Nella polemica con la Ue sulla manovra, Matteo Salvini e Luigi Di Maio non cercano in alcun modo rientrare nel solco della diplomazia. Al contrario, incattiviscono ogni giorno gli attacchi contro Juncker & Co, lasciandosi andare anche al dileggio più triviale (“parlo solo con gente sobria”, ha detto il vicepremier leghista in riferimento al presidente della Commissione europea, accusato di essere un ubriacone). Ma perché si è arrivati a tanto?

Più del cosa conta il come, anche quando si parla di deficit. Il problema più grave dell’Italia è la scarsità di lavoro, soprattutto fra i giovani: su questo punto - banale, ma difficilmente discutibile - sono tutti d’accordo, eppure anche il “governo del cambiamento” non sta facendo nulla per affrontare la questione. La bozza di manovra che emerge dal Documento di economia e finanza approvato giovedì in Consiglio dei ministri non contiene alcun intervento in grado di aumentare la produttività e creare posti di lavoro.

 

Invece di puntare il dito contro questa voragine, la maggior parte delle critiche ai progetti legastellati - anche da sinistra - si è concentrata sull’aumento del deficit Pil al 2,4% (il triplo rispetto allo 0,8% previsto dall’esecutivo Gentiloni e un terzo in più rispetto all’1,6% voluto dal ministro del Tesoro, Giovanni Tria). Ma in economia fare debito non è sicura fonte di sventura: dipende da cosa si fa con i soldi spesi in deficit.

 

Diversi esponenti della maggioranza hanno parlato negli ultimi giorni di “investimenti pubblici”, peccato che la loro manovra non ne contenga. Al di là dell’opinione che si può avere sulle singole misure, è indubbio che le risorse impiegate per reddito di cittadinanza, flat tax e quota 100 siano spese correnti. La differenza non è un tecnicismo: gli investimenti pubblici studiati a dovere innescano un meccanismo di crescita (perciò, alzando il denominatore, abbassano i rapporti deficit/Pil e debito/Pil), mentre le spese previste dal Governo porteranno al massimo un modesto ed effimero aumento dei consumi.

 

Anche se ovviamente non basteranno a parlare di “scomparsa della povertà assoluta”, come ha fatto Di Maio, i soldi del reddito di cittadinanza saranno di sicuro un aiuto per molte persone che vivono in condizioni di estrema difficoltà. Ma giusta o sbagliata che sia, questa è una forma di assistenzialismo che lenirà i sintomi invece di curare la malattia. Non c’è a monte alcun progetto di politica economica, nessuna visione di quale sarà o dovrebbe essere il futuro produttivo e occupazionale del Paese.

 

Se l’Italia lanciasse un grande programma di investimenti pubblici – ad esempio, con l’obiettivo di ridurre al minimo il rischio idrogeologico – allora indebitarsi avrebbe senso. È il principio base dell’economia keynesiana (che molti stanno riscoprendo di fronte ai disastri dell’austerità): lo Stato interviene per creare lavoro e sostenere la domanda interna, incentivando la risalita di redditi e consumi, che a loro volta producono un aumento delle entrate fiscali, compensando gli effetti negativi dell’indebitamento. L’obiezione principale contro questo modello è che rischia di generare inflazione (il Freddy Kueger che infesta i sogni della Germania dal 1923), sennonché al momento abbiamo il problema opposto: i prezzi non riusciamo a farli salire abbastanza.

 

Purtroppo, il deficit del governo gialloverde non produrrà nulla di tutto questo. A ben vedere, la manovra che si prospetta non solo non aumenterà la crescita, non garantirà nemmeno una redistribuzione dei redditi, perché eviterà di toccare i grandi patrimoni e le rendite finanziarie.

 

Quanto al lavoro, sembra proprio che il ministro Di Maio non abbia alcuna idea originale né per creare nuova occupazione né per ridurre i contratti a termine. Il Decreto Dignità doveva essere la “Waterloo del precariato”, ma anziché incentivare le assunzioni sta spingendo molte aziende a non rinnovare i contratti a tempo determinato in essere e a sostituirli con contratti nuovi, sempre a termine. È il turn over del precariato.

 

Finora il governo del cambiamento ha semplicemente ritoccato ciò che già esisteva. A cominciare dal bonus assunzioni varato dal governo Gentiloni l’anno scorso: sempre il Decreto Dignità stabilisce che l’incentivo - contributi dimezzati per tre anni alle imprese che assumono - varrà per gli under 35 anche nel 2019 e l’asticella non scenderà a 29 anni (com’era previsto in origine e come accadrà dal 2020 in poi, visto che la misura è permanente). Sennonché, il bonus Gentiloni non sta funzionando come previsto, soprattutto perché impone una serie di requisiti rigidi (ad esempio, il giovane non deve aver mai avuto un contratto a tempo indeterminato).

 

Ci sono poi due strumenti coperti con fondi Ue e in scadenza a dicembre: il bonus occupazione collegato al programma di Garanzia Giovani e il bonus Sud. Dovrebbero essere rifinanziati entrambi, ma quello che sta più a cuore a Di Maio è il secondo, essendo il meridione il primo bacino di voti per i 5 Stelle. Anche in questo caso nessuna visione, nessuna strategia. Solo calcoli elettorali. Fatto così, il deficit serve solo a scaricare i benefici accordati oggi sulle tasse di domani.

Con l’imposizione di nuovi dazi sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti per un valore di 200 miliardi di dollari, l’amministrazione Trump ha impresso una pericolosa accelerazione alla guerra commerciale in atto da mesi tra le prime due potenze economiche del pianeta.

