Nove casi di Corona virus, 5 di essi guariti, tre in cura ed uno deceduto. Quest’ultimo  giunto dagli Stati Uniti già malato e con un quadro clinico seriamente compromesso. Questo bilancio, pur suscettibile di leggere variazioni, è straordinariamente unico nel panorama mondiale e dovrebbe fare del Nicaragua e del suo modello sanitario, improntato alla dimensione sociale egualitaria e comunitaria un caso di studio.

Il Presidente del Nicaragua, Comandante Daniel Ortega, in un intervento pubblico trasmesso ieri a reti unificate, ha spiegato il modo in cui il Nicaragua ha ingaggiato e conduce la battaglia contro la pandemia. Il governo ha assunto le linee guida internazionali ed i protocolli di vigilanza indicati dall’OMS, adattandoli però alla sua realtà sociale, economica e territoriale.

Karen Batten è una signora di circa sessanta anni o poco più moglie del vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence, ex- governatore dell'Indiana. Era già divorziata quando conobbe Pence, all'epoca laureando in legge, lavorava come maestra elementare e ogni domenica suonava la chitarra durante la messa nella chiesa di San Tommaso d'Acquino a Indianapolis. A otto mesi dal primo incontro i due ragazzi si sposarono e la fede avrebbe sempre avuto un ruolo importante nella loro unione. Per la verità ci furono un po' di baruffe all'inizio per via delle reciproche tentazioni che furono superate proprio grazie alla fede.
Lasciato il lavoro da maestra Batten si scrisse ad un corso di acquarello per ingannare la noia ed iniziò a dipingere. Vendeva le sue creazioni nelle fiere di paese organizzate nelle varie località dell'Indiana. Ma nel 2012, quando Pence fu nominato Governatore, Batten scoprì di avere anche una vena imprenditoriale e avviò una piccola impresa che chiamò “Quello è il Mio Asciugamano”, che fabbricava ciondoli utili appunto a distinguere gli asciugamani di casa uno dall'altro. Nonostante qualcuno avesse ostinatamente continuato a sostenere che Pence fosse l'uomo sbagliato, Donald Trump lo scelse come compagno di corsa alle presidenziali del 2016. La carriera di Karen Batten come manager, ritenuta poco adatta alla moglie di un uomo politico di un certo rilievo subì una brusca fine. Divenuta la seconda signora d'America dopo la vittoria elettorale tornò agli acquarelli fino a quando la sua routine, come quella di tutti, fu sconvolta dall'improvvisa devastazione portata dal COVID-19.

Si riteneva anzi che entrambi i Pences fossero stati contagiati dal virus. Con grande sollievo della famiglia i tamponi ebbero poi esito negativo. Recentemente il vice-presidente ha annunciato che affiderà un compito molto delicato nella lotta contro il COVID-19 alla moglie. Dal momento che negli Stati Uniti si verifica immancabilmente un'impennata di suicidi a seguito di qualunque tragedia collettiva, sarà la signora Pence a guidare la task force che veglierà sul benessere emotivo delle categorie più a rischio con particolare riguardo per i veterani e le loro famiglie.

I Pence sono degli ardenti cristiani. Per dirla con parole loro hanno "preso un impegno" con Cristo. Da ragazzo il vice presidente faceva il chierichetto e lui stesso ha dichiarato che anche i suoi cinque fratelli erano stati ministranti presso varie parrocchie. A un certo punto della sua vita adulta però si era messo alla ricerca di una nuova Chiesa assieme alla moglie ed entrambi sono passati alla Chiesa Evangelica. Una decisione privata che resterebbe tale se non riflettesse invece alcune sciagurate decisioni in materia di salute pubblica costate già troppe morti. Tanto per iniziare, anche se non riguarda la pandemia, il vice presidente ha ribaltato tutte le teorie sul fumo dichiarando pubblicamente che, nonostante l'isteria che lo circonda, il tabacco non ha mai ammazzato nessuno. Come governatore dell'Indiana aveva fatto il possibile per tagliare i fondi da destinare agli operatori sanitari che praticano aborti. In vista della Pasqua il cristiano-evangelico hardcore ha consigliato ai credenti di accedere alle chiese ma sempre senza superare le dieci persone alla volta.

