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- Scritto da Nicoletta Manuzzato
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Dieci anni fa, esattamente il 12 gennaio 2010, un terremoto di 7,3 gradi della scala Richter devastava Haiti, uccidendo 316.000 persone e lasciando un milione e mezzo di persone senza tetto. I primi a prestare soccorso ai sopravvissuti, che scavavano a mani nude alla ricerca dei propri cari sotto le macerie, furono venezuelani e cubani (questi ultimi già presenti nel paese con una missione medica), cui si aggiunsero in seguito volontari di molte altre nazioni.
Anche il governo statunitense si mobilitò, ma la sua fu una "solidarietà armata". In zona giunsero le navi del Southern Command con a bordo più di 20.000 militari. L'immagine emblematica di questi "aiuti" è la discesa dagli elicotteri, una settimana dopo il sisma, di decine di marines con le mitragliatrici in pugno. Non erano venuti a sostenere la popolazione colpita dal tremendo disastro naturale, ma a esercitare il controllo sociale per evitare che venisse messo in discussione l'ordine prestabilito.
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- Scritto da Michele Paris
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Il tentativo di spallata al presidente Trump da parte del Partito Democratico americano si avvia questa settimana al definitivo fallimento con un voto al Senato di Washington dagli esiti ampiamente previsti. Le speranze quantomeno di prolungare il procedimento di impeachment e mettere in imbarazzo la Casa Bianca erano crollate venerdì scorso, quando l’aula aveva bocciato di misura la richiesta democratica di convocare nuovi testimoni a sostegno della tesi dell’accusa, primo fra tutti l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton.
Essendo in minoranza alla camera alta del Congresso, il Partito Democratico puntava a convincere alcuni senatori repubblicani “moderati”, o impegnati in una campagna “competitiva” per la loro possibile rielezione il prossimo novembre, ad appoggiare il tentativo di rimandare il voto finale sulla sorte del presidente. Solo due esponenti repubblicani – Susan Collins del Maine e l’ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney (Utah) – hanno però votato a favore della deposizione in aula di Bolton, bocciata così alla fine con una maggioranza di 51 a 49.
Ciò che ha prevalso nel Partito Repubblicano è stato evidentemente il calcolo politico immediato. Se vi erano probabilmente altri senatori tutt’altro che soddisfatti della condotta di Trump, soprattutto in materia di politica estera, quasi nessuno se l’è sentita di sfidare le ire della Casa Bianca. Nei giorni scorsi erano stati d’altra parte chiarissimi i messaggi più o meno espliciti che avvertivano dei guai che attendevano eventuali “ribelli” intenzionati a schierarsi con i democratici sulla questione dei testimoni.
La situazione ambigua in cui alcuni repubblicani si sono ritrovati è confermata dalle dichiarazioni rilasciate da quello che appariva come l’obiettivo principale degli sforzi del Partito Democratico, il senatore del Tennessee Lamar Alexander. Quest’ultimo ha ammesso che il comportamento di Trump è stato “inopportuno” per quanto riguarda la gestione dei rapporti con l’Ucraina, ma, a suo dire e nonostante quanto previsto dalla Costituzione USA, il giudizio sul presidente non spetterebbe al Congresso, bensì “al popolo”.
Simili teorie hanno fatto apparizioni frequenti durante l’impeachment e sono state alla base della stessa strategia difensiva di Trump. I suoi legali hanno finito per esporre una dottrina profondamente anti-democratica e anti-costituzionale che esclude qualsiasi forma di controllo e supervisione del potere esecutivo da parte di quello legislativo. In definitiva, questa logica portata alle estreme conseguenze condurrebbe niente meno che a una dittatura presidenziale.
Il Senato, ad ogni modo, voterà per il proscioglimento di Trump nella giornata di mercoledì, ovvero il giorno dopo il discorso annuale sullo “stato dell’Unione” dello stesso presidente. In esso, è estremamente probabile, Trump attaccherà in maniera pesante l’impeachment promosso dal Partito Democratico, sfruttando le vicende di questi mesi e la sua assoluzione come un’arma elettorale in previsione del voto di novembre.
In certi ambienti del Partito Repubblicano, anzi, si sta già spingendo per una possibile controffensiva. In un’intervista nel fine settimana a Fox News, il senatore Lindsey Graham, considerato tra gli alleati più fedeli di Trump, ha minacciato indagini ufficiali ai danni dell’ex vice-presidente, Joe Biden, e dell’agente della CIA da cui era partito l’impeachment con la segnalazione della famigerata telefonata del 25 luglio 2019 tra il presidente americano e quello ucraino, Volodymyr Zelensky.
Com’è ormai noto, l’impeachment era partito dalla sua decisione di congelare quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari già stanziati per il governo di Kiev fino a che le autorità ucraine non avessero aperto indagini formali nei confronti dello stesso Biden e del figlio, Hunter, per i loro interessi nel settore energetico del paese dell’ex blocco sovietico. In gioco c’era anche la possibilità di fare luce sulle “interferenze” di certi ambienti ucraini nelle presidenziali USA del 2016 a favore di Hillary Clinton.
Le accuse dei democratici e, è bene ricordarlo, di determinati ambienti della sicurezza nazionale americana, a cominciare dalla CIA, implicavano una condotta illegale del presidente, il quale avrebbe ricattato un governo straniero per ottenere favori che lo potevano aiutare politicamente sul fronte interno. Dopo la messa in stato di accusa da parte della Camera dei Rappresentanti a dicembre, la leadership repubblicana al Senato aveva cercato da subito di chiudere rapidamente la vicenda.
Qualche concessione fatta al Partito Democratico non aveva cambiato la sostanza né gli equilibri favorevoli a Trump. Qualche dubbio almeno sui tempi del procedimento era emerso dopo la notizia, diffusa dal New York Times, dell’imminente pubblicazione di un libro di John Bolton che confermava le accuse rivolte contro il presidente. L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump si era detto disponibile a testimoniare in aula, ma la maggioranza repubblica ha alla fine tenuto e protetto il presidente.
Le possibilità di successo dell’impeachment erano sempre apparse inesistenti, vista la necessità di un voto contro il presidente al Senato con una maggioranza dei due terzi dei suoi membri. L’attivazione di una procedura così esplosiva e raramente usata nella storia americana poteva tuttavia consentire al Partito Democratico, almeno teoricamente, di aprire una linea d’attacco contro Trump in grado di stimolare una mobilitazione popolare contro un presidente impopolare e dalle evidenti tendenze autoritarie. L’azione dei democratici ha al contrario incontrato per lo più indifferenza e scoraggiamento, così che anche quei deputati e senatori repubblicani per nulla entusiasti di Trump hanno sentito poche pressioni ad agire contro il presidente.
La ragione principale di ciò è da ricercare nel fatto che la strategia del Partito Democratico si è basata su premesse logore e screditate. Il presunto scandalo ucraino non è stato altro che il tentativo di riciclare le accuse del “Russiagate”, fallite clamorosamente con il buco nell’acqua dell’indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Il cosiddetto “quid pro quo”, sollecitato da Trump e oggetto dello scandalo o presunto tale, ha avuto al centro dissidi di carattere strategico, riguardanti l’offensiva contro la Russia, che interessano esclusivamente le varie fazioni della classe dirigente e dell’apparato governativo americano.
La vera colpa di Trump, agli occhi del Partito Democratico, è stata in altri termini quella di avere messo a repentaglio i piani di contenimento del Cremlino con lo stop agli aiuti militari diretti a un paese, come l’Ucraina, considerato cruciale nei piani anti-russi e su cui Washington ha investito enormemente prima e dopo il golpe di estrema destra del 2014.
Mentre Trump continua a rappresentare una serissima minaccia e la sua rimozione appare una necessità inderogabile, i leader democratici hanno optato per una battaglia artificiosa destinata a fallire. Da parte sono state infatti lasciate le questioni con le maggiori implicazioni per i principi democratici e costituzionali, come il dirottamento verso la costruzione del muro di confine col Messico di fondi stanziati dal Congresso per altre voci di spesa, la sostanziale liquidazione del diritto di asilo, la creazione di lager per la detenzione di massa di immigrati, la promozione di forze neo-fasciste o l’assassinio deliberato di un alto ufficiale iraniano che stava ricoprendo un incarico diplomatico.
La sconfitta dei leader democratici non è soltanto da ricondurre all’aritmetica, visti gli equilibri al Senato. Essa dipende in realtà dalla natura stessa del partito di opposizione negli Stati Uniti, irrimediabilmente legato a determinate sezioni dei poteri forti e, in ultima analisi, molto più spaventato da una mobilitazione dal basso contro Trump e tutto il sistema politico americano di un successo politico della Casa Bianca e dell’ulteriore accelerazione della deriva anti-democratica che è probabile attendersi dopo il fallimento dell’impeachment.
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- Scritto da Carlo Musilli
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La Brexit è realtà, ma per il momento rimane sulla carta. Questi sono i giorni dei proclami, delle bandiere ammainate, dei canti nostalgici: delle formalità, insomma. Per la sostanza bisognerà aspettare ancora qualche mese. La data che rimarrà sui libri di storia, comunque, è già passata: dopo 47 anni di rapporti non proprio idilliaci, dal primo febbraio 2020 il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea. Si realizza così quanto chiesto dai britannici il 23 giugno 2016, quando al referendum sulla Brexit votarono per il 52% in favore del “Leave”.
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- Scritto da Michele Paris
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Più che un piano di pace o, com’è ufficialmente chiamato, una “visione per la pace”, quello presentato martedì alla Casa Bianca dall’amministrazione Trump rappresenta un tentativo cinico e brutale di ratificare unilateralmente lo status quo illegale creato da Israele in oltre mezzo secolo di crimini commessi contro la popolazione palestinese. Già defunta in partenza se considerata come un’intesa da finalizzare in maniera bilaterale, la proposta americana rompe quasi del tutto con le consuetudini tenute dai precedenti governi di Washington in questo ambito, aprendo la strada al riconoscimento di uno stato – quello di Israele – basato sull’apartheid, nonché a un meccanismo che premia l’oppressore mentre punisce la vittima.
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- Scritto da Mario Lombardo
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La recente visita in Myanmar del presidente cinese, Xi Jinping, ha messo in evidenza il persistere di legami strettissimi tra i due paesi, nonostante il rimescolamento strategico che era seguito o avrebbe dovuto seguire il ritorno formale alla democrazia dell’ex Birmania. I due vicini, per meglio dire, stanno di fatto tornando alla partnership che caratterizzava i loro rapporti prima del breve idillio con l’Occidente. Un’evoluzione, quella in corso, che risponde alla necessità per il Myanmar di evitare l’isolamento internazionale e per la Cina di sfruttare le opportunità strategiche di ampio respiro offerte dall’alleato.
La questione che ha maggiormente contribuito a incrinare le relazioni tra il Myanmar e l’Occidente è la persecuzione, al limite del genocidio, della minoranza Rohingya di fede musulmana, stanziata soprattutto nelle regioni occidentali del paese del sud-est asiatico. La durissima repressione messa in atto dai militari birmani è stata il culmine di decenni di soprusi ed emarginazione e ha costretto centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh.
La condanna internazionale del comportamento del Myanmar è stata inevitabile, viste le dimensioni dei crimini ben documentati. Lo sdegno, tuttavia, si è intrecciato ad aspetti diplomatici e strategici, in particolare per quel che riguarda le reazioni degli Stati Uniti, il cui atteggiamento nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di governi stranieri risulta come sempre estremamente selettivo.