di Fabrizio Casari

Norman Bailey, la superspia statunitense destinata a “vigilare su Cuba e Venezuela", dopo nemmeno tre mesi di lavoro, è stato rimosso dal suo incarico. Con discrezione, ma con nettezza, l’ex reliquia di Reagan, veterano agente della Cia, è stato rimandato a casa con un provvedimento firmato da Mike Mc Connell, capo supremo di tutta l’intelligence Usa. Discrezione obbligata, visto che normalmente gli incarichi delicati vengono assegnati o revocati in forma adeguata alla missione. Quelli relativi all’intelligence, poi, sono destinati per principio al massimo della riservatezza, giacché oltre a contenere in sé elementi di sicurezza, sul piano politico indicano, molto più che le dichiarazioni pubbliche, le intenzioni dei governi che quelle nomine le fanno. Bailey era stato scelto da John Dimitri Negroponte, ora vice di Condoleeza Rice e prima zar di tutte le spie a stelle e strisce. Proprio Negroponte, altro residuato bellico del gabinetto Reagan passato armi e bagagli in quella Bush, aveva nominato Bailey “Capo missione dell’Intelligence Usa per Cuba e Venezuela”. Il suo compito era quello di sostenere gli sforzi dell’amministrazione Bush per isolare combattere ed, eventualmente sovvertire, i governi di L’Avana e Caracas.

di Carlo Benedetti

E’ questa una storia di spie, di delitti, di suicidi, di disinformazioni e depistaggi. Ha come teatro la Bulgaria e avviene in un clima di paurose reticenze, di cose dette e non dette. E, comunque, tutte avventure di 007 finiti male. Si comincia - con una ricostruzione ovviamente approssimativa - con quanto avvenuto a Sofia, in una fredda sera del 15 novembre scorso. A rendere note queste vicende è ora il giornalista russo Stanislav Lekarev, che sulle pagine del settimanale Argumenty fedeli descrive i retroscena dei servizi di Sofia. E, in particolare, pone l’accento sul ruolo della Cia nella distruzione della Jugoslavia.La storia comincia con Bozhidar Doicev, capo del reparto degli “Archivi e dossier segreti” della sicurezza che negli anni di Jivkov era chiamata “Darzhavna sigurnost”. Doicev, come al solito, è al lavoro nel suo ufficio.

di Daniele John Angrisani

Quando Osama Bin Laden, verso la fine degli anni Novanta, aveva iniziato a progettare dalle sue caverne in Afghanistan, quelli che sarebbero stati conosciuti nella storia come gli "attacchi terroristici dell'11 settembre", non poteva certo prevedere che la politica estera del presidente George W. Bush gli avrebbe consentito in pochi anni di ottenere successi che allora erano inimmaginabili contro quella che era considerata l'unica superpotenza rimasta al mondo dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, gli Stati Uniti d'America hanno perso tanto e tale prestigio internazionale che in molti circoli di élite si comincia già a considerare questo come il secolo del declino americano. E' indubbio che quando gli storici guarderanno alla nostra era, l'inizio del declino sarà riscontrato con la tragica decisione del presidente Bush di invadere l'Iraq. Da allora è stato un continuo susseguirsi di fallimenti che, come dimostra la cronaca degli ultimi mesi, hanno trasformato l'Iraq in un vero e proprio inferno in Terra.

di Agnese Licata

Quando l’aereo si allontana dalla pista dell’aeroporto di Entebbe, abbandonando il suolo ugandese e il sangue delle migliaia di morti di cui è impregnato, per condurre il protagonista e una parte degli ostaggi verso l’Europa, verso la salvezza, è difficile provare quel senso di liberazione che la stessa colonna sonora de “L’ultimo re di Scozia” cerca di suggerire. Perché il dramma attraversato dall’Uganda sotto la dittatura di Idi Amin Dada (nel film interpretato dal premio Oscar Forest Withaker), il dramma dei continui colpi di Stato da parte dell’esercito, delle segrete regie occidentali, della repressione violenta di qualsiasi opposizione politica e civile, dell’assoluta indifferenza alla povertà della popolazione, rimane lì, non scompare certo con l’avvio del declino di Amin. È destinato a riproporsi per decenni, in Uganda come in gran parte del continente nero.

di Fabrizio Casari

Dall’otto al quattordici marzo prossimo, George Bush si recherà in America latina. Missione delicata, che vede come tappe Brasile, Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. A detta di alcuni analisti, il viaggio sembrerebbe voler indicare un ritorno dell’interesse di Washington sul continente, suo antico feudo, ma ormai attuale terreno di sperimentazione della rinascita latinoamericana. Ma se Colombia, Guatemala e Messico sono agli ultimi paesi che gli Usa considerano “alleati fedeli”, nel caso del Brasile il viaggio ha evidenti scopi commerciali e, in Uruguay, la missione del Presidente Usa ha come scopo quello di coinvolgere il governo di Tabaré Vasquez, (il più eterogeneo politicamente, sostenuto da una coalizione che va dai socialisti fino agli ex-Tupamaros) nel tentativo d’isolare Caracas. La Casa Bianca ritiene che le diverse culture politiche della sinistra nel Cono sud possano portare ad una divisione nell’ambito del fronte progressista latinoamericano.


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