Nel frattempo Karen Pence e Melanie Trump sono andate insieme nella base militare di Charleston nella Carolina del Nord per rassicurare i soldati e ricordare le misure precauzionali. In tempi di Corona virus la missione anti-suicidio può apparire assai nobile ma, come tante altre questioni, il suicidio militare non è facilmente spiegabile. E non si capisce come farà la moglie di Pence, priva di esperienza sanitaria e psicologica, a venire a capo di un tema tanto complesso. Bisogna dire che i Pence hanno già fatto alcune delle scelte più disastrose della storia degli Stati Uniti in vari ambiti e non ci sarebbe alcuna necessità del loro moralismo bigotto di fronte al corona virus. Ci fu un periodo in cui Batten girava nelle scuole facendo sottoscrivere agli studenti un documento che li impegnava all'astinenza sessuale mentre il marito,all'epoca governatore , osteggiò non solo l'aborto ma anche la distribuzione gratuita di siringhe per prevenire il diffondersi dell'HIV incurante dell'aumento di morti nella contea rurale di Scott nonostante l'allarme lanciato dalle autorità locali. Chiuse i battenti anche l'unico fornitore ufficiale di test per infezioni a trasmissione sessuale dell'Indiana meridionale.

Per gli Stati Uniti si prospettano giorni molto difficili ma la Casa Bianca non ha ancora un piano nazionale per gestire la situazione. Il presidente è però sicuro che la presenza di Pence al suo fianco sia provvidenziale perchè il suo vice sarebbe “un vero esperto in materia di salute pubblica”. Alla luce dell'alto numero di morti a New York la gente è stremata e, se non fosse per i severi ordine di restrizione, a migliaia sarebbero già scesi su Central Park per protesta.

La Protezione Civile non ha più “body bags”, sacchi muniti di zip per sistemare i corpi senza vita che andranno poi sepolti da qualche parte. Ma al diavolo i numeri, visto che è ottimista persino anche il governatore di New York che ha espresso la sua gratitudine al presidente e al suo vice per “avere risposto prontamente” all'emergenza derivata dalla diffusione del virus. Non tutti condividono un giudizio smentito dai fatti. Nel frattempo si sta diffondendo in rete un commercio macabro oltre che inutile, compresa una collanina con un ciondolo ispirato alla pallina ormai tristemente nota del corona virus. Tanto gli eventi più devastanti sono sempre serviti per lanciare sul mercato le cose più incredibili. In America i fabbricanti d'armi ad esempio hanno rimpinguato l'assortimento del settore con nuovi modelli di pistole e fucili ritenuti più necessari di acqua e cibo. Tutte cose che stridono palesemente con la creazione della task force anti-suicidio capeggiata dalla signora Pence. Inoltre è prematuro affermare che esista un nesso tra la pandemia e l'aumento dei suicidi. E' vero invece che in un momento di grande pressione come quello attuale le persone mentalmente più deboli potrebbero avere la tentazione di mettere fine alla propria vita e non sembra molto saggio armare un popolo sufficientemente armato.

Da quando il corona virus ha iniziato a manifestarsi alcuni ospedali erano ricorsi a tendoni mobili per tamponare le emergenze. Perchè il virus di cui stiamo parlando è una creatura diabolica che ha riempito gli ospedali fino alla capacità massima. In America un ospedale può tenere in vita la media di mille pazienti poi lo spazio si esaurisce. Ma l'arrivo del COVID ha portato ad uno stato di emergenza eccezionale. L'esperienza del passato non fa testo perchè si tratta di una sfida che la medicina si trova davanti per la prima volta.

