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Durante l’emergenza Coronavirus negli Stati Uniti, l’ormai sicuro candidato alla Casa Bianca del Partito Democratico è rimasto in gran parte ai margini del dibattito politico, limitandosi per lo più a qualche intervento pre-registrato per criticare la gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump. In questi giorni, Joe Biden è tornato però al centro dell’attenzione in seguito al riemergere di vecchie accuse di molestie sessuali che, attendibilità a parte, continuano a essere deliberatamente minimizzate, per non dire insabbiate, dai leader del suo partito e dai media filo-democratici.
La grana più fastidiosa per Biden riguarda un’ex addetta del suo staff, Tara Reade, che sostiene di essere stata molestata nel 1993 dall’allora senatore del Delaware. La donna non sembra voler desistere malgrado il clima di ostilità e lo scorso mese di marzo aveva presentato alla polizia di Washington una denuncia contro l’ex vice-presidente. D’altra parte, la questione circola da tempo soprattutto sui social media e su network e siti web vicini a Trump e al Partito Repubblicano.
La stampa meglio disposta verso i democratici si è invece riscoperta improvvisamente garantista, mettendo da parte, almeno per il caso Biden, la feroce caccia alle streghe degli ultimi anni, collegata al movimento “#MeToo”, diretta contro chiunque, tra politici e celebrità, sia stato oggetto di vaghe accuse a sfondo sessuale. Pseudo-indagini giornalistiche, editoriali spietati e sommari processi mediatici, tipici di questa campagna, continuano insomma a rimanere fuori dalla vicenda che sta riguardando l’ex vice di Obama.
Le ragioni di questa prudenza sono ovviamente tutte di natura politica. La candidatura di Biden è stata infatti letteralmente resuscitata in extremis dall’establishment del Partito Democratico e dagli stessi media “liberal” per affondare quella di Bernie Sanders, pericolosamente sul punto di mobilitare decine di milioni di elettori sulla base di un’agenda almeno in apparenza “democratico-socialista”.
Le accuse contro Biden sono state così al massimo discusse sulla stampa solo per essere screditate, con un’ostentazione di scrupoli democratici nemmeno lontanamente considerati nei casi di Kevin Spacey o Harvey Weinstein, per non parlare dello show orchestrato dal Partito Democratico nel tentativo fallito di far naufragare la nomina alla Corte Suprema del giudice di estrema destra, Brett Kavanaugh, nel settembre del 2018.
In questo caso, gli argomenti di Biden sono sembrati ampiamente sufficienti per scagionarlo da ogni accusa o, quanto meno, per affermare il principio della presunzione di innocenza. La difesa dell’ex vice-presidente ha avuto però risvolti talvolta imbarazzanti, come la recente apparizione di un filmato tratto dalla trasmissione del 1993 “Larry King Live” della CNN. In un episodio del mese di agosto di quell’anno era intervenuta telefonicamente una donna, identificata dall’accusatrice di Biden, Tara Reade, come sua madre che denunciava la situazione della figlia, costretta a lasciare l’impiego nello staff di un noto senatore a causa di “problemi” non meglio specificati.
Se nella telefonata in diretta la donna non parlava di molestie né identificava il nome del politico in questione, è apparso subito chiaro il riferimento a Biden. La clip era stata pubblicata dal sito The Intercept, mentre la CNN l’aveva prontamente rimossa dal proprio archivio digitale. In seguito, il network è stato costretto a pubblicare un resoconto della vicenda, ma l’imbarazzo è aumentato quando è emerso che, addirittura, agli episodi successivi alla trasmissione incriminata condotta da Larry King era stata data una nuova numerazione per cercare di occultarne la rimozione.
L’episodio conferma come sia in atto un’operazione coordinata per proteggere la candidatura di Joe Biden. Questa operazione risulta necessaria sia per i probabili scheletri nell’armadio dell’ex vice-presidente sia, soprattutto, per evitare che l’affiorare di questi ultimi vada ad aggravare la posizione di un candidato già ultra-screditato e correttamente identificato come la personificazione stessa della corruzione dell’establishment di Washington e del servilismo della politica verso i poteri forti.
