Settimana scorsa, il colosso francese del cemento Lafarge ha patteggiato con il dipartimento di Giustizia americano una sanzione da quasi 800 milioni di dollari per avere pagato i militanti dello Stato Islamico (ISIS) in cambio della protezione dei propri impianti in Siria durante i primi anni della guerra tuttora in corso. I fatti e le accuse sono noti da tempo, ma la notizia sugli ultimi sviluppi del caso ha riportato al centro dell’attenzione lo strumento legale utilizzato dalla magistratura americana per indagare e incriminare aziende straniere che operano in ogni angolo del pianeta.

I procuratori d’oltreoceano basano il loro lavoro in questo ambito sul “Foreign Corrupt Practices Act” (FCPA), una legge del 1977 che prende di mira “una certa categoria di individui ed entità che pagano funzionari di governi stranieri” in cambio di favori per il loro business. Grazie ad alcuni emendamenti apportati dal Congresso di Washington nel 1988, la legge anti-corruzione si applica anche a compagnie e cittadini di altri stati, le cui azioni illegali hanno luogo sul territorio degli Stati Uniti. Il requisito chiave della extraterritorialità di fatto della legge è però che i soggetti in questione possono essere bersaglio di indagini se hanno una filiale in America o, semplicemente, se sono quotati a Wall Street o hanno legami di altro genere con gli USA, come l’utilizzo di un server americano.

Le recenti dichiarazioni di Ursula Von der Leyen, che impegna l’Unione Europea all’erogazione di un miliardo e mezzo di Euro al mese (oltre alle armi), sono manifestazione di dissennatezza politica. L’aspetto più sconcertante è che la reiterata assenza di fondi per sostenere la crisi sociale europea, però viene agevolmente superata dall’esigenza di mantenere la cricca al potere a Kiev. Il tutto mentre, a causa della subordinazione totale della UE, la crisi economica del continente ha prodotto - e sempre più produrrà - dei riflessi di notevole importanza sull’assetto economico, politico e militare europeo.

Un primo timidissimo appello pubblico, proveniente dall’interno dell’establishment americano, a cercare una soluzione negoziata del conflitto in Ucraina era sembrato arrivare questa settimana con l’invio di una lettera aperta alla Casa Bianca sottoscritta da 30 deputati del Partito Democratico. I firmatari, tutti appartenenti al gruppo dei democratici “progressisti” della Camera dei Rappresentanti (“Progressive Caucus”), chiedevano all’amministrazione Biden di impegnarsi attivamente per far cessare la guerra attraverso il dialogo con Mosca. Questo modesto tentativo è però naufragato letteralmente in poche ore, fino al clamoroso ritiro della lettera nella giornata di martedì in seguito alle polemiche esplose all’interno del Partito Democratico.

Il logico favorito alla successione di Liz Truss alla leadership del Partito Conservatore britannico, l’ex Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, è stato dichiarato vincitore della competizione interna nel primo pomeriggio di lunedì e assumerà a breve l’incarico di primo ministro. La candidatura di Sunak aveva avuto il favore dell’industria finanziaria d’oltremanica, determinando un accordo sostanziale sul suo nome da parte di un partito che resta profondamente diviso, ma che un prolungamento del confronto con altri possibili aspiranti alla leadership avrebbe fatto letteralmente implodere.

L’allarme lanciato dal ministero della Difesa russo circa il possibile utilizzo di una bomba “sporca” da parte del regime ucraino ha come previsto provocato la netta smentita sia di Kiev sia dei governi occidentali. Una provocazione a questo punto del conflitto in Ucraina avrebbe però senso, almeno in teoria, e, oltretutto, i precedenti attribuibili a Stati Uniti ed Europa non mancano di certo. Il livello di disperazione che si registra a Washington e nelle capitali europee è tale da far pensare a un’iniziativa clamorosa nei prossimi giorni o settimane, anche se ci sono segnali, per il momento per lo più sotto traccia, di una crescente impazienza per la situazione sul fronte ucraino e della volontà di creare le condizioni per la riapertura di un tavolo diplomatico.


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