinare a picco i conti dello Stato.

 

Per quanto riguarda il piano ideologico, è curioso che grillini e leghisti, dopo aver passato anni a scagliarsi contro voluntary disclosure e rottamazione delle cartelle gridando al condono, ora si producano in un condono vero e proprio. A loro difesa, probabilmente, diranno che la “pace fiscale” non è accessibile agli evasori ed è riservata soltanto a chi ha difficoltà economiche. I leghisti spiegano infatti che, per beneficiare dello sconto, il contribuente deve aver presentato la denuncia dei redditi ma non trovarsi nelle condizioni materiali di pagare il dovuto all’Erario.

 

Anche queste precisazioni, tuttavia, sollevano dei dubbi. «Quali sarebbero le “difficoltà economiche” meritevoli di tutela? - si chiede Giuliano Cazzola su FIRSTonline.info - magari anche un investimento sbagliato oppure una vicenda giudiziaria molto onerosa? Ci saranno delle Commissioni che giudicano caso per caso in modo inappellabile o sarà consentito il ricorso per via amministrativa o addirittura al giudice ordinario?».

 

Fino ad ora, l’unica vera certezza è l’espressione “pace fiscale” non è altro che un eufemismo politichese. E che questo condono non profuma di rosa.

A leggere il contratto fra Lega e Movimento Cinque Stelle viene in mente il vecchio slogan di una marca di caramelle. Solo che stavolta intorno al buco non c’è la menta, ma un programma di governo. Mettendo in fila tutti gli interventi proposti, il conto finale potrebbe salire fino a 125,7 miliardi di euro, mentre le coperture citate in modo esplicito nelle quasi 60 pagine del contratto non superano i 500 milioni.

 

A fare i calcoli è l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, guidato dall’economista Carlo Cottarelli, ex Fmi ed ex commissario alla spending review.

 

Nel dettaglio, la novità più costosa è la flat tax, che dovrebbe valere intorno ai 50 miliardi di euro l’anno. Seguono il reddito di cittadinanza con 17 miliardi e la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva, che solo quest’anno costerà 12,5 miliardi. Ma a differenza di tutte le altre spese, l’intervento sulla clausola di salvaguardia non è opzionale: se il nuovo governo non troverà i soldi necessari, le aliquote Iva saliranno automaticamente a partire dal primo gennaio 2019, danneggiando i consumi e quindi il Pil.

 

Per quanto riguarda la revisione della riforma Fornero, il costo dovrebbe superare di poco gli 8 miliardi, ma bisognerebbe aggiungerne altri cinque per estendere la flessibilità in uscita alle categorie di lavoratori finora escluse. Sul versante fiscale, 6 miliardi servirebbero a eliminare le accise sulla benzina.

 

La lista comprende poi 6 miliardi per investimenti, 1,8 miliardi per l’ innalzamento dell’indennità civile, 200 milioni per assumere 10mila persone nelle forze dell’ordine e altrettanti per aumentare il personale della polizia penitenziaria.

 

Le misure per la famiglia non sono abbastanza dettagliate da consentire una stima precisa dei costi, ma secondo l’Osservatorio di Cottarelli si viaggia in una forchetta che va da pochi spicci a 17 miliardi. Anche cancellando del tutto questa voce, perciò, il conto finale scenderebbe al massimo a 108,7 miliardi.

 

A fronte di spese così importanti, le coperture proposte non evocano la solita immagine della coperta troppo corta. Siamo più al livello del centrotavola o del fazzoletto: circa mezzo miliardo, di cui 200 milioni dai tagli alle missioni internazionali e altrettanti dalla sforbiciata ai vitalizi e dalla riduzione del numero dei parlamentari (che comunque richiederebbe una riforma costituzionale). Altri 100 milioni sarebbero garantiti dall’abbattimento delle pensioni d’oro, che però rischierebbe d’incappare nello stop della Consulta, visto che in passato i supremi giudici si sono già espressi contro la modifica stabile di trattamenti che costituiscono diritti acquisiti.

 

Da questo conteggio rimangono escluse altre coperture non quantificate nel contratto, come il gettito recuperato con la lotta all’evasione o quello prodotto da una nuova stretta sul gioco d’azzardo. Poi naturalmente ci sono l’ennesima spending review, il possibile ricorso a un deficit più ampio del previsto e l’idea di un condono fiscale riservato ai contribuenti con difficoltà economiche (una furbata da mascherare con uno pseudonimo rassicurante: qualcosa tipo “pace fiscale”).

 

Anche ammettendo che da ognuna di queste voci si riesca a ricavare il massimo possibile, è evidente che la distanza fra costi e coperture rimane siderale. Come si risolve il busillis? “Qualcuno fa il conto della serva sul nostro programma e chiede dove sono le entrate - ha spiegato Luigi Di Maio in diretta Facebook - sono nei margini che andremo a prenderci in Europa per spendere più soldi”.

 

Ora, è improbabile che il capo politico del M5S pensi sul serio di aumentare il deficit nell’ordine di qualche decina di miliardi senza che nessuno a Bruxelles alzi un sopracciglio. Per cui sarebbe utile capire di quanti soldi stiamo parlando. Non è proprio un dettaglio, considerato che gli anni scorsi ci siamo dovuti produrre in trattative estenuanti con la Commissione per scostamenti dello “zerovirgola”.

 

Purtroppo ci tocca rimanere con il dubbio. “Esattamente i conti col taccuino non li abbiamo fatti”, ha ammesso la grillina Laura Castelli. A quanto pare, siamo ancora alle caramelle.


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