Una sfida che riguarda tanti paesi ma che negli USA assume a volte aspetti imprevisti. Nel Bronx ad esempio anche malati gravi sono stati respinti per mancanza di letti. Generosamente la Chiesa Evangelica aveva deciso di approntare una tendopoli proprio per ricoverare pazienti a rischio di morte. L'81% dell'amministrazione Trump è composta da evangelici e Pence arde dal prendere la questione COVID nelle sue mani e in quelle di sue moglie. Duemila morti in meno di 24 ore è cosa da far impallidire persino l'11 settembre. Come era già accaduto con Dick Cheney appunto l'11 settembre Pence poteva apparire indispensabile giostrando sul virus. Billy Graham, il più popolare dei leaders della Chiesa Evangelica si era impegnato a costruire in tempi brevissimi un ospedale da campo con sessanta posti letto e il Sinai Hospital era disposto ad aiutare a condizione che non diventasse una struttura riservata ai pazienti evangelici ma servisse a salvare vite senza distinzione. Il benestare del Sinai Hospital era arrivato e Graham aveva firmato i patti. Ma quanto ci si può fidare della buona volontà di Graham, sodale di Pence e, come lui, nemico giurato di omosessuali e islamici?

Il vulnus di relazioni tra bigotti avidi di potere faceva temere il peggio e infatti, al momento di assumere operatori sanitari e medici Graham col benestare dell'alter ego politico, ha selezionato solo elementi a sua immagine e somiglianza facendo metter per iscritto a ciascuno una dichiarazione in cui s'impegneranno ad "evitare contatti sessuali, a rimanere nella stessa stanza con colleghi del sesso posto e lo stesso vale per quanto riguarda il trasporto in macchina". Inoltre dovranno ricordare ogni momento che "Gesù ha versato il proprio sangue per i peccatori e che la vita umana è sacra già dal concepimento". Infine l'invito a pregare perchè la preghiera aiuta a resistere.

Forse sarebbe stato utile aggiungere qualche parola sull'obbligo di guanti e mascherine e magari un invito a lavarsi le mani prima di avvicinarsi ai pazienti. Esentati dall'obbligo di preghiera i detenuti che avranno il compito di seppellire i morti. Con guanti, mascherina e tuta ignifuga depositeranno le bare, molte delle quali senza nome, scaricate dai mastodontici camion sul terreno fangoso della Hart Island. Non hanno mai conosciuto le persone che per un capriccio del destino accompagneranno nel luogo dove passeranno l'eternità. Per ogni giorno di lavoro avranno dieci dollari. Hart Island è da sempre l'ultima dimora degli ultimi della scala sociale. Erano lì che venivano i morti dI AIDS per separarli da tutti gli altri. Non è improbabile che vengano seppellite nello stesso posto anche le vittime del COVID. I virus non sono omofobi o classisti. Gli Stati Uniti d'America sì.

 

 

 

 

 

Il ritiro dalla corsa alla nomination democratica di Bernie Sanders ha di fatto consegnato la vittoria nelle primarie del Partito Democratico all’ex vice-presidente Joe Biden. Significativamente, la decisione del senatore “democratico-socialista” del Vermont è arrivata in piena emergenza Coronavirus negli Stati Uniti, cioè quando la sua proposta politica “radicale”, incentrata in buona parte su un ruolo più forte dello stato nel settore della sanità, sembrava in grado di raccogliere un consenso sempre più vasto. A ben vedere, la ragione principale dell’abbandono, determinato da fortissime pressioni dei vertici democratici, a cominciare dall’ex presidente Obama, potrebbe essere proprio il crescente appeal dell’agenda di Sanders in parallelo all’avanzata dell’epidemia.

Il tempismo della sua uscita di scena è stato singolare, visto che è arrivata il giorno dopo il voto nelle primarie del Wisconsin, per le quali i risultati non saranno noti ancora per svariati giorni. Gli exit poll in questo stato non sono infatti disponibili per via delle misure anti-COVID-19. Sul voto c’era stato un duro scontro politico dopo che il governatore democratico aveva rinviato le primarie a giugno, prima della cancellazione del provvedimento da parte della Corte Suprema statale. Se l’intenzione di Sanders era quella di lasciare, è evidente che un annuncio avvenuto solo pochi giorni prima avrebbe evitato il recarsi alle urne di molti votanti democratici che martedì hanno invece rischiato il contagio.

Il ritiro di Sanders ha comunque comportato una prevedibile e avvilente dichiarazione di appoggio a Joe Biden, ovvero la personificazione stessa dell’establishment ultra-corrotto e reazionario contro cui il senatore del Vermont aveva condotto una durissima campagna. In un discorso video di un quarto d’ora postato su Twitter, Sanders ha assicurato che intende indirizzare il “movimento” creato attorno alla sua candidatura verso il vicolo cieco della candidatura Biden.

Il processo che si aprirà ora è sostanzialmente lo stesso di quattro anni fa, quando Sanders uscì da un’aspra contesa con Hillary Clinton e finì per sostenerla in pieno malgrado il complotto orchestrato nei suoi confronti dal Partito Democratico per impedirgli di conquistare la nomination. Se i toni quest’anno sono stati apparentemente meno accesi, dopo i primi successi di Sanders nelle primarie (New Hampshire, Nevada) i vertici democratici avevano mobilitato tutti gli ambienti politici, mediatici e della società civile vicini al partito per resuscitare la campagna di Biden.

Le successive primarie della South Carolina e gli appuntamenti del “Supermartedì” avevano così assicurato il rilancio dell’ex vice-presidente, nemmeno scalfito dall’evidente deteriorarsi delle sue condizioni di salute mentale e dal moltiplicarsi delle accuse di molestie sessuali. La macchina del Partito Democratico ha in definitiva boicottato il candidato che ancora nel mese di febbraio era sulla rampa di lancio verso la nomination e stava generando i maggiori entusiasmi nel paese grazie alla sua agenda progressista.

Nello spiegare il ritiro, Sanders ha rivendicato il suo ruolo nello spostare a sinistra il dibattito politico americano e, a suo dire, il fatto di avere introdotto alcuni temi cruciali, come l’assistenza sanitaria pubblica universale o l’istruzione universitaria gratuita, nella coscienza collettiva del Partito Democratico. Da queste premesse, il 78enne senatore ha prospettato un ruolo determinante dei suoi sostenitori nella formulazione della piattaforma del partito in vista delle presidenziali di novembre. In realtà, anche quest’anno Sanders ha svolto il ruolo previsto per lui dall’establishment democratico, vale a dire quello di incanalare verso il partito l’avversione per il sistema oligarchico americano, se non per il capitalismo stesso, e neutralizzarne la portata potenzialmente rivoluzionaria.

In questo senso, non è un caso che a spingere Sanders verso l’uscita dalla competizione per la nomination sia stata in qualche modo la più grave crisi sanitaria da un secolo a questa parte. La vergognosa gestione dell’epidemia di Coronavirus da parte dell’amministrazione Trump ha mostrato in tutta la sua drammaticità le carenze della sanità americana basata sul settore privato, portando all’attenzione di decine di milioni di persone la necessità di un solido sistema pubblico.

Proprio in questo frangente, le potenzialità della proposta politica di Sanders sembravano poter tornare ad avere un peso determinante, forse addirittura in chiave nomination. Lo sfidante di Biden, invece, ha mollato precisamente in questo momento, quasi a sottolineare la necessità di evitare la radicalizzazione del clima politico negli Stati Uniti. In altre parole, con la minaccia concreta di un’esplosione sociale nel paese, alimentata anche dall’impennarsi del numero dei disoccupati, Sanders ha abbandonato qualsiasi pretesa di alternativa progressista o “rivoluzionaria”, per impedire che la situazione sfuggisse di mano. Sulla decisione ha pesato comunque anche l’opera di convincimento dei leader democratici. La stampa USA ha infatti scritto che Obama aveva intrattenuto “svariate conversazioni telefoniche” con Sanders nelle ultime settimane.

Recentemente, Sanders aveva già provveduto ad attenuare la retorica di “sinistra”, abbracciando inoltre le iniziative del Congresso per ridurre l’impatto economico del Coronavirus, oggettivamente sbilanciate a favore di Wall Street e delle grandi aziende. Sanders aveva votato a favore del pacchetto di aiuti da duemila miliardi di dollari e, parallelamente, nei suoi discorsi non si è più trovata traccia di proposte per reperire risorse tra le enormi ricchezze private americane.

