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di Mario Lombardo
A pochi mesi dalle elezioni generali in India, il Partito del Congresso al potere guidato dalla presidente Sonia Gandhi ha subito una pesantissima sconfitta nelle consultazioni per il rinnovo di alcune assemblee statali del paese asiatico. Il partito di ispirazione social-democratica della dinastia Gandhi-Nehru ha pagato a caro prezzo sia una serie di scandali esplosi negli ultimi anni che l’avvio di impopolari politiche economiche di libero mercato, lasciando strada all’opposizione del Partito Popolare Indiano (Bharatiya Janata Party, BJP) ultra-nazionalista induista che appare ora il netto favorito per la formazione del prossimo governo centrale.
Il voto amministrativo in India è andato in scena domenica in quattro stati - Chhattisgarh, Madhya Pradesh, Mizoram e Rajasthan - più il Territorio Nazionale della Capitale di Delhi, interessando complessivamente oltre 180 milioni di abitanti.
I rovesci più pesanti per il Congresso sono stati registrati nel Rajasthan e a Delhi, dove ha dovuto cedere la maggioranza delle rispettive assemblee e il governo locale al BJP. Nello stato nord-occidentale del Rajasthan, il partito al potere ha ottenuto solo 21 seggi su 200, contro i 162 del BJP. Nella capitale, invece, il Congresso è passato da 43 seggi, conquistati nel 2008, ad appena 8 sui 70 totali, mentre i rivali di destra sono saliti a 31.
Il BJP si è inoltre confermato negli stati di Chhattisgarh e Madhya Pradesh - piuttosto agevolmente nel primo e di misura nel secondo - dove già governava. Il Congresso è riuscito a riconfermarsi alla guida soltanto del piccolo stato orientale di Mizoram, dove vivono poco più di un milione di persone. Il bilancio finale del voto nel fine settimana è stato dunque disastroso per il Congresso, il quale ha visto quasi dimezzata la propria rappresentanza complessiva.
A Delhi, quanto meno, il BJP non è riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta, così che si renderà necessaria una coalizione per amministrare la metropoli di oltre 12 milioni di abitanti. Qui, ad ottenere un risultato inaspettato è stato il Partito dell’Uomo Comune (Aam Aadmi, AAP), creato poco più di un anno fa attorno ad un programma basato prevalentemente sulla lotta alla corruzione pressoché endemica nel paese.L’AAP ha chiuso con ben 27 seggi, sottraendo voti al Congresso tra gli elettori più poveri e della classe media di Delhi. Il leader della nuova formazione politica, Arvind Kejriwal, ha addirittura strappato il seggio di Sheila Dikshit, per 15 anni a capo del governo della capitale (“chief minister”) per il Partito del Congresso.
Le implicazioni dell’appuntamento elettorale appena concluso in India per il Partito del Congresso appaiono quindi chiare in vista delle elezioni nazionali previste per il mese di maggio. La batosta patita conferma infatti il profondo malcontento diffuso in tutto il paese per un governo centrale incapace far fronte al rallentamento dell’economia con misure in grado di rispondere alle aspettative della maggioranza della popolazione.
L’esecutivo della coalizione Alleanza Progressista Unita e presieduto dall’ultra-ottantenne primo ministro Manmohan Singh, su iniziativa del Partito del Congresso con a capo Sonia Gandhi, da qualche tempo si è mosso verso l’apertura del mercato indiano, dando il via libera a privatizzazioni e investimenti stranieri in svariati settori, nonché tagliando i sussidi per calmierare i prezzi dell’energia.
Oltre al contraccolpo elettorale di queste e altre “riforme” economiche impopolari - lanciate ufficialmente più di un anno fa al termine di un sofferto processo che portò anche alla perdita di alleati di governo - il Congresso ha patito vari scandali che hanno coinvolto numerosi suoi esponenti in casi di corruzione, evidenziando i discutibili legami del partito con gli ambienti del business indiano.
La crescente avversione nei confronti del governo Singh e del Partito del Congresso è stata sfruttata dal BJP all’opposizione, il quale tuttavia è il tradizionale punto di riferimento della borghesia indiana e promuove politiche ancor più di matrice liberista. Attorno al BJP si sono così stretti gli ambienti economici e finanziari del paese che giudicano troppo caute le iniziative del Congresso in ambito economico, lanciando come candidato alla guida del prossimo governo uno dei leader più controversi del partito, Narendra Modi.Capo del governo dello stato di Gujarat, quest’ultimo è noto, oltre che per una spiccata predisposizione verso politiche “business-friendly”, per la sua retorica incendiaria e le posizioni estreme riguardo la supremazia induista. La candidatura di Modi alla guida del suo partito, inoltre, era apparsa a molti improbabile alla vigilia della nomina ufficiale, visto il suo coinvolgimento nella sanguinosa persecuzione di indiani musulmani nel 2002 che nello stato di Gujarat fece più di mille morti.
Nonostante siano in molti ad avere visto le elezioni di domenica come un antipasto di quello che accadrà nel maggio prossimo, alcuni commentatori hanno messo in guardia dal trarre conclusioni affrettate, ricordando come il BJP anche nel 2003 fece segnare risultati eccellenti a livello locale per poi perdere la sfida nazionale l’anno successivo.
Le prospettive del Partito del Congresso, in ogni caso, appaiono ben poco rosee per l’immediato futuro. Il tentativo stesso di accelerare la candidatura del 43enne Rahul Gandhi per la guida del prossimo governo difficilmente riuscirà ad invertire la tendenza, soprattutto perché il figlio di Sonia e dell’ex premier assassinato Rajiv Gandhi ha condotto in prima persona la campagna elettorale del suo partito che è appunto culminata con la pesante sconfitta del fine settimana.
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di Michele Paris
Mentre i manifestanti dell’opposizione si stavano apprestando a marciare verso la sede del governo a Bangkok, il primo ministro thailandese, Yingluck Shinawatra, ha annunciato lunedì lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni da tenersi al più presto per cercare di stabilizzare il paese del sud-est asiatico precipitato ancora una volta nel caos ormai da diverse settimane.
La ripresa delle proteste di piazza contro l’Esecutivo, per molti manovrato dall’estero dall’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, era avvenuta dopo una breve tregua decisa giovedì scorso in occasione dell’86esimo compleanno del sovrano thailandese, re Bhumibol Adulyadej. Nella giornata di domenica, inoltre, tutti e 153 i parlamentari del Partito Democratico all’opposizione avevano rassegnato le proprie dimissioni, dichiarando l’impossibilità di lavorare con l’esecutivo guidato dal partito pro-Thaksin, Pheu Thai (“Per i Thailandesi”).
Lo scioglimento anticipato del Parlamento, però, è stato definito dagli oppositori del governo tutt’al più come il primo passo verso la risoluzione della crisi. Infatti, come ha ribadito lunedì il leader dei manifestanti, l’ex vice-primo ministro e già parlamentare del Partito Democratico Suthep Thaugsuban, il loro obiettivo rimarrebbe lo “sradicamento del Thaksinismo” dalla Thailandia.
Come accaduto puntualmente nell’ultimo decennio, d’altra parte, anche le nuove elezioni assegneranno probabilmente la vittoria al partito attualmente al potere, così che Suthep e gli altri leader dell’opposizione chiedono da tempo, assieme alle dimissioni di Yingluck, non un voto anticipato bensì la creazione di un cosiddetto “Consiglio del popolo” non elettivo con il compito di scegliere il successore di quest’ultima a capo del governo.
Questa proposta anti-democratica sarebbe in sostanza uno strumento per fare intervenire nella crisi i tradizionali ambienti di potere thailandese, a cominciare dalle Forze Armate e dalla casa regnante, per portare a termine un nuovo colpo di stato dopo quello militare del 2006 che depose Thaksin e quello giudiziario del 2008 che mise fine ad un altro governo legittimamente eletto e guidato ancora dai sostenitori dell’ex premier.
Quella del primo ministro Yingluck sembra essere stata così una mossa decisa per neutralizzare le proteste o, quanto meno, per evitare una loro escalation che, oltre a installare un nuovo governo senza il consenso degli elettori, potrebbe paralizzare ulteriormente il paese di fronte ad una netta frenata dell’economia e ai timori espressi dal business locale per un possibile rallentamento degli investimenti internazionali.
L’annuncio fatto lunedì in diretta televisiva da Yingluck potrebbe essere stato deciso nei giorni scorsi assieme ai militari e al sovrano, nonché in seguito all’incontro dell’ambasciatore americano a Bangkok, Kristie Kenney, e del numero uno del Comando USA nel Pacifico, ammiraglio Samuel Locklear, con la stessa premier e i vertici militari thailandesi.
Le Forze Armate e gli ambienti reali, pur osteggiando il governo, temono che il confronto in atto nel paese possa sfociare in una crisi ancora più grave, soprattutto alla luce della mobilitazione nelle fasi iniziali dei sostenitori del governo e di Thaksin - definiti “Camicie rosse” e facenti parte in gran parte delle classi più povere nelle aree rurali del nord del paese - presenti da qualche giorno nella capitale e già protagonisti di alcuni scontri con i manifestanti dell’opposizione. Per gli Stati Uniti, invece, lo scivolamento nel caos del tradizionale alleato metterebbe a rischio uno dei pilastri della propria strategia asiatica in chiave anti-cinese proprio in un momento di gravi tensioni con Pechino.
La minaccia di uno scenario di questo genere aveva già spinto l’establishment tradizionale thailandese a stipulare un tacito accordo con Yingluck in seguito alle elezioni del 2011 che permise alla sorella di Thaksin di insediare il proprio governo in cambio della non interferenza nelle questioni militari e reali. Un eventuale intervento dei militari in quell’occasione per cancellare nuovamente il risultato elettorale avrebbe infatti con ogni probabilità fatto riesplodere drammaticamente le tensioni nel paese, già provato dalla durissima repressione ordinata dal governo del Partito Democratico nel 2010 contro le proteste dei sostenitori di Thaksin che fece più di 90 morti.
Come è noto, da alcune settimane l’equilibrio che aveva caratterizzato gli ultimi due anni della vita politica thailandese si è spezzato in seguito al fallito tentativo del governo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito al discusso Thaksin il ritorno in patria - dove è stato condannato a due anni di carcere per corruzione - e modificato la Costituzione per rendere il Senato interamente elettivo.
Che la fine anticipata della legislatura possa far cessare le proteste in corso non è comunque chiaro, anche se alcuni leader dell’opposizione stanno iniziando a manifestare più di una preoccupazione per la prosecuzione delle manifestazioni. Altri, al contrario, hanno minacciato un boicottaggio del voto, che finirebbe però per emarginare ulteriormente un Partito Democratico che non raccoglie un successo elettorale da oltre un decennio. Allo stesso tempo, le Forze Armate - protagoniste negli ultimi 80 anni di 18 colpi di stato portati a termine o falliti in Thailandia - continuano a mantenersi ufficialmente neutrali e a sollecitare una soluzione pacifica della crisi.
In ogni caso, un membro della commissione elettorale della Thailandia ha fatto sapere lunedì che la data più probabile per il voto sarà attorno al 2 febbraio prossimo, come aveva suggerito in precedenza anche un portavoce del governo. Con il voto per il rinnovo dell’intero parlamento ormai certo, la stessa commissione ha poi dovuto cancellare le elezioni speciali che erano in programma il 22 dicembre per scegliere i sostituti di una decina di parlamentari del Partito Democratico, tra cui Suthep, che a novembre si erano dimessi per guidare le proteste contro il governo.
Dopo qualche esitazione, alcuni leader del Pheu Thai hanno confermato sempre lunedì al quotidiano in lingua inglese Bangkok Post che la loro candidata alla carica di primo ministro rimarrà quasi certamente Yingluck Shinawatra, come dovrebbe stabilire in maniera formale un vertice del partito pro-Thaksin fissata per mercoledì 11 dicembre.
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di Fabrizio Casari
Si annuncia una calata di big di proporzioni stellari per i funerali di Nelson Mandela. Da ogni dove del pianeta giungono infatti conferme alla presenza di potenti o presunti tali che andranno ad omaggiare il loro bisogno di apparire più che l’eroe del Sudafrica appena deceduto. Sfileranno in favore di telecamere, distribuendo dosi massicce di melassa e frasi di circostanza ipocrite e sapientemente costruite dai loro uffici e impavidamente pubblicate dai taccuini squadernati nell’opera quotidiana di vassallaggio.
Una sola cosa ci sarà sapientemente evitata: la verità storica, cioè i rispettivi ruoli e le rispettive responsabilità che molti degli invitati hanno avuto nella vicenda politica di Nelson Mandela, nella storia dunque del Sudafrica.
Se la presenza cotonata dovrà testimoniare la vicinanza in morte dei potenti al guerriero indomabile della causa del suo popolo, sarà però opportunamente soppressa dai discorsi e dai titoli di coda la distanza abissale da Madiba di molti dei paesi i cui rappresentanti calcheranno il carpet solenne dell’ultimo addio.
Perché Nelson Mandela, che da Presidente prima e in morte ora annovera il mondo intero nella lista degli amici e degli ammiratori, da guerrigliero e da prigioniero, da leader dell’African National Congress ebbe in molti dei paesi che oggi gli rendono il tributo dovuto, avversari implacabili, nemici decisi. Inserito ora nel pantheon dei migliori, fino agli anni ’90 si trovava nella lista dei “terroristi comunisti” stilata dai governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Israele e altri paesi europei che appoggiavano apertamente il Sudafrica di Botha, putrida enclave razzista e fascistoide che aveva nell’apartheid l’elemento caratterizzante del suo dominio di classe.
Ai funerali di Mandela sarà presente, tra gli altri, anche George W. Bush, il cui padre, vicepresidente degli Stati Uniti nell’Amministrazione guidata da Ronald Reagan, si adoperò in ogni modo per fornire assistenza ai mercenari africani e sostenne oltre ogni decenza il regime dell’apartheid. Solo dopo la sua uscita dalla Casa Bianca, nel 1988, Mandela uscì dalla lista dei “terroristi” stilata dagli USA.
Il Sudafrica che imprigionò per 27 anni Nelson Mandela era infatti sostenuto politicamente, finanziariamente, diplomaticamente e militarmente da uno schieramento di potenze occidentali che cercava di limitare in ogni modo l’ormai inevitabile avanzata della democrazia in Africa, tentando di limitare il processo di decolonizzazione.
Erano gli stessi governi che non solo appoggiavano il regime razzista di Pretoria, ma che affidavano alle cure degli specialisti israeliani e sudafricani le guerriglie filo-occidentali dell’Unita e della Renamo, finanziati ed aiutati contro i legittimi governi di Agostino Neto in Angola e Samora Machel in Mozambico. Nell’indifferenza generale da parte delle socialdemocrazie e nel sostegno diretto o indiretto al regime segregazionista da parte degli USA e dei suoi alleati europei, le nuove democrazie africane vennero attaccate da terroristi e mercenari.A difendere l’Angola liberatasi grazie alla guerriglia vincitrice contro i regimi locali e alla rivoluzione dei garofani, che nel 1974 cambiò il regime portoghese, chiudendo l’epoca della dittatura salazarista, furono però solo i cubani.
L’impegno di Fidel Castro fu infatti decisivo per sostenere Luanda contro le organizzazioni terroristiche etero dirette da Pretoria. Fu l’intervento davvero eroico dei combattenti cubani, culminato nella storica battaglia di Cuito Canavale, a far indietreggiare una volta e per sempre il poderoso esercito sudafricano, giustamente considerato rilevante nelle elites castrensi internazionali.
Le truppe segregazioniste, insieme all’esercito dell’allora Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) e di altre due bande mercenarie (la più importante era l’Unita di Jonas Savimbi), avevano infatti sferrato una offensiva militare enorme, condotta con 100.000 uomini ed erano riusciti a isolare e circondare le truppe angolane, aiutate dai cubani. L’intento era quello di sfondare le linee angolane e poi procedere verso Luanda per rovesciare l governo del MPLA.
Ma Fidel Castro decise di ribaltare la situazione e organizzò un poderoso ponte aereo da Cuba fino a Cuito Canavale, nel nord-est dell’Angola, a più di 1000 chilometri dalla capitale. Le truppe cubane, con artiglieria e carri armati, appoggiate dall’aviazione, riuscirono a rompere l’assedio e diedero il via alla controffensiva che non solo ripulì l’Angola, ma liberò la Namibia, fino a quel momento sotto il dominio militare del Sudafrica, che l’utilizzava come retroterra logistico per l’aggressione all’Angola.
Cuba pagò un prezzo significativo scegliendo di appoggiare i rivoluzionari angolani nella guerra contro il regime di Pretoria e i suoi alleati. Lo fece in nome di una concezione dell’internazionalismo che non lasciava dubbi quanto a coerenza e determinazione e che, dall’Africa all’America latina, ha sempre rappresentato una delle caratteristiche fondamentali della rivoluzione cubana. A Cuito Canavale cominciò la fine del regime sudafricano, sconfitto per la prima volta sul terreno militare. Fu l’esito di quella battaglia e della controffensiva cubana e angolana che obbligò il regime segregazionista a sedersi al tavolo degli accordi di pace privo di ogni baldanza.
Come riportano i documenti storici, il capo negoziatore cubano, Jorge Risquet, rivolgendosi alla delegazione di Pretoria disse: “Dovete capire che l’epoca delle avventure militari, delle aggressioni impunite, dei massacri dei rifugiati, è finita per sempre. Il Sudafrica attua come se fosse un esercito vincitore, invece di quello che in realtà è: un esercito aggressore colpito e in discreta ritirata. Il Sudafrica deve capire che non otterrà a questo tavolo di negoziati quello che non ha potuto ottenere sul campo di battaglia”.
Illuminanti furono le parole di Chester Crocker, sottosegretario statunitense per gli affari africani, quando si rivolse al Segretario di Stato Usa George Shultz per informarlo della situazione: “Scoprire cosa pensino i cubani è una forma d’arte. Sono preparati tanto per la guerra come per la pace. Siamo stati testimoni di una raffinata tattica e una vera creatività al tavolo dei negoziati. Lo sfondo è quello di idee fulminanti di Castro e nello schieramento senza precedenti dei suoi soldati sul terreno”. Insomma, nonostante gli sforzi di Washington e dei suoi alleati europei, Cuba aveva cambiato la storia dell’Africa australe.Fu proprio Nelson Mandela che volle sottolineare come l’esito della battaglia di Cuito Canavale fu decisivo per la ritirata delle truppe segregazioniste e per l’apertura del serraglio attraverso il quale poterono cominciare i negoziati che portarono alla fine del regime di Pretoria. E, ricordarlo non fa male, lo stesso Mandela ebbe a scontrarsi con la Casa Bianca, rappresentata da Al Gore e Hillary Clinton, al suo insediamento come Presidente del Sudafrica, quando il presidente statunitense fece presente la difficoltà di trovarsi nel corso della cerimonia vicino a Fidel Castro, visto il clima tra Washington e L’Avana, velatamente minacciando che la presenza di Castro poteva rendere difficile la sua.
Madiba, che considerava Castro come un suo fratello e i cubani come gli unici amici che ebbe quando l’Occidente appoggiava il regime segregazionista di Botha mentre definiva lui e la sua ANC come terroristi, rispose che il Sudafrica era libero anche grazie a loro, che considerava i cubani come fratelli di sangue e riteneva ogni segno di ostilità nei loro confronti una manifestazione di ostilità nei confronti del Sudafrica. Al Gore dovette abbassare la testa e preparasi alle foto di rito alla presenza di Fidel Castro.
D’altra parte, nel 1995, Mandela precisò bene il suo sentimento verso Cuba: “I cubani vennero nella nostra regione come dottori, maestri, soldati, esperti di agricoltura, ma mai come colonizzatori. Divisero le stesse trincee nella lotta contro il colonialismo, sottosviluppo e apartheid. Non dimenticheremo mai questo imparagonabile esempio di disinteressato internazionalismo”.
Lo ricordava nel 2005 Thenijwe Mtintso, ambasciatrice sudafricana a Cuba, nel corso di una celebrazione per il ventennale della battaglia di Cuito Canavale: “Oggi il Sudafrica ha molti nuovi amici. Ieri, questi amici definivano i nostri leader e i nostri combattenti come terroristi e ci perseguitavano dai loro paesi mentre aiutavano il regime dell’apartheid. Questi stessi amici oggi vorrebbero che denunciassimo ed isolassimo Cuba. La nostra risposta è molto semplice: è il sangue dei nostri martiri cubani e non quello dei nostri nuovi amici quello che scorre profondamente nella terra africana e nutre l’albero della libertà nella nostra patria”.
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di Mario Lombardo
Con la situazione nella Repubblica Centrafricana (CAR) in rapido deterioramento, il governo francese e l’Unione Africana hanno deciso nel fine settimana di aumentare il proprio contingente militare in uno dei paesi più poveri dell’intero pianeta. Le violenze hanno fatto registrare una drammatica escalation negli ultimi giorni dopo mesi di instabilità seguita all’avanzata dei ribelli musulmani che, lo scorso mese di marzo, avevano deposto il presidente, François Bozizé.
Operazione avvenuta con la tacita approvazione della Francia, impegnata a portare a termine un riallineamento strategico nel continente africano per riaffermare i propri interessi economici, minacciati soprattutto dalla crescente influenza cinese in molte ex colonie africane di Parigi.
Il livello di atrocità raggiunto nella Repubblica Centrafricana è apparso in questi giorni in tutta la sua evidenza da una serie di resoconti apparsi sui media di mezzo mondo che hanno descritto massacri indiscriminati compiuti sia dagli ex-ribelli ora al potere sia dai gruppi armati a maggioranza cristiana e dalle forze fedeli al presidente in esilio.
Dopo che giovedì scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato una risoluzione a favore di un intervento militare più massiccio nel paese situato nel cuore dell’Africa (MISCA, Mission Internationale de Soutien à la Centrafrique), il presidente francese, François Hollande, al termine di una conferenza sulla sicurezza del continente a Parigi nella giornata di sabato, ha annunciato che il suo paese aumenterà il numero di truppe da 1.200 a 1.600. Allo stesso modo, l’Unione Africana porterà il numero di soldati provenienti dai paesi vicini dai 2.500 attuali a circa 6.000.
Le forze francesi, peraltro, sembrano avere già intensificato il proprio impegno in questo paese, con pattuglie di soldati che stanno presidiando le strade della capitale, Bangui, e le regioni nord-occidentali. Lo stesso Hollande ha poi affermato che la situazione di estrema crisi richiederà un drastico anticipo delle elezioni, inizialmente previste per il 2015 quando dovrebbe scadere il mandato del presidente ad interim, il leader dei ribelli Michel Djotodia.
Come ha già fatto in altri paesi africani negli ultimi anni, la Francia sta dunque sfruttando caos e violenze anche nella Repubblica Centrafricana per legittimare una maggiore presenza nel continente. Tutti i precedenti interventi - in Costa d’Avorio, Mali e Libia - così come quest’ultimo, vengono puntualmente presentati come necessari per “salvare vite umane” o per promuovere i progressi verso la democrazia dei vari paesi interessati, quasi sempre dotati di risorse del sottosuolo tutt’altro che trascurabili.
Nel caso della Repubblica Centrafricana, inoltre, alla destabilizzazione del paese ha contribuito in maniera decisivia proprio il governo di Parigi. Dopo l’inizio dell’offensiva dei ribelli Seleka (“Alleanza”) nel dicembre 2012, la Francia aveva favorito nel gennaio successivo la firma di un accordo di pace in Gabon tra il presidente Bozizé e i ribelli stessi. Bozizé aveva così acconsentito ad una serie di concessioni, nominando un primo ministro scelto dai ribelli e accettando di non ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali.
Poche settimane più tardi, tuttavia, i ribelli avrebbero denunciato la mancata implementazione dell’accordo da parte di un presidente che doveva sentirsi erroneamente indispensabile per la Francia, lanciando l’attacco decisivo nella capitale e costringendo Bozizé a riparare nel vicino Camerun. L’ingresso dei ribelli musulmani Seleka a Bangui è avvenuto senza che le centinaia di soldati francesi dispiegati nella Repubblica Centrafricana muovessero un dito per l’ormai ex uomo di Parigi.
L’atteggiamento di Parigi, assurdamente giustificato a livello ufficiale con la volontà di non interferire nelle vicende interne di un paese sovrano, è apparso relativamente sorprendente, visto che Bozizé si era auto-nominato presidente nel 2003 dopo avere guidato un colpo di stato proprio con l’appoggio francese. La Francia stessa aveva poi permesso all’ex generale di rimanere al potere per un decennio, contribuendo a far fallire due tentativi da parte dei ribelli di rovesciare il suo governo nel 2006 e nel 2007.A rivelare indirettamente le responsabilià dietro al golpe era stato tra l’altro lo stesso Bozizé in un’intervista rilasciata lo scorso mese di agosto al Sunday Times sudafricano. In quell’occasione, il deposto presidente in esilio a Parigi aveva spiegato come il suo omologo sudafricano, Jacob Zuma, avesse mancato di implementare un accordo siglato a Pretoria nel dicembre 2012 per garantire rinforzi militari al leader centrafricano in caso di avanzata dei ribelli Seleka.
Bozizé, tuttavia, non condannava il mancato intervento a suo favore di Zuma, giustificando la decisione di quest’ultimo con le pressioni interne per evitare un maggiore impegno del suo governo nella Repubblica Centrafricana. Bozizé, piuttosto, puntava il dito contro il presidente del Ciad, Idriss Déby, definito un suo “ex amico” e considerato “personalmente responsabile” della morte di 15 soldati sudafricani avvenuta in seguito all’ingresso dei ribelli a Bangui.
Il contingente di “pace” inviato in Repubblica Centrafricana dal Ciad aveva infatti consentito ai gruppi armati anti-Bozizé di marciare indisturbati verso la capitale, mentre successivamente è stata rivelata la protezione garantita al nuovo presidente Djotodia di alti ufficiali con stretti legami al vicino settentrionale. Secondo quanto riportato dalla Reuters lo scorso mese di maggio, il capo delle operazioni militari in Repubblica Centrafricana nominato da Djotodia sarebbe addirittura un ex componente della guardia presidenziale di Déby.
La posizione assunta dal leader del Ciad è estremamente rivelatrice delle decisioni prese a Parigi in relazione alla ex colonia, dal momento che Déby è uno dei partner più importanti della Francia in Africa centrale. Il Ciad ha ad esempio partecipato attivamente alla recente campagna francese in Mali, ufficialmente per liberare il nord di questo paese dai ribelli islamisti, e l’attivismo nella regione del suo presidente, intensificatosi parallelamente alla scomparsa di Gheddafi in Libia e al disimpegno di Sudafrica e Nigeria, rappresenta un punto di riferimento cruciale per gli interessi francesi.
A spiegare la mutata sorte di Bozizé da semi-fantoccio di Parigi a leader da liquidare può contribuire soprattutto la sua apertura alla Cina e la firma di svariati accordi economici con Pechino. Le apprensioni occidentali per questi sviluppi erano state rivelate da svariati documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, tra cui alcuni cablo inviati a Washington nel 2009 dall’ambasciatore statunitense a Bangui. In essi non solo venivano sottolineati gli ostacoli posti dal governo di Bozizé alle corporation francesi attive nella Repubblica Centrafricana, come il colosso dell’energia nucleare Areva, ma anche le relazioni sempre più difficili tra il presidente e Parigi.
Inoltre, gli americani vedevano con preoccupazione l’intensificata cooperazione di Bozizé con la Cina in ambito militare, diplomatico ed economico. Una situazione resa evidente dalla presenza all’ambasciata cinese di Bangui di circa 40 dipendenti contro appena 4 in quella americana.
La Cina, quindi, stava ottenendo accesso alle risorse della ex colonia francese, estremamente ricca di uranio, oro, diamanti, ferro, legname e, potenzialmente, petrolio, ai danni della Francia e delle altre potenze occidentali. Lo stesso Bozizé nel dicembre 2012 affermò pubblicamente che nel suo paese non c’era stato alcun problema - almeno per il regime - fino a quando il petrolio era messo a disposizione delle compagnie francesi, mentre il caos è iniziato quando lo ha offerto ai cinesi.Gli scrupoli “umanitari” francesi sono emersi anche in una conferenza promossa dall’organizzazione degli industriali d’oltralpe che settimana scorsa ha preceduto il summit sulla sicurezza in Africa. In essa il presidente Hollande ha reso noto il lancio di un piano per raddoppiare gli investimenti francesi nel continente nel prossimo futuro, mentre il suo ministro delle Finanze, Pierre Moscovici, ha lamentato la mancata percezione della nuova accesa competizione nelle ex colonie, ricordando che qui la posizione di Parigi “non è più esclusiva né garantita”.
Nel primo decennio del 21esimo secolo, infatti, la fetta di mercato della Francia nell’Africa sub-sahariana è scesa da oltre il 10% a meno del 5%, mentre quella cinese è passata da nemmeno il 2% a inizio anni Novanta al 16% nel 2011. Non a caso, perciò, il nuovo regime degli ex ribelli con alla guida Michel Djotodia, subito dopo la presa del potere nel mese di marzo grazie all’assenso francese, si è affrettato ad annunciare una revisione integrale degli accordi siglati dal regime di Bozizé con il governo e le compagnie cinesi.
L’ennesima crisi africana, in definitiva, dietro la retorica umanitaria servirà ancora una volta alle potenze occidentali per aumentare la propria presenza strategica in questo continente in un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi della competizione internazionale per assicurarsi risorse naturali in gran parte ancora da sfruttare.
L’impegno francese nella Repubblica Centrafricana rientra perciò in questa dinamica e, invece di pacificare il paese, rischia di fare esplodere ancor più le tensioni etniche e settarie che in questi mesi hanno già fatto migliaia di morti.
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di Michele Paris
Pressato da livelli di gradimento ai minimi storici e da una frustrazione ampiamente diffusa tra la maggior parte degli americani che ancora non vedono alcun frutto della presunta ripresa economica in corso, Barack Obama ha messo in atto questa settimana l’ennesimo patetico tentativo di presentarsi come il difensore delle classi disagiate degli Stati Uniti. In un discorso pubblico tenuto presso l’istituto di ricerca filo-democratico Center for American Progress, il presidente ha infatti denunciato le vergognose disparità sociali e di reddito che caratterizzano il paese, promettendo di battersi nei prossimi anni per una più equa distribuzione delle ricchezze. Ciò che l’inquilino della Casa Bianca ha però mancato nuovamente di spiegare sono state le pesantissime responsabilità della sua amministrazione nell’avere creato la situazione che egli stesso ha voluto condannare.
Ad ascoltare Obama nel suo discorso di mercoledì, molti americani avrebbero potuto pensare che il presidente non abbia avuto alcun ruolo in questi cinque anni nel processo di trasferimento di ricchezza dai ceti più poveri al vertice della piramide sociale.
Come se fosse uno spettatore incolpevole, Obama ha così descritto con toni molto duri il divario tra ricchi e poveri negli Stati Uniti, definendolo, assieme ad una mobilità sociale in netto declino, come la principale minaccia al “sogno americano”. Del tutto esatti sono stati poi i dati proposti alla platea, come ad esempio quelli che descrivono una società nella quale il 10 per cento della popolazione detiene la metà della ricchezza prodotta nel paese, oppure che l’1 per cento possiede beni 288 volte superiori a quelli di una famiglia media americana.
Ai numeri proposti dal presidente democratico se ne potrebbero aggiungere molti altri per mettere in evidenza i risultati delle politiche di classe messe in atto questi anni. Ad esempio, come ha affermato a Bloomberg News un economista dell’Università di Berkeley, nel 2012 il 10 per cento degli americani più ricchi si è aggiudicato una parte dei redditi complessivi mai così grande dal 1917.
Oppure, i profitti delle corporations, che rappresentano oggi una parte dell’economia dalle dimensioni senza precedenti dal 1947, mentre le entrate dei lavoratori, in proporzione al PIL degli Stati Uniti, sono al minimo dal 1952.
Le parole di Obama hanno prevedibilmente raccolto il consenso di media e commentatori “liberal”, i quali lo hanno elogiato quasi senza riserve per avere pronunciato uno dei discorsi migliori della sua presidenza in materia di economia e per avere allo stesso tempo affrontato in maniera diretta la piaga dell’ineguaglianza negli Stati Uniti.Le denunce e le promesse del presidente, tuttavia, non possono nascondere il fatto che egli stesso fin dall’insediamento alla Casa Bianca nel 2009 ha favorito questo processo di polarizzazione sociale, tanto che in questi ultimi anni l’1 per cento degli americani più ricchi ha messo le mani addirittura sul 95 per cento dell’aumento complessivo di reddito fatto registrare negli Stati Uniti.
Allo stesso modo, l’amministrazione Obama ha presieduto ad una contrazione media dei redditi degli americani superiore al 4 per cento in cinque anni, proprio mentre l’èlite economica d’oltreoceano, come ha ricordato mercoledì lo stesso presidente, raddoppiava la propria quota di ricchezza in relazione a quella totale prodotta dal paese.
Queste dinamiche, come appare evidente, non sono il risultato di forze anonime ma di politiche messe in atto deliberatamente da una classe dirigente al completo servizio dell’aristocrazia economica e finanziaria. Se ciò non è responsabilità esclusiva dell’amministrazione Obama, dal momento che politiche economiche regressive vengono implementate da decenni, la tendenza verso l’allargamento del divario sociale e di reddito è stata senza dubbio aggravata in maniera drammatica dalle iniziative dell’attuale presidente democratico in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
A contribuire alla creazione di un panorama caratterizzato da disuguaglianze sempre più marcate, come delineato da Obama, sono ad esempio misure a beneficio esclusivo dell’industria finanziaria come i pacchetti di “salvataggio” pari a centinaia di miliardi di dollari approvati sul finire dell’era Bush jr. e ampliati nei mesi successivi. O, ancor più, la politica espansiva della Federal Reserve che continua a mantiene i tassi di interesse in prossimità dello zero e a immette sui mercati qualcosa come 85 miliardi di dollari ogni mese, alimentando la speculazione finanziaria e facendo schizzare verso l’alto gli indici di borsa.
Parallelamente, i profitti delle grandi aziende - come quelle automobilistiche, oggetto di una “ristrutturazione” gestita dal governo federale nel 2009 - sono stati favoriti dall’impoverimento di massa dei lavoratori attraverso licenziamenti e riduzione di stipendi, pensioni e benefit sanitari.
La stessa “riforma” del sistema sanitario, inoltre, al contrario della retorica ufficiale, serve e servirà in larghissima misura a ridurre i costi assicurativi per il settore pubblico e quello privato, facendo aumentare le contribuzioni a cui decine di milioni di americani dovranno provvedere di tasca propria per mantenere una qualche copertura.
L’amministrazione Obama è stata protagonista anche della liquidazione di un numero record di posti di lavoro tra i dipendenti pubblici in questi anni - oltre 600 mila - così come ha assistito spesso senza muovere un dito alla distruzione di programmi pubblici destinati alle classi più deboli e, come sta accadendo in questi mesi, alla soppressione dei fondi destinati ai buoni alimentari e ai sussidi straordinari di disoccupazione.Solo di un paio di giorni fa è infine la notizia dell’approvazione da parte di un giudice fallimentare del procedimento di bancarotta della città di Detroit, presentato dalle autorità cittadine con il pieno appoggio dell’amministrazione Obama e che comporterà, tra l’altro, un taglio delle pensioni degli ex dipendenti pubblici e il conseguente ulteriore peggioramento delle loro condizioni di vita.
Anche tra coloro che hanno risposto positivamente al discorso di Obama, in ogni caso, in molti hanno sottolineato l’assenza di proposte concrete e praticabili quanto meno per limitare il dilagare delle disparità economiche negli USA.
Una delle poche misure indicate dal presidente consiste nell’aumento del salario minimo federale, oggi fissato alla cifra infima di 7,25 dollari l’ora. Dopo avere sostenuto la necessità di salire a 9 dollari l’ora, Obama ha recentemente appoggiato un disegno di legge proposto dal senatore Tom Harkin e dal deputato George Miller, entrambi democratici, che fisserebbe la paga minima oraria a 10,10 dollari l’ora.
Oltre alle difficoltà nel mandare in porto una simile iniziativa al Congresso, appare quanto meno ridicolo pensare che essa possa in qualche modo correggere il trend in corso. Infatti, uno stipendio minimo appena al di sopra dei dieci dollari l’ora sarebbe comunque, in termini reali, più basso di quanto risultava essere quarant’anni fa, senza riuscire nemmeno a far superare la già irrisoria soglia di povertà fissata dal governo federale per un nucleo familiare composto da tre persone.