Con la candidatura di Biden sempre in bilico, anche per il possibile deterioramento del suo stato di salute mentale, i vertici del Partito Democratico stanno cercando di fare quadrato attorno all’ex vice-presidente. In questi giorni sono stati infatti numerosi gli annunci pubblici di “endorsement” da parte di personalità democratiche di rilievo, inaugurati da quello dell’ex presidente Obama. Lunedì è toccato ad esempio alla “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, dichiarare ufficialmente il proprio sostegno per Biden, attraverso un intervento video infarcito di assurdità, a cominciare dalla caratterizzazione del candidato democratico come di un leader in grado di dare risposta alle “speranze” del paese. Martedì, invece, la stampa USA ha anticipato il probabile “endorsement” anche di Hillary Clinton, che apparirà assieme a Biden in un comizio “virtuale”.
Se le prese di posizione di Nancy Pelosi e degli altri pezzi grossi del partito sono più che prevedibili, apparentemente inspiegabile appare invece il relativo entusiasmo per la nomination di Biden della sinistra democratica e dei sostenitori di Sanders, nonché dello stesso senatore del Vermont. Tutti hanno insistito su quella che a loro dire sarebbe la possibilità concreta di influenzare le politiche della potenziale prossima amministrazione al fine di implementare iniziative di “sinistra”.
Gli ambienti vicini a Sanders si sono così dimenticati in fretta dello scontro politico che aveva segnato la prima fase delle primarie democratiche, quando a confrontarsi erano la prospettiva di cambiamento in senso progressista e la deriva neo-liberista del partito, rappresentata proprio da Joe Biden. Che l’agenda promossa da Sanders possa trovare spazio in una Casa Bianca occupata da quest’ultimo è una remotissima illusione, ma deve essere alimentata per cercare di evitare che gli elettori di Sanders disertino le urne in massa a novembre, consegnando un secondo mandato a Trump e ai repubblicani.
Se mai ci fossero stati dubbi sulla natura di un’amministrazione Biden, qualche giorno fa una rivelazione pubblicata dalla stampa americana ha contribuito a fugarli. Bloomberg News ha scritto che l’ex segretario al Tesoro, Larry Summers, fa parte della cerchia dei consiglieri di Biden in ambito economico. La notizia potrebbe avere potenzialmente un impatto devastante sulla campagna dell’ex vice-presidente e, infatti, quest’ultimo e il suo entourage si sono affrettati a ridimensionarne la portata.
Summers è uno degli artefici delle “riforme” economiche e finanziarie che hanno caratterizzato gli anni Novanta del secolo scorso. Dall’interno dell’amministrazione Clinton, l’ex docente di Harvard è stato il motore della finanziarizzazione dell’economia americana e dello smantellamento di ciò che restava delle regolamentazioni risalenti all’epoca del New Deal rooseveltiano. Il suo impegno, assieme a quello del presidente democratico e del suo mentore, Robert Rubin, ha avuto un ruolo determinante nel creare le condizioni del tracollo finanziario del 2008.
Nonostante il discredito e le pesantissime responsabilità, Summers aveva trovato un impiego anche nella neonata amministrazione Obama a inizio 2009, questa volta a capo del Consiglio Nazionale per l’Economia della Casa Bianca. In questo incarico e dopo avere incassato milioni di dollari nel settore privato, Summers aveva coordinato il colossale piano di salvataggio di Wall Street, assicurando che nessuna risorsa significativa andasse a beneficio degli americani finiti sul lastrico.
Larry Summers è stato in sostanza capace di navigare le acque della politica democratica negli ultimi trent’anni. Il suo ruolo nel creare disuguaglianze sociali e di reddito quasi inconcepibili è difficile da sopravvalutare e, tuttavia, la campagna di Joe Biden ha deciso di reclutarlo in vista delle elezioni di novembre, anche se comprensibilmente senza dare troppo risalto alla notizia.
La sola presenza di Summers tra i più stretti collaboratori di Biden chiarisce perciò a sufficienza quali saranno i principi ispiratori del possibile futuro presidente in ambito economico, con buona pace di quanti continuano a propagandare l’illusione di poter esercitare pressioni da sinistra e favorire un qualche reale cambiamento in senso progressista dall’interno del Partito Democratico americano.
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Nelle prime ore di lunedì, aerei militari di Israele hanno per l’ennesima volta condotto un’operazione illegale contro obiettivi in territorio siriano, verosimilmente appartenenti alle forze iraniane o di Hezbollah che stano combattendo a fianco del legittimo governo di Damasco. A darne notizia è stata l’agenzia di stampa ufficiale siriana SANA, secondo la quale la contraerea del paese mediorientale sarebbe riuscita a intercettare e abbattere un certo numero di missili israeliani. Le vittime totali potrebbero essere sette, di cui tre civili e, forse, quattro militari di nazionalità iraniana.