La lezione più importante del secondo fallimento di Bernie Sanders nella corsa alla Casa Bianca, nonostante la capacità di generare un seguito popolare difficilmente eguagliabile da qualsiasi altro politico americano negli ultimi decenni, consiste dunque nell’avere mostrato ancora una volta come siano illusori e inutili i tentativi di utilizzare il Partito Democratico come strumento di cambiamento in senso anche solo moderatamente progressista.

Il ritiro di Sanders lascia ora strada a Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca, anche se non è da escludere che proprio la decisione del senatore del Vermont possa consentire un qualche colpo di mano ai leader democratici se l’ex vice-presidente dovesse mostrarsi impossibilitato, con ogni probabilità per ragioni di salute, a sostenere una campagna efficace contro Trump. Alcune voci sui media americani stanno già circolando sulla possibile alternativa di Andrew Cuomo, la cui gestione dell’emergenza Coronavirus in veste di governatore dello stato di New York continua a essere elogiata dai media vicini al Partito Democratico.

I sondaggi su base nazionale stanno in ogni caso evidenziando un vantaggio più o meno consistente di Biden sull’attuale inquilino della Casa Bianca. Le rilevazioni sono però premature e, a meno che la situazione economica negli Stati Uniti dovesse precipitare nei prossimi mesi, destinate a cambiare drasticamente non appena inizierà la vera e propria campagna elettorale con i due candidati che si fronteggeranno quotidianamente. A contare, infine, non saranno tanto gli equilibri nazionali, quanto le sfide in una manciata di stati perennemente in equilibrio, dall’Ohio alla Florida, dove la strada di un candidato ultra-screditato e legato a doppio filo all’apparato di potere di Washington come Joe Biden risulterà decisamente in salita.

Se fosse possibile riassumere il comportamento di Donald Trump durante l’emergenza Coronavirus, si potrebbe sostenere che il presidente americano stia continuando a lanciare critiche infuocate verso svariate direzioni per la presunta pessima gestione di altri della crisi sanitaria per poi vedersele ritorcere contro. Così è stato questa settimana anche per la clamorosa polemica esplosa attorno alle parole di Trump sull’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), tutt’altro che impeccabile o senza macchia nell’affrontare lo tsunami del COVID-19, ma di gran lunga più all’altezza della situazione rispetto alla Casa Bianca.

Le manovre statunitensi nel Mar dei Caraibi, alle quali si sono unite Francia e GB, sono politiche, più che militari. La Casa Bianca ha disperato bisogno di consenso per coprire la gestione folle della pandemia oltre che il disastro economico. La guerra alla droga è una messinscena ridicola. Non c’è nessuna guerra alla droga, che peraltro non passa dai Caraibi ma viaggia internamente, partendo dalla Colombia e facendo tappa in Ecuador, in Guatemala e Honduras per giungere poi negli States.

La rotta è ben conosciuta dagli Stati Uniti. Il tentativo di utilizzare la frontiera venezuelana subisce pesanti rovesci e, dato che business is business, la droga sceglie altre vie. Nessuno più della DEA ne è al corrente e desta semmai domande impertinenti la scoperta che il generale venezuelano che più si è distinto nello smantellamento del traffico dalla cocaina sia stato severamente sanzionato dagli Stati Uniti. O forse non è un caso.

Nel tentativo di montare uno show internazionale simile a quello montato a Panama nel 1989 o a Grenada nel 1983, le manovre nei Caraibi cercano di costruire un pretesto per muovere guerra contro Caracas, dato che il suo petrolio, il suo Coltan e il suo oro fanno gola alla combriccola nazi-evangelica che siede alla Casa Bianca, a maggior ragione in presenza di uno scontro tra Russia e Arabia Saudita su produzione e conseguente prezzo del greggio, elemento di forte impatto nella claudicante economia USA.

