L’inviato speciale di Washington per il Libano, Amos Hochstein, è arrivato mercoledì in Israele per tirare le somme con il primo ministro Netanyahu delle trattative in corso su una possibile tregua sul fronte settentrionale. Gli Stati Uniti e i principali esponenti dello stato libanese hanno espresso un aperto ottimismo nei giorni scorsi, anche se la proposta sul tavolo per far cessare i combattimenti nel paese dei cedri continua a incontrare i dubbi di Hezbollah, essendo fortemente sbilanciata a favore dello stato ebraico.

L’annunciata nomina di Marco Rubio a prossimo Segretario di Stato dell’Amministrazione Trump, per molti aspetti inquieta tutti coloro che ritengono la carica decisamente superiore allo standing del politicante di origine cubana. Come evidenziato da molti e confermato dal suo curriculum, Rubio non brilla per qualità politiche né per percorsi istituzionali ragguardevoli che ne abbiano messo in risalto le doti diplomatiche. Più che una nomina adeguata al ruolo, quindi, appare piuttosto il rimborso politico dovuto agli stati del Sud e, in particolare, alle organizzazioni di fuoriusciti cubani, venezuelani e nicaraguensi, che rappresentano la parte più putrida dello stato circondato dalle Everglades piene di ogni insidia.

Benché infatti la rete messa in piedi negli anni ’80 da Jorge Mas Canosa con l’approvazione di Ronald Reagan e sostenuta con ardore in questi decenni da Aznar e dal partido Popular in Spagna e da tutta la destra latinoamericana non controlli più interamente il voto dell’immigrazione latina in Florida (stato chiave dal punto di vista elettorale per la presidenza USA), è indiscutibile il suo alto livello d’influenza sul territorio. Inoltre, vi sono due aspetti da considerare, entrambi di notevole peso. Il primo riguarda il gigantesco volume di affari che si preannuncia nella parziale riconversione della Florida in uno Stato destinato alla popolazione bianca e ricca in età adulta: sono in ballo miliardi di Dollari per l’edilizia, la cantieristica e l’industria dell’intrattenimento sui quali la lobby cubano-americana ha già posato occhi e grinfie.

Le sanzioni imposte questa settimana all'Iran dal Consiglio d’Europa e dal governo laburista del Regno Unito rappresentano l'ennesimo capitolo di una politica occidentale caratterizzata da ipocrisia e doppi standard. Nonostante l’annuncio di Teheran avvenuto solo un giorno prima, di una ripresa dei colloqui sul nucleare con i paesi europei, Bruxelles e Londra hanno deciso di inasprire le misure punitive contro il paese, accusandolo di sostenere militarmente la Russia nella guerra in Ucraina e di armare gruppi nella regione mediorientale. Accuse, tuttavia, che appaiono infondate e a dir poco contraddittorie.

L’Europa ha motivato le nuove sanzioni sulla base del presunto trasferimento di droni e missili iraniani alla Russia, utilizzati nel conflitto ucraino. Tuttavia, lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha recentemente dichiarato che non vi sono prove di forniture di missili balistici da parte dell’Iran. Nonostante ciò, le misure colpiscono duramente settori strategici iraniani, come la compagnia navale IRISL e la compagnia aerea nazionale Iran Air, accusate di trasportare armi e “tecnologie militari correlate” a favore di Mosca.

Stando all’avvertimento lanciato dal presidente Putin un paio di mesi fa, la decisione presa nel fine settimana dall’amministrazione Biden di autorizzare l’utilizzo di missili americani a lungo raggio “in profondità” nel territorio russo avvicina in maniera drammatica lo stato di guerra a tutti gli effetti tra Mosca e Washington. La notizia è stata diffusa da alcuni dei principali media ufficiali negli Stati Uniti e, se effettivamente confermata dai fatti, rappresenta una scelta sconsiderata e ingiustificabile per una serie di ragioni, la prima delle quali è il rifiuto da parte degli elettori americani nelle elezioni di inizio novembre proprio delle politiche guerrafondaie alla base della tragedia ucraina.

Dalla sua indipendenza nel 1776 e durante il XIX secolo, gli Stati Uniti concentrarono i loro sforzi nella costruzione dello Stato nazionale federale. James Monroe (1817-1825) fu il primo presidente a prendere posizione nei confronti della nascente America Latina, regione ancora coinvolta nei processi finali di indipendenza. La proclamazione "L'America per gli americani" mirava a proteggere il continente da eventuali tentativi europei di restaurare regimi coloniali e, al contempo, a garantire la presenza e l'influenza nordamericana nella vasta regione.

Tuttavia, nonostante il "monroismo", nel XIX secolo si verificarono diverse incursioni europee e, durante la presidenza di James K. Polk (1845-1849), la guerra contro il Messico permise agli Stati Uniti di appropriarsi della metà del territorio messicano. In contrasto, molti paesi dell'America Latina abolirono la schiavitù negli anni 1850 (ad esempio l'Ecuador nel 1851), mentre negli Stati Uniti ciò avvenne solo nel 1863 con il presidente Abraham Lincoln (1861-1865).


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