L’attacco è solo l’ultimo di una serie di episodi simili registrati nell’ultimo mese, in quella che nel corso del conflitto in Siria è stata una vera e propria consuetudine da parte di Tel Aviv, nonostante le incursioni continuino a essere motivo di tensione con la Russia di Putin. Nemmeno l’epidemia di Coronavirus in atto ha rallentato i raid israeliani in Siria, né l’inizio per i musulmani, soltanto alcuni giorni fa, del mese sacro di Ramadan.
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L’annuncio del riuscito lancio in orbita del primo satellite militare iraniano ha provocato questa settimana una prevedibile risposta minacciosa da parte dell’amministrazione Trump, facendo nuovamente aumentare il rischio di un disastroso conflitto armato in Medio Oriente nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Il satellite “Noor” (“Luce”) mercoledì ha sorvolato la terra a un’altitudine di 425 km e, secondo i media della Repubblica Islamica, avrebbe inviato segnali regolarmente ricevuti dai Guardiani della Rivoluzione che hanno condotto lo storico esperimento.
Teheran aveva tentato più volte in passato un’operazione di questo genere, ma mai nessuna si era conclusa con un successo. Le stesse fonti iraniane hanno spiegato che l’operazione ha importanti implicazioni nell’ambito militare e dell’intelligence, mentre il governo USA non ha perso tempo nel far notare che la presenza di satelliti in orbita potrebbe consentire alla Repubblica Islamica di perfezionare la produzione di missili a lungo raggio, secondo Washington potenzialmente anche con testate nucleari.
La questione dello sviluppo dei missili balistici a lungo raggio è con ogni probabilità al centro dell’impegno iraniano. La retorica americana è però fuorviante, sia per quanto riguarda la presunta minaccia di un futuro attacco missilistico contro gli Stati Uniti sia nei riferimenti all’illegalità di simili test in base a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel primo caso, è evidente l’intento difensivo dei piani militari di Teheran. Per averne conferma è sufficiente scorrere le iniziative degli USA e dei loro alleati negli ultimi decenni contro questo paese oppure consultare semplicemente una mappa del Medio Oriente con il posizionamento delle basi militari statunitensi.
In merito all’ONU, Washington continua invece a citare una risoluzione del 2015 a cui anche il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha accennato nella giornata di mercoledì per ricordare il presunto bando internazionale allo sviluppo della tecnologia balistica iraniana. In realtà, come hanno fatto notare svariati esperti di diritto internazionale, il linguaggio della risoluzione non impone alcun divieto alla Repubblica Islamica, ma esprime un semplice “invito” non vincolante. Inoltre, la risoluzione citata era collegata all’implementazione dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), da cui la stessa amministrazione Trump è uscita unilateralmente nel maggio di due anni fa.
Il vero problema americano riguardo i missili balistici iraniani è a ben vedere un altro. Se Teheran dovesse disporre in maniera definitiva di questa tecnologia militare, gli Stati Uniti vedrebbero cioè ridursi ulteriormente gli spazi per un’aggressione, visto che la risposta dell’Iran risulterebbe ancora più devastante di quella che sarebbe oggi in grado di organizzare.
Le ansie di Washington sono d’altra parte evidenti dalla replica di Trump alla notizia del lancio del satellite iraniano. Su Twitter, il presidente ha fatto sapere di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intenda avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico. Questa misura potrebbe essere la conseguenza anche dell’incidente denunciato dal governo USA settimana scorsa, quando una dozzina di mezzi navali dei Guardiani della Rivoluzione si sarebbero accostati pericolosamente a quelli americani che pattugliavano le acque del Golfo.
Il tweet di Trump è sembrato a molti l’ennesima ostentazione di forza priva di sostanza, visto che anche il Pentagono ha assicurato che le direttive militari in merito all’Iran non sono cambiate di una virgola. Una certa preoccupazione deve tuttavia circolare a Washington, a testimonianza che forse la minaccia della Casa Bianca possa essere più concreta di quanto appaia.