 

La decisione è stata condannata da un fronte molto ampio di critici della Casa Bianca, ma il ricorso a misure estreme in ambito commerciale continua a essere uno dei punti cardini del programma dell’amministrazione repubblicana, nonostante i riflessi negativi che esse rischiano di produrre su scala globale.

I destini del reddito di cittadinanza e della flat tax dipendono in larga parte da un solo numero: quello che il governo scriverà nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza - attesa per il 27 settembre - alla voce rapporto deficit-Pil 2019.

 

Nella bozza del Def che il Tesoro ha distribuito al Presidente del Consiglio e ai due Vicepremier, il numero magico è stato fissato all’1,6%. Oltre questa soglia il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non ha intenzione di spingersi. Per un motivo preciso.

 

L’1,6% non è un dato casuale: rappresenta la flessibilità massima che l’Europa può concedere all’Italia senza essere costretta ad aprire una procedura d’infrazione. Cioè un intervento punitivo che abbatterebbe la fiducia dei mercati e innescherebbe la speculazione, facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico e costringendo il nostro Paese, già a corto di soldi, a fare nuovi tagli per liberare nuove risorse. Tutto questo ha una motivazione tecnica.

 

Trattati alla mano, l’anno prossimo l’Italia dovrebbe ridurre il deficit strutturale (ossia il dato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum varate dal governo) dello 0,6%. È già sicuro che non lo faremo, ma la procedura d’infrazione scatterà soltanto se la correzione non avverrà affatto. Basterà cioè un miglioramento dello 0,1% perché Bruxelles si limiti a un semplice richiamo nei confronti del governo di Roma (com’è accaduto quasi sempre negli ultimi anni). E il deficit-Pil all’1,6% corrisponde proprio a una correzione del deficit strutturale pari allo 0,1%. Un po’ come le bombe dei film, disinnescate sempre a un secondo dall’esplosione.

 

La strada dello scontro frontale con Bruxelles e con i fondi speculativi non è percorribile. A malincuore, Salvini e Di Maio se ne sono resi conto e – dopo aver “fatto danni” con “tante parole”, per dirla con Mario Draghi – da qualche settimana hanno moderato i toni, riuscendo a raffreddare lo spread. Il problema ora è capire quali saranno le conseguenze sulla prossima legge di Bilancio, visto che fra la cancellazione degli aumenti Iva (12,4 miliardi) e le spese correnti, lo spazio per rimanere entro l’1,6% non è molto.

 

La Lega ha già accantonato il progetto originario della flat tax. Il mostro da 50 miliardi che avrebbe permesso ai ricchi di pagare le stesse tasse dei poveri non vedrà mai la luce. Ora si punta a ridurre le aliquote Irpef da cinque a tre, ma solo nel 2020. I leghisti hanno rinunciato anche all’ipotesi di tagliare l’aliquota Irpef più bassa dal 23 al 22%, misura che sarebbe costata 4 miliardi e che avrebbe portato ai contribuenti in media 150 euro in più all’anno. Resta invece sul tavolo l’estensione del regime forfettario a tutte le partite Iva che fatturano fino a 100mila euro l’anno (il limite attuale è di 25-50mila euro, a seconda dell’attività). Il costo sarebbe di un miliardo e mezzo. Altro che 50.

 

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, la situazione è più complessa. I grillini si sono rassegnati a restringere il perimetro della misura: la proposta iniziale prevedeva di concedere 780 euro al mese ai 2,8 milioni di famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà relativa, ma poi Di Maio ha parlato in un’intervista di “5 milioni di persone”, cioè i singoli individui che vivono in condizioni di povertà assoluta.

 

Il costo dell’intervento scende così da 17 a 9 miliardi l’anno, che si ridurrebbero a 4-5 se la misura diventasse operativa da luglio (i pentastellati preferirebbero maggio, mese in cui si terranno le elezioni europee). Il governo ha già in tasca i 2,6 miliardi stanziati dall’esecutivo Gentiloni per il reddito di inclusione, perciò al Tesoro non resterebbe che racimolare un altro paio di miliardi.

 

La maggioranza ha valutato anche l’ipotesi di cancellare gli 80 euro renziani e di far scattare gli aumenti dell’Iva per avere a disposizione una ventina di miliardi in più. Ma entrambe le idee sono state accantonate: la prima perché colpirebbe 11 milioni di contribuenti, la seconda perché un rincaro della tassa sui consumi sarebbe percepita dagli elettori come alto tradimento. L’unica alternativa, perciò, è cambiare il contratto di governo fingendo che nulla cambi.

“No, per favore, questa roba degli 80 euro no. Sono una cazzata. Sono soldi pagati a chi lavora da chi non lavora. È il pensionato che paga gli 80 euro in busta paga”. Queste le parole pronunciate da Matteo Salvini nel marzo del 2015, durante un dibattito con Roberto Speranza a diMartedì, su La7.

 

Nell’aprile del 2014, sulla stessa rete, Luigi Di Maio era intervenuto a Bersaglio Mobile per dire che gli 80 euro erano “una grande operazione elettorale, altrimenti non si spiegherebbe perché tu trovi un tot di miliardi e decidi di destinarli con questo bonus alle buste paga. Abbiamo un Presidente del Consiglio che aggiunge una voce in busta paga che si chiama bonus e ci mette 80 euro, a una categoria di persone che, per fortuna, ha una busta paga. Facevano prima a scrivere, al posto di bonus, Vota PD”.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy