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di Eugenio Roscini Vitali
Il 1° maggio 1933, durante il programma di pulizia delle città dagli “elementi socialmente pericolosi”, migliaia di “indesiderati” vengono arrestati a Mosca e Leningrado. Schedati e privati dei documenti, i prigionieri vengono deportati nel campo di transito per coloni speciali di Tomsk, in Siberia; in due diverse fasi vengono poi trasferiti 800 chilometri più a nord, in un luogo isolato in mezzo al fiume Ob, sull’isola di Nazino. Isolati su quel piccolo lembo di terra, senza cibo ne mezzi di sussistenza, i 6.114 prigionieri di Nazino soffriranno talmente tanto la fame che sull’isola si registreranno migliaia di casi di antropofagia: è così che quel luogo prenderà il nome di «isola dei cannibali». Da questa agghiacciante storia d’orrore, tragico prodotto dell’assurda politica stalinista riaffiorato all’attenzione della società civile solo dopo l’apertura degli archivi russi incoraggiata dalla Perestroika, si salveranno circa duemila persone, 1.700 delle quali in condizioni fisiche disperate.
Il primo a far luce su quell’orrendo frammento dell’arcipelago gulag, conosciuto come “Affare Nazino”, fu un giovane dirigente del partito comunista sovietico, Vassilii Arsenievich Velichko, responsabile di un piccolo giornale locale che nell’agosto del 1933, dopo aver raccolto le prove dell’atroce misfatto, ebbe il coraggio di denunciare l’accaduto alle autorità superiori. Alla commissione di inchiesta istituita il mese successivo Velichko dichiarò: « Ho condotto di mia iniziativa un’inchiesta sugli insediamenti nel distretto di Alessandroski , ne ho visitati cinque situati lungo il fiume e tra questi c’era quello sull’isola di Nazino. Non ho scritto un articolo di propaganda, ma una lunga relazione che poi ho mandato sia ai miei superiori che a Stalin in persona. Ho descritto tutto quello che è successo, dall’arrivo dei deportati all’evacuazione d’emergenza e ho analizzato gli eventi che hanno portato a quello scempio».
La tragedia di Nazino si consumò nei primi anni Trenta, quando in Unione Sovietica era in atto il programma di rapida industrializzazione voluto da Stalin. Secondo il regime il processo di modernizzazione del Paese era prioritario e richiedeva cospicue risorse, sia in termini di mezzi che di manodopera, e affinché lo si potesse realizzare compiutamente era necessario che la ricchezza prodotta dall’agricoltura venisse interamente trasferita all’industria. Dato che dal punto di vista agricolo le terre meridionali erano quelle più produttive, i primi a pagare sulla loro pelle le scelte del Poliburo furono i contadini ucraini: il programma di “collettivizzazione” iniziato nel 1927 aveva generato il processo di accorpamento degli appezzamenti agricoli in cooperative e tutti coloro che si erano opposti avevano dovuto affrontare una violenta repressione, con arresti, esecuzioni e deportazioni di massa. La requisizione di tutti i generi alimentari e l’obbligo di cedere allo Stato quantità di grano talmente elevate da non lasciare ai produttori neanche il minimo necessario alla sopravvivenza provocò una carestia di proporzioni catastrofiche, un genocidio che nella sola Ucraina arrivò a contare 7 milioni di morti. Esteso a tutta l’Unione Sovietica, tra il 1930 e il 1931 il programma di collettivizzazione diede origine ad un esodo di dimensioni bibliche: in soli due anni 10 milioni di persone lasciarono le campagne per spostarsi nelle zone urbane, dove intanto il regime aveva introdotto le tessere per la distribuzione di cibo. Messo in crisi dall’enorme numero di profughi affluito nelle grandi città, il sistema di approvvigionamento alimentare andò però ben presto in crisi e per il regime i contadini divennero così una vera e propria minaccia, dei pericolosi controrivoluzionari da eliminare. Tra il 7 e il 12 gennaio, durante il discorso introduttivo all’annuale incontro delle classi dirigenti dell’Unione Sovietica, Stalin illustrò la sua nuova teoria: «nonostante il trionfo del socialismo e l’eliminazione delle classi sfruttatrici, l’opposizione non è scomparsa, ha solo assunto altre forme. Adesso le principali minacce per il socialismo sono la criminalità e la devianza sociale». Dieci giorni dopo il leader russo scrisse una direttiva segreta a Genrikh Yagoda, membro del Direttorato politico dello Stato (OPGU) e futuro capo del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), con la quale gli ordinò di fermare l’esodo dei contadini dall’Ucraina e dal Caucaso settentrionale.
Per limitare e controllare l’enorme flusso di “stranieri” l’amministrazione rese obbligatorio un passaporto interno destinato alla popolazione urbana. In meno di un anno questo documenti venne distribuito a 27 milioni di cittadini; a chi non dimostrava di averne diritto venivano dati dieci giorni per tornare nella propria regione, dopo di che veniva spedito in Siberia o in Kazakistan. Tra il marzo e l’aprile del ’33 vennero respinte 70 mila richieste e tra marzo e luglio nella sola Mosca vennero arrestati e deportati 85.937 individui. Chi si nascondeva, quelli che il partito definiva “parassiti che ostacolano la costruzione del comunismo”, dovettero fare i conti le milizie speciali istituite per “ripulire le città”. Composte da agenti che avevano l’ordine di arrestare chiunque avesse un’aria sospetta, le milizie aveva un numero stabilito di arresti da eseguire, una quota giornaliera nella quale poteva ricadere chiunque, anche chi non aveva commesso nessun reato.
È per questo motivo che tra coloro che vennero arrestati il 1° maggio del 1933 c’erano individui di ogni provenienza sociale: ex kulaki in cerca di lavoro, operai, impiegati, donne e bambini, membri di cellule di partito, persone che si trovavano in città solo di passaggio o che si era recate alla stadio o che erano addirittura scese a comprare le sigarette ed avevano lasciato a casa il “passaporto”; nella lista di Velichko compare anche una ragazzina di 12 anni, arresta come mendicante alla stazione di Mosca solo perché la madre l’aveva lasciata un attimo per andare a comperare il pane, e una donna incita, moglie di un ufficiale in servizio sull’incrociatore Aurora, arrestata anche lei alla stazione mentre tornava a Leningrado. Dopo essere stati schedati e privati dei documenti i prigionieri vennero trasferiti quasi subito a Tomsk, dove giunsero con un convoglio speciale il 10 maggio, dopo un viaggio di dieci giorni a bordo dei vagoni merci delle ferrovie russe. Dai rapporti della commissione d’inchiesta risulta che queste persone vennero accorpate a piccoli delinquenti che dovevano scontare da 1 a 5 anni nei campi di prigionia, arrestati in precedenza per aver commesso reati minori come contrabbando e piccoli furti. A Tomsk i prigionieri rimasero fino al 14 maggio: con una capienza massima di 15 mila deportati, il campo ospitava più di 25 mila persone e il pericolo di rivolte e disordini era costante. Per questo diverse migliaia di persone vennero caricate a forza su delle chiatte e trasferite cento chilometri più a nord, nel piccolo capo di lavoro di Alexandro Vakhovskaya. Il comandante, Alexandrovitch Tsepkov, era stato avvisato dell’arrivo dei prigionieri solo qualche giorni prima: non gli era stato comunicato il numero delle persone ne come impiegarle; gli venne piuttosto detto di trovare un’area di isolamento per individui pericolosi e declassati. Per paura che questi potessero devastare e saccheggiare il villaggio, Tsepkov decise quindi di spedire i deportati sull’isola di fronte a Nazino, in mezzo al fiume Ob. Il 18 maggio, a bordo di quattro chiatte, sbarcarono sull’isola 4888 individui: 332 donne e 4.556 uomini, oltre ai cadaveri delle 27 persone che non erano riuscite a resistere al viaggio.
Sin dalle prime ore i criminali più incalliti iniziarono subito a perseguitare gli altri prigionieri, derubandoli di quel poco che avevano o uccidendoli per strappandogli via i denti d’oro, “bottino” che avrebbero poi scambiato con i carcerieri per qualche grammo di tabacco. Il poco cibo distribuito non bastava a sfamare neanche un terzo dei deportati e quelli che era stati arrestati per errore erano i più vulnerabili. Molti morirono a causa delle violenze e dei soprusi delle guardie, piccoli Stalin che credevano di poter decidere della vita di chiunque: l’ordine era quello di sparare senza avvertimento a chi avesse tentato la fuga o ne fosse quantomeno sospettato, ma tra gli ufficiali c’era chi si divertiva a gettare i prigionieri nel fiume o a mandarli senza vestiti tra le acque gelide dell’Ob a recuperare le anatre abbattute a colpi di fucile. Molti deportati tentarono la fuga cercando di attraversa il fiume con delle zattere improvvisate, ma la maggior parte di essi annegò o venne uccisa dalle guardie.A Nazino si iniziò a sentir palare di cadaveri fatti a pezzi e carne umana cucinata e mangiata il giorno dopo l’arrivo; nelle due settimane successive furono trovate decine di cadaveri senza fegato, cuore, polmoni, polpacci e parti molli. Il primo caso accertato di antropofagia risale al 29 maggio: i tre colpevoli vennero arrestati e trasferiti nella prigione di Alexandro Vakhovskaya; due giorni dopo vennero fermati altri tre cannibali ma nessuno venne punito. In tutto le autorità registrarono una dozzina di casi di cannibalismo e secondo gli ufficiali sanitari i responsabili avevano commesso questi atti perché abituati a cibarsi di esseri umani. La commissione di inchiesta interrogò le guardie accusate di aver trattato come selvaggina i prigioniere che aveva tentavano di lasciare l’isola su zattere di fortuna, ma i militari risposero di aver semplicemente sparato contro dei cannibali che cercavano di allontanasi con il loro “pasto”.
La situazione sull’isola peggiorò ulteriormente il 25 maggio, quando arrivò un convoglio con altri 1.500 deportati; le condizioni di salute di questo gruppo erano ancora più gravi di quelle del primo. Il 31 maggio fu il segretario del partito comunista del distretto di Alexandrovsky a visitare Nazino: in seguito a quanto aveva visto stilò un lungo rapporto che inviò ai suoi superiori e questi ordinarono il trasferimento di tutti i prigionieri in luoghi più appropriati. Quasi tutti i deportativi vennero trasferiti in cinque insediamenti più a monte e durante il viaggio ne morirono diverse centinaia. I vertici si adoperarono per non far trapelare nulla e a pagare furono solo poche persone: a Mosca gli ufficiali di alto grado subirono aspri rimproveri, che comunque non ebbero ripercussioni sulla loro carriera; le autorità locali patirono invece punizioni più severe, con deportazioni e condanne in campi di prigionia. Per il partito 4.000 vittime non era certo una tragedia e quando Velichko portò alla luce la storia al Cremlino la preoccupazione non era il crimine in se, cosa peraltro negata, ma la possibilità che fosse messa in discussione la capacità di portare a termina il piano di deportazione. La vicenda fu archiviata e tornò alla luce solo dopo la dissoluzione del regime sovietico; il materiale reperito fu in seguito usato per raccontare e capire meglio cosa accadde a Nazino e chi fossero quelle vittime. Nicolas Werth usò quei documenti per scrivere il libro inchiesta “L'isola dei cannibali”.
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di Emanuela Pessina
Si avvicina il cinquantesimo anniversario dalla costruzione del Muro, e Berlino si prepara a ricordare uno dei simboli della sua Storia con un progetto che non piace a tutti. Il comune ha previsto l’ampliamento del memoriale di Bernauer Strasse, uno dei più completi nel suo genere, ma per far ciò ha bisogno di appropriarsi dei cortili degli inquilini della Bernauer Str. stessa. Ed è così che, cinquant’anni dopo la costruzione del Muro, alcuni berlinesi si vedono sacrificati al turismo del dopo- Muro, in una sorta di seconda, ingiusta espropriazione.
Nonostante non si trovi nelle zone più turistiche di Berlino, il Muro di Bernauer Str. è oggi tra i monumenti maggiormente visitati della metropoli tedesca. L’ambiente è rimasto inalterato e dà un’idea della capitale tedesca degli anni della Guerra Fredda: una Berlino che è stata altrove quasi completamente eclissata da una patina di club, abitazioni d’avanguardia e centri commerciali, in un cambiamento necessario a a raggiungere il livello delle altri capitali europee. E ora, in occasione del cinquantesimo anniversario della costruzione del Muro stesso, il comune ha grandi progetti: il significato storico di Bernauer Str. va potenziato per dare il giusto spessore alla Storia di Berlino.
Bernauer Strasse si trova nella parte settentrionale di Berlino e segna ancor’oggi il confine tra i quartieri di Wedding (ex- Berlino Ovest) e Mitte (ex- Berlino Est). La parte di Muro di Bernauer Str. ha segnato in maniera indelebile la memoria storica collettiva: qui sorgevano gli edifici da cui i cittadini di Berlino Est saltavano per trovare la libertà promessa da un altro sistema politico. Ed è proprio in questi stessi edifici che gli inquilini hanno provato a trasformare le proprie cantine in tunnel per cercare la fuga dal regime socialista. Nel bene e nel male, queste immagini sono destinate a contraddistinguere la vicenda del Muro di Berlino per sempre.Perché a Bernauer Str. alcuni stabili dell’ex- Repubblica Democratica Tedesca (RDT) si affacciavano sui marciapiedi dei settori di Berlino Ovest, considerati liberi. La speranza sembrava a portata di mano e saltare da una finestra significava rischiare la vita, ma anche trovare la libertà: per tanti uomini che non ce l’hanno fatta, qualcun altro ha costruito la leggenda. Questi stessi stabili sono stati poi evacuati e assegnati alle Grenztruppen der DDR, le guardie di frontiera della Germania socialista, per diventare zona di dogana, mentre le finestre sono state murate assieme alle speranze dei cittadini della ex-RDT.
Oggi il monumento al Muro si estende lungo la Bernauer Str. per 1,4 chilometri; entro il 2012 dovrebbe essere del tutto restaurato e completato. Le cantine che i cittadini hanno trasformato allora in tunnel sono accessibili ai turisti; il Muro stesso è stato ricostruito nella sua originale altezza di quasi quattro metri lungo diverse centinaia di metri della Bernauer Str.. Ora si pensa di riaprire al pubblico anche la via in cui la polizia dell’ex-RDT controllava la frontiera, la cosiddetta “striscia della morte”, la zona in cui si sparava ai fuggitivi. Per permettere il transito ai turisti, tuttavia, è necessario lo sgombero dei cortili di alcuni inquilini di Bernauerstr., che non si sentono disposti ad accettare il compromesso.
“Qui si è già espropriato una volta, e ora si vuole espropriare di nuovo”, ha commentato Heiner Legewie, 74 anni, un professore di psicologia in pensione che abita sulla Bernauer Str.. La prima espropriazione è avvenuta per permettere la costruzione del Muro e il controllo del confine da parte del regime socialista. Ora i tempi sono cambiati e gli inquilini di Bernauer Str. non sono disposti a farsi togliere parte dei loro già piccoli cortili, per nessun motivo. Cedere i propri cortili per l’ampliamento del memoriale va contro ogni diritto, ha spiegato Legewie, e non è un modo degno di ricordare il Muro e la sua Storia. Sacrificare al turismo la quotidianità dei berlinesi non è la maniera giusta di commemorare uno degli avvenimenti storici recenti più importanti della storia tedesca.E gli inquilini si dicono disposti a combattere con tutti i mezzi che hanno a disposizione, tra cui manifestazioni e azioni legali, e sono pronti a mettere in discussione i festeggiamenti previsti per l’anniversario, che cade il prossimo 13 agosto. Il comune, da parte sua, ha spiegato che non si tratta assolutamente di un’espropriazione, poiché è prevista una congrua offerta. Il direttore del memoriale di Bernauer Str. aggiunge che gli inquilini sono sempre stati a conoscenza dell’importanza storica della zona, anche quando hanno deciso di trasferirvisi: la motivazione è alta e giustifica il sacrificio. Eppure i berlinesi non ci credono: più che una perpetuazione del mito di Bernauer Str., il progetto assomiglia a un’operazione commerciale mirata a trasformare anche questa parte della città in una fonte di guadagno. A discapito di chi ci vive e ci ha sempre vissuto, per stare al passo con le grandi capitali nate sotto il segno del capitalismo.
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di Mario Braconi
Le rovine dei palazzi incendiati dalle rivolte urbane in Gran Bretagna ancora fumano; e il Paese,assieme al resto del mondo, si interrogano. Compito arduo, cui è necessario far fronte senza pregiudizi. Una certezza, sopra a tutto: le rivolte inglesi dell’agosto 2011 non sono motivate dalla fame: obiettivi della razzia e degli atti vandalici sono stati soprattutto negozi di articoli elettronici e di abbigliamento sportivo. Zoe Williams sulle colonne del Guardian, nota che, se i rivoltosi si fossero accaniti sulle vetrine di Gucci o di Tiffany, si sarebbe almeno potuto dare al loro agire una parvenza di connotazione politica. Invece “il tallone d’Achille dei casseurs è proprio nel dimostrare di essere andati alla ricerca di oggetti che evidentemente desidererebbero possedere”.
La Williams cita la testimonianza di Claire Fox, attivista di sinistra e testimone oculare: “la rivolta aveva tutta l’aria di essere nichilista, le persone non apparivano motivate politicamente né dimostravano alcun senso della comunità o della solidarietà sociale”. Pare che a Clapham Junction l’unico negozio che si è salvato è stato Waterstone’s (una catena di librerie), mentre inspiegabilmente dagli scaffali di Boots (una parafarmacia) sono state razziate grandi quantità di Imodium: con un pizzico di umorismo, Williams aggiunge che “ce n’era abbastanza per tenere vivo un feed di Twitter sul livello di istruzione dei rivoltosi e sui loro disturbi intestinali”.Una rivoluzione di potenziali consumatori frustrati, dunque? Senz’altro. Ma non dimentichiamo il valore simbolico che il consumo ha assunto nel nostro mondo post-moderno. Lo spiega Alex Hiller della Nottingham Business School: “Se ci si rifà a Baudrillard ed ad altri autori che scrivono di sociologia del consumo, [si capisce che il consumismo] è una falsificazione della vita sociale. La pubblicità, in effetti, promuove un luogo di fantasia. Anzi, il consumismo si basa proprio sull'essere scollegati dal mondo [reale]”. Dunque, una delle ragioni delle esecrabili condotte viste in questi giorni per le strade della Gran Bretagna potrebbe proprio essere una forma di rivalsa, non solo materialistica, verso un destino apparentemente fatto solo di disoccupazione, emarginazione e degrado.
Ciò valga anche come frammentario ma preoccupante spia dell'annichilimento dei valori civili e sociali che dovrebbero essere le pietre angolari delle grandi democrazie europee: Londra chiama Parigi. L’emancipazione, anziché per teorie e pratiche di liberazione, sembrerebbe aver preso la brutta scorciatoia del consumo, un consumo cui l'uomo della strada sente di avere diritto ad ogni costo, anche quello di affogare il suo proprio futuro e quello della comunità di appartenenza. Da questa angolazione, è di grande utilità la testimonianza sul campo resa dalla celebre filantropa di origini iraniane Camila Batmanghelidjh sulle colonne dell’Indipendent. L'insorgenza di strutture parallele illegali dirette contro le istituzioni (le gang, ad esempio) è spesso la triste conseguenza dell'atteggiamento cieco o rinunciatario delle istituzioni. Racconta la vivace e corpulenta signora di servizi sociali incapaci di assistere le madri in difficoltà; di centri contro il disagio psichico dove i pazienti non hanno niente di meglio che strappare la carta da parati; di dipendenti dei centri per la gestione del disagio giovanile barricati dentro le loro stanze perché giovani disturbati la fanno da padroni con i loro atteggiamenti da teppisti e i loro cani feroci; di giovani donne che all’interno dei casermoni devono fare lo slalom con i passeggini per evitare le siringhe e i preservativi usati, mentre all’interno degli ascensori il minimo è dover sopportare il lezzo di orina - anche se qualche volta si rischia lo stupro. Questa deprimente carrellata serve almeno a capire che qui non si tratta di un caso eccezionale di attacco alla dignità, quanto piuttosto un’umiliazione sistematica, quella appiccicata addosso a persone prive di quasi tutto in una società che [nel reale e nell’immaginario NdR] appare piena di cose”.Il grido di dolore della Batmanghelidjh consente di comprendere, senza peraltro pelose giustificazioni da intellettuali nella torre d'avorio, che nei sobborghi si sia sviluppato un humus propizio alla violenza. Ma altri commentatori hanno voluto dare una lettura più “di testa” della crisi esplosa in questi giorni. Secondo lo scrittore Ian Leslie, l’esplosione virale di violenza è motivata da due ordini di fattori, distinti ma convergenti: da un lato la disgregazione sociale, che rende le persone meno soggette alle norme delle proprie comunità ed in generale più vulnerabili all’influenza proveniente da persone con cui non hanno relazioni stabili (tipiche quelle sviluppate attraverso i social network). E dall’altra, una ragione tecnica (si è parlato della rivolta dei BlackBerry): una società perennemente connessa alla Rete è sottoposta ad un'orgia di informazione e di stimoli che finisce “rendere impossibili i circuiti di feedback e depotenziare la responsabilità individuale”.
Il sito di neuroscienza MindHack, infine, fornisce una chiave di lettura per interpretare l'esplosione virale della violenza, usando un semplice esempio. Se siamo in un autobus, infastiditi per nostre ragioni personali, ma anche indispettiti dal suono delle cuffiette dei ragazzini davanti a noi, dalle chiacchiere dei vecchietti diretti al mercato, e in generale dalla folla e dal caldo, difficilmente ci sentiremo “affini” al nostro prossimo. Ma se si verificasse un attacco contro l'autobus, improvvisamente faremmo idealmente corpo anche con il più sgradevole dei nostri compagni di viaggio al fine di fronteggiare la minaccia esterna. Secondo MindHack, un atteggiamento della polizia indiscriminatamente violento produce coesione su una folla di persone eterogenee e delle quali, è scientificamente provato, quelle veramente pericolose sono una minoranza identificabile. Sembrerebbe dunque che gli intellettuali britannici siano molto preparati sulle origini sociali e psicologiche della bomba esplosa a Londra, e che siano anche attrezzati per gestirla nel modo in modo freddo e razionale. Non si può dire, però, che la loro voce si sia fatta strada nelle orecchie e nei cuori dei politici.
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di Michele Paris
Nella serata di venerdì, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato per la prima volta nella storia il debito degli Stati Uniti. La perdita della “tripla A” arriva a pochi giorni dal faticoso raggiungimento dell’accordo sull’innalzamento dell’indebitamento americano e rappresenta una decisione tutta politica, così da spingere Washington ad adottare nuove iniziative per la riduzione del deficit.
Nella stessa dichiarazione ufficiale di una delle tre principali agenzie di rating statunitensi appare chiaro il messaggio inviato ad una classe politica appena uscita dal lungo dibattito sul tetto del debito pubblico. “Il downgrading riflette il nostro giudizio che l’efficacia, la stabilità e l’affidabilità della politica americana e delle sue istituzioni sino state indebolite”, scrive l’agenzia, proprio mentre sono in corso sfide impegnative sul fronte economico e fiscale.
Standard & Poor’s ha così declassato il rating americano da AAA ad AA+ con un outlook negativo. L’agenzia newyorchese ha inoltre minacciato una nuova riduzione entro i prossimi due anni, nel caso non dovessero essere effettuati i tagli alla spesa decisi dal Congresso e dal presidente Obama. Per Standard & Poor’s, il compromesso tra repubblicani e democratici sul tetto del debito non appare comunque sufficiente per continuare a garantire il massimo della valutazione ai bond a stelle e strisce.
In un’intervista al Financial Times, il responsabile della sezione addetta alla valutazione dei debiti sovrani di Standard & Poor’s, John Chambers, ha dichiarato che la sua agenzia non ha dubbi sull’implementazione dei 2.100 miliardi di tagli appena concordati, ma che le riserve riguardano soprattutto la possibilità di adottare “misure addizionali per stabilizzare il rapporto tra debito e PIL”. Intervenendo nella discussione sul tetto del debito americano, Standard & Poor’s aveva infatti avvertito della necessità di tagliare la spesa federale di almeno 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio.Convinta di essersi adoperata a sufficienza per compiacere Wall Street, la Casa Bianca ha reagito con sdegno all’annuncio del downgrading, notificato al governo già nel pomeriggio di venerdì. Secondo un portavoce del Dipartimento del Tesoro, gli analisti di Standard & Poor’s avrebbero addirittura commesso un errore di valutazione, sovrastimando il debito americano di circa 2 mila miliardi di dollari.
In termini pratici, il declassamento dovrebbe avere ben poche conseguenze, tra cui un possibile aumento dei tassi di interesse, anche perché le altre due principali agenzie di rating – Moody’s e Fitch Ratings – hanno per ora annunciato di non avere intenzione di seguire i colleghi di Standard & Poor’s. Anche un lieve incremento sugli interessi del debito, in ogni caso, potrebbe risultare oneroso per il Tesoro USA, il quale solo per questa voce spende annualmente circa 250 miliardi di dollari.
In seguito all’accordo che ha evitato il default, i bond del Tesoro americano appena declassati avevano attratto un ingente afflusso di capitali negli ultimi giorni, facendo segnare un netto calo dei rendimenti e indicando la fiducia degli investitori nel debito USA in un momento di grande affanno per i mercati azionari.
Quantomeno la mancanza di alternative sicure renderà improbabile anche una vendita di massa dei titoli del Tesoro americano detenuti dagli investitori stranieri. Ciononostante, il downgrading solleva le preoccupazioni della Cina, la quale detiene oltre mille miliardi di dollari di debito americano.
Standard & Poor’s aveva assegnato la “tripla A” agli Stati Uniti per la prima volta nel 1941, una valutazione che ha mantenuto fin da allora nella convinzione che un default per il paese più ricco del mondo fosse praticamente impossibile. Il declassamento dalla “tripla AAA” – attualmente garantita da questa agenzia a paesi come Canada, Australia, Francia, Germania e Gran Bretagna – ad AA+ porta il debito americano al livello di quelli di Belgio e Nuova Zelanda.
Il downgrading americano innescherà ora con ogni probabilità una nuova ondata di appelli al rigore fiscale negli Stati Uniti e non solo. Già poche ore prima dell’annuncio, nel corso del suo discorso radiofonico settimanale, il presidente Obama, pur chiedendo modeste iniziative per “stimolare” l’economia e creare posti di lavoro, aveva invitato il Congresso a rispettare gli impegni appena presi con l’accordo bipartisan sul debito e ad adottare nuove misure per il contenimento del deficit.
Le pressioni di Wall Street sul governo americano, tramite le valutazioni delle agenzie di rating, per tagliare la spesa sociale faranno passare inevitabilmente in secondo piano i dati resi noti dal Dipartimento del Lavoro sempre nella giornata di venerdì sull’andamento della disoccupazione negli Stati Uniti.
Nonostante la maggior parte dei giornali americani abbia accolto positivamente la riduzione del livello di disoccupazione dal 9,2 al 9,1 per cento, a ben vedere i numeri continuano ad indicare una situazione drammatica. I 117 mila posti di lavoro creati nel mese di luglio dall’economia d’oltreoceano non sono infatti nemmeno sufficienti a tenere il passo con la quota mensile necessaria per bilanciare l’aumento demografico.
A fronte di quasi 14 milioni di americani ancora disoccupati, i democratici e i repubblicani a Washington poco o nulla faranno nei prossimi mesi per mettere in atto un serio programma teso a creare nuovi posti di lavoro. Le attenzioni di Congresso e Casa Bianca si concentreranno piuttosto su nuovi devastanti tagli alla spesa, così da calmare le ansie degli investitori circa il deficit e rispondere prontamente alle imposizioni dell’oligarchia economica e finanziaria del paese.
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di Eugenio Roscini Vitali
Ogni anno la Palestina commemora l’anniversario della morte di Yasser Arafat, deceduto alle 3:30 dell’11 novembre 2004 nel reparto di ematologia dell’Hopital d’instruction des armees Percy (HIA Percy), a Clamart, comune della “petite couronne” parigina. Le condizioni di Abu Ammar – come lo hanno sempre chiamato i palestinesi – si erano bruscamente aggravate il 4 novembre, con un repentino peggioramento del quadro clinico che lo aveva fatto precipitare in uno stato di coma profondo. Sulla scomparsa del simbolo della lotta palestinese si sono fatte mille supposizioni, ipotesi che aldilà delle convenienze politiche hanno suscitato non pochi dubbi: sia sul ruolo svolto dall’allora premier israeliano Ariel Sharon, sia sulle possibili trame interne agli stessi vertici palestinesi. Ma a sette anni di distanza, in un articolo pubblicato dal quotidiano Hareetz, il giornalista investigativo Yossi Melman prova a smontare la teoria del complotto e avvalendosi della testimonianza dell’allora capo di gabinetto dell’ex premier israeliano rilancia l’ipotesi della morte dovuta ad un male incurabile.
Yasser Arafat fu sepolto a Ramallah il 12 novembre 2004, nel quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese, il luogo dove aveva vissuto da confinato gli ultimi anni della sua vita. Ad accogliere il feretro, proveniente dal Cairo dove in mattinata aveva avuto luogo la cerimonia funebre, c’erano decine di migliaia di palestinesi, confluiti nel piazzale della Muqata’a per rendere l’ultimo omaggio al rais. A causa dell’enorme folla, la sepoltura, frettolosa e in disaccordo con i riti religiosi islamici, fu però ripetuta il giorno seguente, con la salma disseppellita come deciso dalla massima autorità religiosa palestinese, lo sceicco Taissir Tamimi. La prova scientifica che Abu Ammar non sia morto di morte violenta quindi non esiste: l’equipe medica dell’ HIA Percy ammise di non conoscere il reale motivo della decesso e non bastò un dettagliato rapporto di 558 pagine a dipanare i dubbi di chi, sin dal primo minuto, sostenne la tesi dell’omicidio; nel referto, i medici francesi descrissero una sopravvenuta complicazione dovuta ad un complesso disturbo del sangue che chiamarono “coagulazione disseminata intravascolare”.
Tra le varie ipotesi si parlò anche di AIDS e di Parkinson, ma il dottor Ashraf Al Kurdi, medico personale del leader palestinese, dichiarò che Arafat non era affetto da alcun mordo e che i diversi test HIV ai quali era stato sottoposto erano sempre risultati negativi. Tuttavia, la cosa che più alimentò il fronte degli scettici fu il fatto che nessuno autorizzò mai l’autopsia: qualche anno dopo Kurdi spiegò che il successore alla presidenza dell’ANP, Mahmoud Abbas, aveva giustificato la decisione con la possibilità che ciò avrebbe potuto incrinare i rapporti con la Francia, in quanto avrebbe costretto Parigi ad agire contro gli interessi di Israele e degli Usa. Questa eventualità però fu fortemente criticata dallo stesso Kurdi che in più occasioni ebbe modo di ricordare come in Giordania le autopsie su dubbi casi di morte violenta fossero obbligatorie e come gli esami post mortem non sono mai stati contrari alla legge islamica, che al contrario ne permette l’esecuzione a patto che vengano effettuati al più presto e con grande rispetto per il defunto.Nel 2006 l’ipotesi dell’omicidio è stata anche confermata dallo scrittore israeliano Uri Dan, persona particolarmente vicina all’ex premier ed autore del libro “Ariel Sharon: un ritratto intimo”. Dan afferma con certezza che Arik [Sharon] ricevette l’approvazione telefonica del presidente americano George W. Bush e che la decisione di liquidare il leader palestinese fu presa per rimuovere “l’ultimo” ostacolo alla politica di colonizzazione israeliana in Cisgiordania. D’altronde, la lunga e scomoda storia israeliana di omicidi mirati era tornata a galla nel settembre 2003, con Ehud Olmert, allora vice primo ministro, che parlando di Arafat aveva dichiarato alla radio israeliana: «La domanda è: come dobbiamo farlo? L'espulsione è certamente una delle opzioni, così come l’omicidio». Parole quantomeno “avventate” che fecero infuriare i palestinesi e scatenarono la reazione delle stesse organizzazioni pacifiste israeliane, da Gush-Shalom al noto attivista Uri Avnery.
Ora, a qualche anno di distanza, a dare la sua versione dei fatti è Dov Weissglas, ex capo di gabinetto dell’allora primo ministro Ariel Sharon, che in un articolo di Yossi Melman parla di vera e propria speculazione costruita intorno alla morte del leader dell’OLP. In una delle rare dichiarazioni concesse alla stampa, Weissglas dissipa le voci di corridoio e rivela che l’intenzione dell’ex premier israeliano non era quella di ucciderlo, ma di isolarlo politicamente. Per l’avvocato israeliano, nei mesi successivi alla morte di Arafat i media palestinesi invocarono fatti circostanziali che non giustificarono in alcun modo la teoria del complotto: primo fra tutti il commento sussurrato nell’aprile 2002 dal ministro della Difesa israeliana al premier Sharon. Durante una conferenza stampa tenuta dopo la cattura della nave Karin A, in rotta dall’Iran per Gaza con 50 tonnellate di armi a bordo, Shaul Mofaz si lasciò sfuggire, a microfoni aperti, la frase «dobbiamo sbarazzarci di lui». Un episodio che avrebbe giustamente dato adito alle più sfrenate speculazioni.
La teoria dell’omicidio guadagnò poi credibilità a causa delle rivelazioni del giornalista Uri Dan e per il fatto che già in passato l’intelligence israeliana aveva fatto largo uso di veleno. Basti ricordare come nel 1978 il Mossad eliminò Wadia Hadad inviandogli un pacchetto di cioccolatini avvelenati; il leader della fazione palestinese responsabile del dirottamento del volo Air France 139 su Entebbe, morì alcuni mesi dopo in un ospedale di Berlino Est dopo aver sviluppato una malattia del sangue molto simile alla leucemia. Stessa sorte sarebbe dovuta capitare a Khaled Meshaal, leader di Hamas ad Amman, quando il 25 settembre 1997 due agenti israeliani con passaporto canadese cercarono di ucciderlo mentre si recava in ufficio spruzzatogli sul lobo dell’orecchio uno spray tossico; ricoverato in ospedale, Meshaal fu salvato solo grazie all’intervento di re Hussein di Giordania e del presidente americano Bill Clinton che fecero pressioni su Benjamin Netanyahu affinché inviasse nella capitale giordana un antidoto capace di salvare la vita del leder palestinese.Pur ammettendo quanto Sharon disprezzasse Arafat, Weissglas è certo che il premier israeliano non abbia mai pensato ad una soluzione cruenta: «Lo considerava il più grande nemico di Israele e un ostacolo a qualsiasi accordo di pace. Ecco perché ha ostinatamente rifiutato un incontro. Ma nonostante tutto, non ha mai pensato alla possibilità di causargli danni fisici». La scomparsa politica di Arafat era già iniziata nel gennaio 2002, con il coinvolgimento diretto dell’Autorità Nazionale Palestinese nel traffico di armi con l’Iran, e quattro mesi dopo «il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, ci informò che il presidente stava per pronunciare un discorso che avrebbe definito la politica americana in Medio Oriente». Di li a poco Israele e Stati Uniti avrebbero spiegato al mondo il ruolo negativo di Arafat nel processo di pace israelo-palestinese e il suo coinvolgimento nelle decisioni riguardanti il finanziamento al terrorismo; una posizione che il presidente americano George W. Bush avrebbe ufficializzato il 24 giugno 2002 durante la presentazione della Road Map, il piano di pace promosso da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite.
Per due anni lo Stato ebraico e gli Usa continuarono a boicottare Arafat, ad assediare il quartier generale di Ramallah e ad isolare il leader dell’OLP; alla fine di ottobre Javier Solana chiese ad Israele di autorizzare Arafat a lasciare il compaund per una visita medica. Le condizioni fisiche del leader palestinese era peggiorate notevolmente e fu Weissglas a contattare Sharon per l’autorizzazione: «il giorno dopo Solana mi chiamò per dirmi che, anche se non era chiaro quale malattia avesse, i test avevano rivelato che le condizione di Arafat erano serie». Solana riferì inoltre che il leader palestinese aveva chiesto che il permesso di poter ottenere un trattamento migliore in un ospedale europeo. La richiesta fu subito discussa in un meeting al quale parteciparono il premier, rappresentanti del governo e ufficiali dell’intelligence e delle Forze di Sicurezza Israeliane.
Furono proprio i servizi segreti e l’esercito ad avanzare non poche perplessità, ma nonostante l’opposizione dei militari Sharon diede l’autorizzazione al trasporto: «vista la richiesta di Solana e dei palestinesi, Arik decise di consentire un ponte aereo immediato con Francia per il trasporto di Arafat»; era preoccupato per il fatto che la morte del leader palestinese all’interno della Muqata’a potesse danneggiare seriamente l’immagine stessa di Israele, soprattutto se non gli fosse stato permesso di ricevere i trattamenti medici necessari.