La deputata democratica della Virginia, nonché ex ufficiale della Marina militare, Elaine Luria, ha ad esempio criticato il presidente per il suo intervento su Twitter che, senza una chiara e definita gestione delle regole d’ingaggio, rischia di provocare “un’escalation di tensioni non necessaria con l’Iran”, se non “un conflitto aperto”. Questa presa di posizione rivela l’inquietudine di quanti all’interno dell’apparato di potere americano temono le conseguenze di un possibile conflitto con l’Iran, in primo luogo per l’impreparazione americana in un momento di grave crisi a causa dell’epidemia di COVID-19.
Dietro alle minacce della Casa Bianca potrebbe esserci in questa circostanza qualcosa di più serio se si pensa alla situazione del tutto nuova venutasi a creare sul fronte petrolifero. Un altro ex ufficiale della Marina USA, Scott Ritter, diventato commentatore e critico delle politiche dell’imperialismo americano, ha spiegato in un articolo apparso sul sito del network russo RT che il crollo delle quotazioni del greggio di queste settimane potrebbe avere cambiato del tutto il calcolo dell’amministrazione Trump.
Fino a poco tempo fa, a rendere improbabile una guerra con l’Iran era soprattutto il timore di un rialzo incontrollato del prezzo del petrolio che sarebbe seguito alla quasi certa chiusura, decisa da Teheran, dello stretto di Hormuz, da cui transita buona parte del greggio mediorientale. Oggi, al contrario, l’implosione del mercato petrolifero, seguito al quasi azzeramento della domanda internazionale a causa del lockdown economico, ha portato le quotazioni a livelli bassissimi e, addirittura, temporaneamente in territorio negativo per quanto riguarda il riferimento del barile americano (WTI).
Questa nuova realtà minaccia di mandare in fallimento l’industria estrattiva americana, fatta di moltissime compagnie fortemente indebitate e quindi bisognose di prezzi relativamente elevati. Uno shock internazionale in grado di arrestare la produzione di petrolio in Medio Oriente darebbe perciò una spinta verso l’alto alle quotazioni e, di conseguenza, una boccata d’ossigeno ai produttori negli Stati Uniti. In sostanza, spiega Ritter su RT, Trump potrebbe essere disposto a scatenare una guerra contro l’Iran per salvare l’industria petrolifera americana, il cui tracollo rischierebbe oltretutto di trascinare con sé l’intera economia USA.
Su questi possibili scenari di guerra è evidente che agiscano anche altri fattori in grado di agire da deterrente a un’aggressione americana contro la Repubblica Islamica, dalle resistenze interne allo stesso governo di Washington ai rischi di una guerra che risulterebbe lunga, dispendiosa e strategicamente tutt’altro che vantaggiosa.
È evidente però che i piani di guerra contro l’Iran siano costantemente studiati dalla Casa Bianca ed è significativo che una nuova esplosione del militarismo USA sia all’ordine del giorno in questo periodo. La crisi sociale, politica ed economica prodotta dal Coronavirus ha d’altra parte inasprito le contraddizioni che attraversano la classe dirigente americana e moltiplicato gli sforzi per dirottarne gli effetti verso l’esterno.
Non è un caso, infatti, che la devastazione in corso sul fronte domestico abbia fatto ben poco per allentare le pressioni sui nemici di Washington, come conferma, oltre all’escalation nei confronti dell’Iran, la campagna anti-cinese per attribuire a Pechino la responsabilità della pandemia, ma anche le recentissime provocazioni delle navi da guerra americane dispiegate nel Mar Cinese Meridionale o l’intensificarsi delle minacce contro il legittimo governo venezuelano del presidente Maduro.
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Tra l’epidemia di Coronavirus che continua a fare un numero altissimo di vittime e le pressioni per far ripartire in fretta l’economia, tutta la classe politica degli Stati Uniti è impegnata in una campagna di propaganda, amplificata dai media ufficiali, diretta ad attribuire alla Cina le principali responsabilità della crisi in atto. L’iniziativa ha uno spirito sostanzialmente bipartisan, anche se viene usata come arma politica da democratici e repubblicani, e ha due obiettivi in particolare: occultare le colpe tutte americane nella gestione del virus e alimentare la competizione strategica con Pechino nell’ottica della rivalità tra le due principali potenze del pianeta.
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L’emergenza Coronavirus e la crisi economica provocata dall’interruzione di molte attività industriali e commerciali si stanno traducendo in una drammatica impennata del numero di disoccupati e di lavoratori ridotti in povertà, negli Stati Uniti come altrove. Non per tutti l’ondata della pandemia ha significato però miseria e disperazione. Anzi, gli eventi delle ultime settimane sono stati un’autentica fortuna per un club molto ristretto di privilegiati, a cominciare da Jeff Bezos, fondatore e numero uno di Amazon, nonché uomo più ricco del pianeta.