L’invio della flotta militare verso il Venezuela sembra l’unica strategia possibile per la Casa Bianca per cercare di rovesciare il governo legittimo di Nicolas Maduro. Non è detto che alle minacce seguano i fatti ma certo la messinscena mediatica di Guaidò ha fallito miseramente: privo di seguito, di carisma e di qualità politica, ha come unica caratteristica l’assenza di credibilità. Scoperto a mettersi in tasca 500.000 dollari di aiuti e amico di narcos colombiani, è stato defenestrato in primo luogo dalla stessa opposizione venezuelana, che ha votato un altro presidente per la Camera, togliendogli così persino quel lembo di autorevolezza da eletto, sebbene in una condizione d’illegalità. Difficile riproporlo come leader dell’opposizione se questa stessa l’ha scalzato, dura convincere i già pochi paesi (51 su 194) che l’avevano riconosciuto per obbedienza agli USA. Non è un caso che Guaidò è fuori dalla provocazione che va sotto il nome di “proposta di transizione”: se si accusa illecitamente Maduro di traffico di droga, difficile proporre Guaidò che con i narcos colombiani è più che amico.

Dopo Guaidò è fallita anche la ricetta “boliviana” dell’insurrezione interna: le forze armate sono leali al Presidente Maduro. Tutta un’altra storia dalla Bolivia, dove Evo Morales non pensò di organizzare uno scudo militare efficace contro il golpismo interno. In Venezuela, al contrario, l’unione civico-militare ha rappresentato un ostacolo insormontabile per il golpismo, oltre che un modello di governance e il chavismo è stato abituato a misurarsi nelle strade con il golpismo guarimbero, che è rimasto regolarmente schiacciato dall’organizzazione politico-militare del popolo bolivariano. Le Forze Armate sono ben addestrate ed equipaggiate e un milione di miliziani rischiano di trasformare l’appetito per il boccone venezuelano in una pericolosa indigestione.

C’è anche un fronte di terra nei piani statunitensi, che prevede l’utilizzo dell’esercito colombiano supportato dalle truppe USA di stanza in Colombia e dai paramilitari. Ma per Bogotà non è così semplice: usare la frontiera con lo Stato di Tachira per penetrare in Venezuela vede non poche controindicazioni. Sia per il prezzo pesante da pagare (l’esercito colombiano è specializzato nell’assassinare innocenti da trasformare in “falsi positivi”, non nel combattimento con pari livello), che per il rischio di riaprire il fronte interno con la ex-guerriglia, che rischierebbe di produrre una pericolosa instabilità politica. Questo, senza contare la possibile estensione ad altri paesi del scenario di guerra, il che trasformerebbe il tentativo di imporre obbedienza silente a tre paesi in un generale caos continentale che diverrebbe il peggior dei boomerang per Washington.

Muovere guerra al Venezuela sarebbe l’ultimo errore, il più grave, di una catena di insuccessi.

Per gli USA, infatti, il bilancio generale della guerra al socialismo bolivariano è pessimo: un colpo di stato contro Chavez fallito, il golpismo negli ultimi due anni ricacciato indietro dalle forze armate e dal chavismo, il terrorismo rivelatosi impotente, il narcotraffico dimostratosi incapace, la Colombia inutile allo scopo, il blocco economico, il furto degli averi venezuelani in giro per il mondo e la diplomazia inefficace. Tutte, le hanno provate tutte. Il Venezuela, come prevedibile, da obiettivo alla portata è divenuto rompicapo. Falliti dunque tutti i tentativi di finanziare, armare, addestrare, sostenere politica e diplomaticamente l’opposizione, quella di attaccare direttamente sembra essere la strada unica rimastagli.

Certo, avrebbero potuto incamminarsi sull’unica strada percorribile, quella di relazioni alla pari, di rispetto reciproco, di riconoscimento dei rispettivi sistemi. Il Venezuela non avrebbe mai rappresentato un problema di “sicurezza nazionale”, fa ridere solo il pensarlo. Avrebbe posto sul tavolo una relazione positiva e paritaria ma, comunque, almeno una non belligeranza, un rispetto che è dovuto e non può essere negato o elargito.

