Un voto del parlamento di Budapest nella giornata di lunedì ha assegnato poteri di fatto dittatoriali al controverso primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ufficialmente per combattere il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus. Il colpo di mano di Orbán è finora il più estremo dei provvedimenti adottati dai governi di tutto il mondo impegnati nella crisi sanitaria in atto. Molti altri anche in Occidente, tuttavia, si stanno muovendo o si sono già mossi in questa direzione autoritaria, inclusi quei paesi da dove sono arrivate alcune delle critiche più ferme nei confronti della deriva anti-democratica ungherese.

Indifferente ad ogni decenza e in spregio al Diritto Internazionale, certamente influenzato dalla sua passione smodata per il western, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dichiarato di essere disposto ad offrire 15 milioni di dollari per la cattura del Presidente venezuelano, Nicolàs Maduro. Trump accusa Maduro ed altri dirigenti bolivariani di commerciare droga, o meglio di esportarla negli Stati Uniti. Che sia una infamia destinata ad alzare il livello della minaccia militare lo si intuisce facilmente. Che sia una bugia colossale lo si ricava anche solo dal fatto che il Venezuela é bloccato via mare, via terra e nei corridoi aerei verso gli USA; dunque si deve dedurre che il transito che denuncia Trump sia in realtà immaginifico.

La crisi politica che sta attraversando Israele da oltre un anno si è avvicinata sorprendentemente a una possibile soluzione martedì con l’emergere improvvisa dell’ipotesi di un governo di “unità nazionale” formato dai due principali partiti del paese. A sbloccare lo stallo è stata l’elezione a presidente del parlamento (“Knesset”) del leader dell’opposizione, Benny Gantz, con una mossa che ha di fatto rilanciato la posizione del primo ministro, Benjamin Netanyahu, e frantumato in maniera clamorosa l’alleanza di “centro-sinistra”, ovvero la coalizione “Blu e Bianca” guidata dallo stesso ex capo di Stato Maggiore israeliano.

Il voto del 2 marzo scorso aveva decretato un altro sostanziale pareggio tra il Likud di Netanyahu e il raggruppamento politico guidato da Gantz. Quest’ultimo era sembrato però a un certo punto essere vicino a mettere assieme i 61 seggi necessari a creare un nuovo governo, grazie a un accordo sia con il partito laico di estrema destra Yisrael Beiteinu dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, sia con la “Lista Congiunta” arabo-israeliana.

La fragilissima intesa aveva spinto il presidente dello Stato ebraico, Reuven Rivlin, ad assegnare un mandato esplorativo a Gantz, ma la complicata ipotesi di governo non si è mai materializzata. Tre deputati della coalizione “Blu e Bianca” di Gantz si erano infatti subito dichiarati indisponibili ad appoggiare un esecutivo che avrebbe dovuto contare sui voti di parlamentari arabi. Più in generale, la tenuta di un gabinetto basato su uno spettro politico che avrebbe incluso la destra estrema di Lieberman e la sinistra araba appariva da subito pressoché impossibile da garantire.

Su uno scenario che minacciava di precipitare verso la quarta elezione anticipata consecutiva in poco più di un anno si è alla fine abbattuta la crisi del Coronavirus. Negli ultimi giorni, le vicende politiche in Israele sono diventate frenetiche. Tra le iniziative del governo Netanyahu di istituire un regime ultra-autoritario con la scusa di combattere il diffondersi dell’epidemia e le manovre apparentemente contraddittorie all’interno della Knesset, il risultato è stato un probabile governo formato dalle due formazioni rivali confrontatesi negli ultimi tre appuntamenti con le urne.

Nei giorni scorsi, l’ormai ex “speaker” dell’unica camera del parlamento di Israele, Yuli Edelstein, si era rifiutato di aprire la Knesset e tenere un voto sulla scelta del suo successore perché a suo dire ciò non era permesso dalle norme sanitarie implementate dal governo contro il Coronavirus. La Corte Costituzionale israeliana aveva allora ordinato l’apertura della Knesset e, per tutta risposta, Edelstein, tra i più fedeli alleati di Netanyahu, si era dimesso.

I media avevano raccontato di un Gantz intenzionato a riconvocare il parlamento per cercare di mandare in porto alcune misure che, grazie alla tenue maggioranza appena assemblata, avrebbero decretato la fine della carriera politica di un Netanyahu atteso da un umiliante processo per corruzione e abuso di potere. Al centro della campagna elettorale di Gantz c’era sempre stato d’altra parte l’obiettivo di mettere da parte Netanyahu e la promessa di non partecipare a un governo col Likud se non ci fosse stato un avvicendamento nella leadership di questo partito.

Giovedì, il parlamento è dunque tornato a riunirsi ma, a sorpresa, l’aula ha eletto Benny Gantz a presidente della Knesset, garantendo di riflesso a Netanyahu la permanenza nel proprio incarico. Dietro alla decisione di Gantz di prendersi la carica di “speaker” c’è un accordo con il Likud e lo stesso primo ministro per un governo di “unità nazionale” che, secondo i media israeliani, potrebbe contare su circa 78 dei 120 seggi totali.

Netanyahu resterebbe alla guida dell’esecutivo per i prossimi 18 mesi, al termine dei quali cederebbe la mano a Gantz. A conferma che l’elezione a presidente della Knesset di giovedì potrebbe essere una manovra tattica e provvisoria, Gantz viene indicato come prossimo ministro degli Esteri, mentre il suo alleato, Gabi Ashkenazi, dovrebbe assumere la carica di ministro della Difesa. La rotazione tra i due leader alla guida del governo è da tempo un elemento centrale della proposta di quanti auspicavano una soluzione negoziata tra le due principali forze politiche di Israele. Che Netanyahu mantenga il proprio impegno è però quanto meno dubbio, visto che la mossa di questa settimana ha in sostanza distrutto l’alleanza di Gantz.

L’ex capo di Stato Maggiore porterà in dote solo una quindicina di seggi, poiché alcuni dei partiti che fanno parte della coalizione “Blu e Bianca” hanno criticato fortemente la sua decisione e annunciato che lasceranno l’alleanza. Con un “alleato” così indebolito e un’opposizione spaccata, è altamente probabile che Netanyahu finirà per consolidare la propria posizione e, non è da escludere, potrà decidere nei prossimi mesi di indire un altro voto anticipato per liquidare Gantz e ricostruire una coalizione di estrema destra.

In molti hanno caratterizzato il comportamento di Benny Gantz come un vero e proprio tradimento del mandato elettorale, in base al quale avrebbe dovuto essere del tutto esclusa l’ipotesi di una collaborazione con Netanyahu. Il “centro-sinistra” israeliano ha poi commesso l’ennesimo suicidio, come conferma l’annuncio del Partito Laburista di voler partecipare al nuovo esecutivo, offrendo alla destra la certezza di restare anche per il prossimo futuro la principale forza politica del paese.

A sbloccare la situazione è stata ad ogni modo una telefonata tra Gantz e Netanyahu nella serata di mercoledì. Gantz si è accordato con il primo ministro nonostante la ferma contrarietà degli altri due  leader di maggiore spicco della sua coalizione, l’ex ministro delle Finanze Yair Lapid, numero uno del partito Yesh Atid, e l’ex generale Moshe Ya’alon di Telem. Entrambi hanno infatti denunciato Gantz e confermato il loro addio alla coalizione “Blu e Bianca”, proponendosi come alternativa di opposizione al nascente esecutivo.

Gantz, da parte sua, ha giustificato la propria decisione con la nuova realtà emersa in seguito all’esplosione dell’epidemia di Coronavirus, la quale avrebbe costretto i leader politici israeliani a mettere da parte le divisioni. Così facendo, tuttavia, l’ex macellaio di Gaza ha distrutto l’unica alternativa realistica, almeno in questo momento, alla destra in Israele, legando oltretutto il proprio incerto futuro politico a quello di un Netanyahu passato in pochi giorni dalla disperazione ad essere sempre più il padrone del panorama politico dello Stato ebraico.

Col passare dei giorni aumentano i Paesi e le popolazioni contagiate dalla pandemia di Covid-19. Ad eccezione di alcuni casi, i governi delle nazioni colpite hanno imposto misure drastiche per rallentare almeno la diffusione del coronavirus. Misure che spesso si scontrano con i diritti fondamentali dei cittadini. Proteggono le frontiere interne ed esterne, militarizzano città e territori, decretano stato d’emergenza e coprifuoco, cercando così di alleviare le debolezze e i fallimenti cronici di un sistema sanitario vittima sacrificale di un modello economico neoliberale privatizzatore, individualista e acaparratore.

La prima reazione del governo americano di fronte all’esplosione della crisi del Coronavirus è stata quella di negare la gravità della situazione e di attribuirne la responsabilità interamente alla Cina. In seguito, davanti all’evidenza della diffusione inarrestabile del contagio, l’amministrazione Trump è corsa parzialmente ai ripari con una serie di provvedimenti in larga misura inefficaci per i cittadini ma virtualmente senza limiti per Wall Street. Il corollario di questo piano d’azione è ora l’assalto ai diritti democratici consolidati, attualmente in fase di studio sotto forma di proposta di legge presentata nei giorni scorsi dalla Casa Bianca al Congresso di Washington.

La testata on-line Politico.com ha citato documenti predisposti dall’amministrazione Trump nei quali è contenuto un piano di intervento in ambito legale e giudiziario che, con la scusa di adattare il sistema all’emergenza in atto, minaccia di cambiare profondamente il panorama democratico americano. Le implicazioni sarebbero devastanti soprattutto per le norme costituzionali del giusto processo, visto che quanto è previsto è tra l’altro la sospensione indefinita del cosiddetto “habeas corpus”, principio cruciale del diritto anglo-sassone che stabilisce il diritto di chiunque venga arrestato ad apparire davanti a un giudice per vedere convalidato o eventualmente annullato il provvedimento di privazione della libertà.

Nel concreto, la misura che il segretario alla Giustizia, William Barr, avrebbe chiesto al Congresso consiste nel garantire ai giudici federali la facoltà di congelare tutti i procedimenti giudiziari “pre e post-arresto, processuali, pre e post-processuali”, sia in ambito penale sia civile. In sostanza, tutte le protezioni garantite dalla Costituzione USA potrebbero essere sospese in caso di “disastri” su scala nazionale, ma anche di “disobbedienza civile” o di “altre situazioni di emergenza”. Il presidente Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale a causa del Coronavirus il 13 marzo scorso.

Il presidente dell’Associazione degli avvocati penalisti americani, Norman Reimer, ha evidenziato i pericoli derivanti soprattutto dal riferimento alla fase “pre-arresto”. Infatti, se l’amministrazione Trump dovesse ottenere quanto richiesto, ci sarebbe la possibilità di “essere arrestati e mai portati davanti a un giudice fino a che le autorità non decidano che l’emergenza sia conclusa”.

Oltre alla detenzione preventiva indefinita, tra le altre richieste della Casa Bianca c’è lo stop alla scadenza dei termini di prescrizione nei procedimenti penali e civili per tutta la durata dell’emergenza e per i dodici mesi successivi alla fine di essa. Controversa è anche l’ipotesi di convocare udienze processuali in videoconferenza senza il consenso o la presenza dell’imputato.

Le associazioni americane a difesa dei diritti civili hanno messo in guardia dalla minaccia rappresentata dalle proposte di legge avanzate dall’amministrazione Trump. Queste ultime si aggiungono d’altra parte alla stretta già decisa o prospettata sugli ingressi dei migranti negli Stati Uniti. L’emergenza Coronavirus potrebbe insomma essere sfruttata per limitare in maniera ancora più drastica il diritto di asilo negli USA.

Il tentativo di demolire l’impalcatura democratica americana in periodi di crisi non è certo nuovo, dal momento che ha caratterizzato praticamente tutte le amministrazioni susseguitesi dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Quanto sta cercando di fare Trump in questo frangente potrebbe essere però ancora più pericoloso, proprio perché andrebbe ad aggiungersi a una situazione già segnata dalla costante erosione dei diritti democratici negli ultimi due decenni.

L’articolo di Politico.com è stato raccolto da pochi altri giornali negli Stati Uniti e lo stesso popolare sito di informazione ha minimizzato i rischi del disegno di legge, poiché esso avrebbe poche o nessuna possibilità di essere approvato dalla Camera dei Rappresentanti a maggioranza democratica. La natura del Partito Democratico, da tempo il partito di riferimento dell’apparato della “sicurezza nazionale” USA, rende tuttavia illusorie simili speranze e del tutto reale il rischio sollevato dalla recente rivelazione.

Le manovre del governo per continuare a mantenere il controllo anche con metodi autoritari e anti-democratici, per non dire dittatoriali, di fronte al possibile aggravarsi della crisi sanitaria sono in ogni caso di ampio raggio e, prevedibilmente, includono un ruolo determinante per i militari. Newsweek ha a questo proposito pubblicato due articoli nell’ultima settimana che spiegano come i piani di emergenza siano pronti da tempo e, anzi, gli ordini già consegnati agli alti ufficiali americani.

Un piano segreto è stato ad esempio preparato per far fronte a uno scenario nel quale il presidente e coloro che costituzionalmente dovrebbero farne le veci venissero contagiati dal COVID-19 e impossibilitati a svolgere le loro funzioni. In questo caso, l’autorità passerebbe direttamente ai vertici delle Forze Armate, i quali sarebbero chiamati a mettere subito in atto “una qualche forma di legge marziale” nel paese.

Ancora una volta, le normali regole costituzionali verrebbero soppresse e i militari avrebbero il compito di imporre la “continuità governativa”, soffocando ogni segnale di rivolta e “disobbedienza civile”. In violazione della legge, il Pentagono potrebbe utilizzare i soldati sul suolo americano con compiti di polizia e mantenimento dell’ordine, anche se inizialmente l’incarico formale sarebbe quello di far rispettare quarantena e isolamento sociale per combattere la diffusione del virus.

Le voci di un’imminente entrata in vigore della legge marziale negli Stati Uniti continuano a inseguirsi. Migliaia di uomini della Guardia Nazionale risultano d’altra parte già mobilitati in svariati stati americani per collaborare alla lotta contro il Coronavirus. Alcuni politici hanno dovuto smentire pubblicamente l’ipotesi di legge marziale. Il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, ha affermato che questa misura non è ancora necessaria, ma ha di fatto lasciato intendere che potrebbe essere valutata concretamente nel prossimo futuro. Ancora più rivelatorio è stato un tweet di settimana scorsa del senatore repubblicano della Florida, Marco Rubio. Il tono perentorio e seccato con cui ha cercato di mettere a tacere quelle che ha definite come “stupide voci” sulla legge marziale è sembrato essere proprio la conferma di come questa ipotesi sia discussa e valutata seriamente ai massimi livelli del governo di Washington.

In cima alle preoccupazioni degli ambienti di potere negli USA come altrove continua dunque a esserci quella della conservazione dell’ordine capitalistico, soprattutto di fronte alla prospettiva di una crisi economica pesantissima che si potrebbe innestare su un panorama già segnato da tensioni sociali esplosive.

Il trasformarsi di una crisi sanitaria in crisi sociale e, possibilmente, in rivolta è stato previsto da tempo ai vertici militari e del governo. Nel 2006 uno studio del dipartimento per la Sicurezza Interna dell’allora amministrazione Bush elencava infatti una serie di misure estreme da implementare, soprattutto grazie all’intervento delle Forze Armate, in caso di proteste popolari scatenate in tutto il paese a causa del diffondersi incontrollato di una qualche “pandemia”.


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