La reclusione forzata di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ha fatto schizzare gli ordini sulla più nota piattaforma di commercio on-line, fino a registrare una media di acquisti pari a circa 11 mila dollari al secondo. Questo vero e proprio boom, di cui sta beneficiando non solo Amazon, dall’inizio dell’anno ha fatto aumentare del 20% il prezzo delle azioni di una compagnia che ha oggi un valore di mercato di oltre 1.100 miliardi di dollari, praticamente uguale al PIL dell’Indonesia, cioè un paese di quasi 270 milioni di abitanti. Nello stesso arco di tempo, l’indice “S&P 500” della borsa americana ha al contrario segnato una flessione del 12%.
Per Bezos, questa nuova realtà ha significato un’aggiunta di altri 24 miliardi di dollari a una ricchezza personale che già ammontava a 138 miliardi. Altri 8,2 miliardi sono poi finiti nelle tasche della sua ex moglie, MacKenzie Scott Bezos, la quale, grazie a una quota del 4% di Amazon ottenuta dal recente accordo di separazione, può vantare un patrimonio di oltre 45 miliardi di dollari che le vale la 18esima posizione nella lista dei paperoni di Fortune.
Il successo della creatura di Jeff Bezos contrasta in modo clamoroso con il rapidissimo precipitare della situazione per la gran parte degli americani. Negli Stati Uniti, a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza, il numero di disoccupati ha sfondato quota 22 milioni. Amazon, al contrario, dal mese di marzo ha assunto 100 mila nuovi dipendenti e prevede di impiegarne altri 75 mila a breve per rispondere all’esplosione di ordini.
Una simile quantità di denaro, generata di fatto da un’epidemia devastante, non ha prevedibilmente cambiato il modello imprenditoriale di Amazon, basato in sostanza sullo sfruttamento di una forza lavoro sottopagata e costretta a subire regole rigidissime. Al contrario, l’impatto del Coronavirus sulle modalità di lavoro nella compagnia di Bezos ne ha accentuato le aberrazioni, mettendo i dipendenti a serio rischio di contagio.
Nei magazzini di Amazon in tutto il mondo sono state numerose le manifestazioni di protesta contro le scarse misure di sicurezza adottate per l’impatto del COVID-19. Ufficialmente, sarebbero 74 gli impianti della compagnia nei quali si sono già registrati casi di contagio, anche se, a giudicare dalle segnalazioni dei lavoratori, il numero potrebbe essere almeno il doppio. Questa settimana è circolata inoltre la notizia della prima vittima di Coronavirus, un responsabile delle operazioni, deceduto il 31 marzo scorso, nella sede di Hawthorne, in California.
I vertici di Amazon hanno licenziato solo nell’ultima settimana tre dipendenti negli Stati Uniti che avevano denunciato condizioni di sicurezza inadeguate. Le ragioni dei provvedimenti includono in tutti i casi la presunta violazione delle norme di “distanziamento sociale” all’interno degli impianti, scusa utilizzata per colpire quanti intendono coinvolgere nella mobilitazione gli altri lavoratori.
L’arricchimento clamoroso di Bezos sulla pelle di una forza lavoro esposta a seri rischi sanitari e a regole sempre più autoritarie contrasta fortemente con l’immagine pubblica che il presidente di Amazon sta cercando di proiettare in questo periodo. A fine marzo, Bezos aveva ad esempio indirizzato una lettera aperta ai propri dipendenti nella quale sosteneva che, riguardo all’emergenza, questi ultimi e i massimi vertici della compagnia erano “sulla stessa barca”.
Bezos ha anche cercato di ripulire la propria immagine con iniziative di beneficenza. In realtà, a tutt’oggi sembra che sia stata fatta da parte sua una sola donazione da 100 milioni di dollari a favore di un’organizzazione che provvede alla distribuzione di cibo. La cifra, evidentemente, rappresenta una frazione infinitesimale del suo patrimonio. D’altra parte, sempre nel mese di marzo, Bezos aveva creato un fondo di sostegno per i propri dipendenti colpiti dal Coronavirus, sollecitando addirittura donazioni pubbliche dopo avere contribuito di tasca propria con appena 25 milioni di dollari.
Il caso di Amazon e di Jeff Bezos non è ovviamente un’eccezione, bensì la regola in un sistema che sfrutta qualsiasi evento, anche il più letale come una pandemia, per dirottare verso il vertice della piramide sociale ricchezze sottratte al resto della comunità. Un folto numero di corporations e di top manager americani hanno incassato abbondantemente in queste settimane di crisi, grazie soprattutto a due fattori. Il primo è appunto lo sfruttamento di segmenti di mercato esplosi in parallelo al lockdown, come le vendite on-line, mentre l’altro è l’infusione di denaro virtualmente senza limite da parte del governo per evitare il tracollo dell’economia.
Solo nella prima settimana di aprile, i nomi più noti dell’industria e della finanza USA hanno visto così lievitare i propri patrimoni. Secondo dati compilati da Forbes, Bezos ha intascato quasi 7 miliardi di dollari, Mark Zuckerberg (Facebook) 6,2 miliardi, Warren Buffett 5 miliardi, Elon Musk (Tesla) 4,2 miliardi, Larry Ellison (Oracle) 4 miliardi, Larry Page (Google) e Bill Gates 3,6 miliardi ciascuno. Lo stesso Elon Musk dall’inizio dell’anno ha aggiunto 10 miliardi di dollari alle sue ricchezze, mentre i tre membri della famiglia Walton, proprietari del gigante della vendita al dettaglio Walmart, presente anche nel settore dell’e-commerce, si sono appropriati complessivamente di quasi 8 miliardi.
Affari d’oro stanno facendo anche le compagnie private che operano nel settore sanitario. Il fondatore della società di software per videoconferenze Zoom, Eric Yuan, ha da parte sua più che raddoppiato il suo patrimonio nell’ultimo periodo, salito a 7,4 miliardi di dollari. A 5,1 miliardi è arrivato invece Reed Hastings, “CEO” di Netflix, i cui programmi offerti in streaming stanno raggiungendo un numero enorme di persone in tutto il mondo costrette a rimanere in casa.
Altri settori ancora hanno goduto degli interventi di “salvataggio” decisi dal governo e dal Congresso di Washington. Disney, nonostante abbia momentaneamente sospeso dal lavoro oltre 40 mila dipendenti, ha visto salire del 20% il valore delle proprie azioni nel mese di marzo in seguito allo stanziamento di fondi federali che, per l’industria alberghiera e dell’intrattenimento, ammontano complessivamente a 250 miliardi di dollari.
Le compagnie aeree, tra le più penalizzate dall’emergenza in atto, hanno a loro volta ottenuto un totale di 50 miliardi tra prestiti agevolati e denaro a fondo perduto. Le condizioni imposte a queste e alle altre corporations “assistite” dal denaro pubblico sono in gran parte irrisorie e, quando anche comportano il divieto di licenziamenti, risultano soltanto provvisorie. Per quanto riguarda ancora le compagnie aeree, va ricordato che le quattro che dominano il mercato americano – American, Delta, Southwest e United – negli ultimi cinque anni avevano sprecato un totale di 45 miliardi di dollari nel pagamento di dividendi agli azionisti e nel riacquisto delle proprie azioni. Una pratica, quest’ultima, che serve principalmente a far schizzare verso l’alto il valore delle azioni di una determinata compagnia.
Nel pacchetto di salvataggio dell’economia USA, già sbilanciato a favore del business, i membri del Congresso hanno inserito infine una misura che prevede enormi sgravi fiscali per le grandi aziende, difficilmente giustificabili dai contraccolpi del COVID-19, visto che è consentito loro di detrarre le perdite registrate anche nel 2018 e nel 2019. Solo nel 2020, il bonus toccherà i 90 miliardi di dollari e arriverà a 170 in dieci anni. L’82% del totale sarà a beneficio di circa 43 mila contribuenti americani con redditi superiori a un milione di dollari. Appena il 3% della cifra complessiva andrà invece a quanti guadagnano meno di 100 mila dollari.
In media, secondo un’analisi di un’apposita commissione del Congresso, i redditi più alti godranno di uno sconto fiscale pari a 1,6 milioni solo per l’anno in corso. Per avere un’idea delle priorità della classe politica di Washington, nello stesso provvedimento da duemila miliardi di dollari (“CARES Act”), approvato a fine marzo, sono stati stanziati appena 100 miliardi per le strutture sanitarie in prima linea contro il Coronavirus e 150 a favore delle amministrazioni locali.