Ma gli Stati Uniti non sono in grado di elaborare un processo di dialogo con nessuno; sia perché l’arroganza del comando gli impedisce l’ascolto, sia perché non sono davvero in grado di concepire una linea politica che non preveda la sottomissione a loro con la forza. La cleptocrazia del proprio establishment viaggia in coppia con il furore ideologico degli latinoamericani che risiedono in Florida; sono malati terminali di un finto anticomunismo che occulta la vena predatrice. Hanno serie difficoltà ad analizzare gli scenari che ospitano mentalità diverse dalla loro; una seria incapacità nella gestione di ragionamenti complessi e l’immediato bisogno di semplificazione: tutti elementi che determinano gli errori a catena.

C’è poi una incognita forte sullo scenario caraibico ed è rappresentata dalla risposta possibile di Russia e Cina alla provocazione statunitense. La Cina, che è significativamente esposta dal punto di vista finanziario con Caracas, ha inviato già da tempo apparecchiature ed esperti di guerra elettronica. La Russia, in virtù di un nuovo accordo di cooperazione tecnico-militare, ha fornito a Caracas missili Bation e Iskander, caccia Sukoy SU-30 e il sistema di difesa antiaerea S-400, che ha già mostrato la sua efficacia in Siria proteggendo Damasco dagli attacchi terroristici di Israele. Oltre alla difesa antiaerea il Venezuela è dotato di caccia F-16 statunitensi e dispone di una abbondante dotazione di batterie missilistiche terra-aria mobili e mezzi blindati.

Si tratta di capire quanto Mosca e Pechino intendano puntare sullo scacchiere latinoamericano, considerando che sebbene nessuna delle due capitali abbia voglia di un confronto militare diretto o per procura, i rischi maggiori sono proprio per gli Stati Uniti in una operazione militare che potrebbe ritorcersi contro. Sarà dunque la fermezza euroasiatica che misurerà gli spazi di mediazione con la Casa Bianca. Senza voler minimamente sottovalutare il livello tecnologico e distruttivo del dispositivo militare statunitense nei Caraibi, un attacco non sarebbe una operazione-lampo.

Per citare i due unici successi militari dal 1945 ad oggi degli USA, non vi riuscirono nemmeno con l’isoletta di Grenada nel 1983, dove 600 operai edili cubani bloccarono rangers e marines per diversi giorni. Né vi riuscirono a Panama, nel 1989, dove 23.000 uomini ebbero bisogno di diversi giorni per aver ragione di un minuscola guardia nazionale messa su alla meno peggio da Noriega. Figurarsi in Venezuela oggi. Quale che sia l’esito delle consultazioni, risulta difficile dunque, in questo quadro, pensare ad una passeggiata statunitense, magari da immortalare sul modello di un video-gioco come quelli trasmessi con il bombardamento dell’Irak.

Anche sotto il profilo del consenso interno, Trump farebbe bene a considerare che il Corona virus porterà negli USA tra 250.000 e 350.000 morti. Oltre al dramma umano, la cui responsabilità ricade su un Presidente ignorante ed un Gabinetto di esaltati a tinte criminali, questo produrrà un rischio di collasso persino per le strutture funerarie, oltre al logico diffondersi di una disperazione sociale. Pensare di poterci allegare anche i morti di una guerra che interessa solo ai petrolieri sarebbe follia umana ed elettorale.

Il tempo per le elezioni di novembre è stretto e votare con una guerra in corso sarebbe esiziale per Trump che aveva vinto promettendo il ritiro dei militari da mezzo mondo e di concentrarsi sull’economia.

Potrebbe dunque profilarsi un accordo sul modello di quello sottoscritto nel 1962 per i missili a Cuba tra Krusciov e Kennedy (che prevedeva la rinuncia di missili russi sull’isola in cambio dell’impegno USA di non attaccarla ndr). Ma Trump non è Kennedy: il presidente democratico venne assassinato a Dallas da un complotto di CIA e terroristi cubano americani, mentre quello attuale ha appaltato proprio alla criminale lobby cubano-americana la politica nella regione. Qualcuno, forse Putin, dovrà quindi spiegargli che il decollo del primo caccia e il lancio del primo missile sarebbero l’inizio di un pantano da dove uscirebbe sconfitto. E sebbene nessun presidente USA abbia mai finito il mandato senza almeno una guerra, nessuno ha mai vinto le elezioni con una guerra persa.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy