Occorre interrogarsi sulle conseguenze sul piano internazionale della situazione a Gaza. Il massacro in corso è senza precedenti. Come accennato dagli esperti delle Nazioni Unite c’è il rischio di un genocidio. Sembra applicabile alla fattispecie la Convenzione sul genocidio del 1948, il cui art. II definisce come segue la fattispecie di genocidio: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (…).”.

I regimi arabi alleati dell’Occidente sono sottoposti da oltre due settimane a enormi pressioni da parte delle rispettive popolazioni, unanimemente solidali con la causa palestinese e sempre più infuriate contro il regime sionista per il massacro quotidiano di civili innocenti nella striscia di Gaza. Tra i paesi in maggiore difficoltà alla luce dell’escalation del conflitto non c’è solo l’Arabia Saudita, che fino a tempi recentissimi sembrava vicina alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, ma anche e soprattutto la Giordania. Il regno hashemita del sovrano Abdullah II si trova infatti a dover gestire una vera e propria polveriera in seguito all’operazione “Alluvione Al-Aqsa” lanciata da Hamas il 7 ottobre scorso, con ripetute manifestazioni di protesta contro Washington e Tel Aviv e richieste dilaganti di revocare l’accordo di pace del 1994 con lo stato ebraico.

Mentre il numero ufficiale dei morti sotto le bombe di Israele a Gaza ha superato quota 5.000, il governo del primo ministro Netanyahu sembra essere vicino a ordinare un’invasione nella striscia che rischia di trasformarsi in un massacro ancora più sanguinoso sia per i civili palestinesi sia per i militari del regime di occupazione. La reazione criminale al blitz lanciato con successo da Hamas e Jihad Islamica il 7 ottobre scorso ha messo lo stato ebraico in una situazione senza vie d’uscita facilmente percorribili. Un’operazione di terra appare di fatto inevitabile per raggiungere l’obiettivo fissato da Tel Aviv, vale a dire l’eliminazione delle forze della “Resistenza” palestinese, ma comporta allo stesso tempo rischi considerevoli che, dietro l’ostentazione di forza del regime sionista, agiscono in qualche modo da freno alle manovre militari.

Annullati i vertici bilaterali con Giordania e Autorità palestinese, snobbati i colloqui da parte saudita, poste serie condizioni da parte dell’Egitto, bloccate le trattative per gli accordi di Abramo, in aperto scontro con le commissioni ONU sui diritti umani, spaccata la UE che sfiducia la sua presidente dall’eccessivo ardore filo-israeliano, la miglior alleata degli USA in Europa, assegnazione del ruolo di protettore e garante dei palestinesi a quell’Iran che Biden voleva isolare da tutti, palestinesi in primo luogo: la missione di Biden in Medio Oriente è stata un fiasco totale.

E certo non ha aiutato prima far giungere due portaerei nucleari, con 20.0000 marines a bordo e nuovi aiuti militari per Tel Aviv e poi porre il veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza a firma russa che chiedeva un immediato cessate il fuoco mentre si cercava il dialogo con i paesi arabi e l’Autorità palestinese. Difficile immaginare maggiore rigidità ideologica mista a idiozia politica.

Il bombardamento israeliano di un ospedale a Gaza nella giornata di martedì è stato finora il culmine della campagna militare al limite del genocidio del regime di Netanyahu contro i palestinesi e ha subito provocato un’ondata di indignazione e proteste nei paesi arabi e tra le popolazioni di quelli occidentali. Per la gravità del bilancio ancora parziale – circa 500 civili sono stati massacrati, di cui poco meno della metà bambini – questo episodio potrebbe diventare un punto di svolta di un conflitto sempre più vicino a esplodere in una guerra regionale che, oltre a risultare disastrosa per numero di vittime, minaccia di trasformarsi in un boomerang sia per gli Stati Uniti che per lo stato ebraico.


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