Se tre indizi fanno una prova, il quarto dovrebbe quasi garantire l’esistenza di un determinato evento o intenzione. Così dovrebbe valere anche per il presidente americano Biden, il quale nel fine settimana ha appunto per la quarta volta espresso nel corso del suo mandato l’intenzione esplicita di intervenire militarmente a sostegno di Taiwan se l’isola dovesse essere oggetto di un’aggressione militare cinese. Questa “dottrina” ostentata dall’inquilino della Casa Bianca è altamente controversa, perché non solo smentisce la posizione ufficiale degli Stati Uniti sulla cosiddetta politica di “una sola Cina”, ma così facendo minaccia di mandare in archivio anche quella “ambiguità strategica” che per quattro decenni ha garantito stabilità nello stretto di Taiwan, col rischio di far precipitare lo scontro tra Pechino da una parte e Washington e Taipei dall’altra.

Per chi avesse avuto il piacere o, a seconda dei casi, la sventura di imbattersi nello storytelling della scomparsa di Elisabetta II, non avrà potuto fare a meno di notare la peculiarità bi-dimensionale dell’evento. Nello spazio dello skyline tipico di Londra, spicca la solennità anacronistica della Famiglia Reale. Intorno al castello scozzese, immerso nel verde della campagna circostante, sfilano troupe televisive e sferraglianti carrozze guidate da cavalli, in un progressivo costante aumento della folla, ordinata e silenziosa, che si riversa a rendere omaggio alla corona.

I sudditi, come spudoratamente vengono definiti e in maniera ancora più spudorata si autodefiniscono.

Le crisi internazionali, l’impasse del sistema economico occidentale, l’acutizzarsi dei problemi di riassetto internazionale dell’economia a seguito della pandemia e in conseguenza dei diversi conflitti che minacciano la pace nel mondo, sono stati i temi sui quali si è sviluppata la discussione ed il confronto tra i paesi aderenti alla SCO. Nata ufficialmente nel Giugno del 2001, la SCO è l'alleanza regionale guidata da Cina e Russia, di cui fanno parte Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, India e Pakistan, ai quali si aggiunge ora l’Iran. Gli stati osservatori sono Afghanistan, Bielorussia e Mongolia, mentre i partner del dialogo sono Azerbaigian, Armenia, Cambogia, Nepal, Turchia e Sri Lanka. E’ un meccanismo di cooperazione attivo da dieci anni in Asia centrale e la cui rilevanza, specie dal punto di vista geopolitico, è in continua crescita.

Nato per favorire la risoluzione di dispute territoriali tra i sei paesi aderenti - Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan - l’organizzazione è andata progressivamente istituzionalizzandosi, intensificando la cooperazione tra i suoi membri tanto su questioni di sicurezza quanto in ambiti come quello economico, energetico e culturale.

Il piano militare e di sicurezza dell’organizzazione è senz’altro quello più rilevante, all’insegna della comune volontà degli aderenti di contrastare tre fenomeni che sono identificati come le principali minacce alla sicurezza regionale: il terrorismo, l’estremismo e il separatismo, così come recitò il primo documento ufficiale dell’organizzazione, la “Shanghai Convention on Combating Terrorism, Separatism and Extremism”.

Le residue speranze di rimettere in piedi l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) sono state svanite forse definitivamente questa settimana dopo la presa di posizione tutta politica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) nel corso della riunione periodica dell’organizzazione ONU, andata in scena lunedì a Vienna. Le accuse alla Repubblica Islamica contenute nel rapporto del direttore generale, Rafael Grossi, sono servite ad alimentare il solito artificioso clima anti-iraniano, offrendo un alibi “scientifico” e “imparziale” per giustificare la brusca frenata dei governi occidentali coinvolti nelle trattative con Teheran.

Quella che sembrava poter essere la fase decisiva dei colloqui era iniziata l’8 agosto scorso con la presentazione di una bozza di proposta “finale” da parte dell’Unione Europea agli Stati Uniti e all’Iran. Segnali contrastanti erano arrivati da entrambe le parti, fino a che la risposta finale di Teheran, mai resa pubblica ufficialmente, aveva ingolfato il procedimento. Da allora, i vertici europei e il governo americano hanno deciso di ostentare pessimismo sulla sorte dei negoziati, attribuendone la responsabilità alla decisione iraniana di introdurre nel testo una serie di condizioni che non avrebbero nulla a che vedere con l’intento originario del JCPOA.

Lunedì, il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, ha così suggellato, almeno per il momento, la probabile fine delle trattative. A suo dire, Teheran “ha fatto un passo indietro” nei negoziati ed è perciò “improbabile” che, per ora, l’accordo sul nucleare venga sottoscritto. Fonti diplomatiche europee hanno più realisticamente citato la scadenza del voto di “metà mandato” negli Stati Uniti a inizio novembre come elemento che ostacola la ratifica di un accordo. Come minimo, l’amministrazione Biden non intende portare al Congresso una questione esplosiva prima di un’elezione nella quale il Partito Democratico viene già dato pesantemente sconfitto.

Tornando al ruolo dell’AIEA nell’influenzare i negoziati, è certo che l’Iran nella sua risposta alla bozza europea di accordo abbia chiesto, oltre allo stralcio dei Guardiani della Rivoluzione dall’elenco USA delle organizzazioni terroristiche, la chiusura dell’indagine dell’Agenzia per l’Energia Atomica sul ritrovamento di particelle ad alto arricchimento di uranio in tre siti nucleari del paese mediorientale. L’AIEA sostiene che Teheran non ha fornito risposte convincenti sulla questione, mentre le autorità iraniane assicurano di avere dato tutte le spiegazioni necessarie su un tema che, in ogni caso, sarebbe stato politicizzato in conformità con l’agenda di paesi ostili (Israele, USA).

Nel presentare il suo rapporto sul caso Iran a Vienna, Grossi ha ribadito le posizioni dell’agenzia e le accuse contro Teheran, dal momento che “nessuna delle questioni aperte è stata risolta”. A meno che l’Iran “non fornisca spiegazioni tecnicamente credibili per la presenza di particelle di uranio di origine antropica in tre strutture [nucleari] non dichiarate”, l’AIEA “non sarà in grado di confermare la correttezza e la completezza delle dichiarazioni” sottoscritte da Teheran in base a un accordo ultra-invasivo con la stessa agenzia ONU.

A dare il colpo di grazia politico alle trattative in corso sul JCPOA è stato ancora Grossi nel finale del suo intervento di presentazione del rapporto sull’Iran. Vista infatti la mancata collaborazione della Repubblica Islamica, l’AIEA “non è nella posizione di garantire che il programma nucleare iraniano sia esclusivamente pacifico”. In altre parole, la tesi senza fondamento di USA e Israele che l’Iran potrebbe condurre in segreto un programma nucleare militare ha trovato una quasi conferma da parte dei vertici di un’agenzia internazionale teoricamente imparziale e autorevole.

La decisione dell’AIEA rappresenta un’intrusione a dir poco inopportuna nelle trattative sul JCPOA. A livello generale, l’Iran è stato negli ultimi anni il paese che ha subito di gran lunga il maggior numero di ispezioni da parte dell’Agenzia per l’Energia Atomica ed è stato lo stesso governo di Teheran che ha accettato di sottoporsi a questo regime intrusivo. Sostenere che le autorità del paese virtualmente più controllato del pianeta nascondano piani di natura militare per sviluppare armi nucleari non ha perciò alcun senso, soprattutto quando sono in corso trattative diplomatiche internazionali che dovrebbero ripristinare un sistema molto rigido di controlli.

È vero peraltro che l’Iran nega all’AIEA da oltre un anno la possibilità di controllare le proprie attività nucleari civili tramite le due dozzine di telecamere installate nei propri impianti dopo la firma del JCPOA nel 2015. A partire dallo scorso anno, le immagini registrate erano state tenute a disposizione dell’AIEA in attesa di un ripristino dell’accordo di Vienna. Con il venir meno delle prospettive di successo dei colloqui, Teheran lo scorso luglio ha invece deciso di spegnere le telecamere fino a quando non sarà raggiunta un’intesa. Queste decisioni, assieme alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio, appaiono tuttavia legittime, essendo l’Iran esentato dai vincoli previsti dal JCPOA nel caso in cui uno dei firmatari abbandoni unilateralmente l’accordo, come fece appunto nel 2018 l’allora presidente americano Trump.

L’altro elemento da considerare è che l’annosa questione delle particelle di uranio e le denunce contro l’Iran per la presunta mancata collaborazione attorno a questo argomento sono il risultato di pressioni soprattutto israeliane e rispondono esclusivamente all’agenda anti-iraniana degli Stati Uniti e dello stato ebraico. L’AIEA si è in sostanza prestata agli interessi israeliani sulla questione del nucleare iraniano e gli stessi esponenti del governo di Tel Aviv, nonché i vertici militari e dell’intelligence, non fanno mistero della loro contrarietà al ripristino del JCPOA, né dell’intenzione di agire militarmente contro la Repubblica Islamica se dovessero esserci progressi nella costruzione di armi nucleari.

Il portavoce dell’Organizzazione per l’Energia Atomica iraniana, Behrouz Kamalvandi, in una recente conferenza stampa ha invitato l’AIEA a “non esprimere giudizi basati su documenti contraffati forniti dal regime sionista con scopi politici ben precisi”. L’influenza israeliana sull’AIEA è ben nota e si è più volte concretizzata precisamente nella messa a disposizione di materiale presumibilmente derivante dal programma nucleare iraniano per dimostrare l’intenzione, mai provata, del governo di Teheran di continuare a dare impulso a un fantomatico progetto di natura militare.

Il fatto che l’AIEA assecondi Israele la dice lunga sulla credibilità dell’agenzia delle Nazioni Unite. Il suo direttore intrattiene rapporti frequenti con membri del governo di Tel Aviv e, addirittura, nel pieno delle trattative sul nucleare iraniano e della polemica sulla collaborazione di Teheran con l’AIEA, il diplomatico argentino si era recato a inizio giugno in visita in Israele, dove era stato protagonista di un incontro pubblico con l’allora primo ministro, Naftali Bennett.

Il governo della Repubblica Islamica aveva comprensibilmente denunciato il comportamento di Grossi, sia per le appena ricordate manovre israeliane volte a influenzare l’esito dei negoziati sul JCPOA sia per il fatto che lo stato ebraico dispone di un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e non ha mai sottoscritto, a differenza dell’Iran, il Trattato di Non Proliferazione nucleare (NPT). L’allineamento dell’AIEA alle posizioni israeliane comporta inoltre il rischio di promuovere l’escalation dello scontro con Teheran. Facendosi portavoce di fatto delle accuse di Israele circa la possibile esistenza di un programma nucleare militare iraniano, l’AIEA legittima in qualche modo le minacce dello stato ebraico di bombardare le installazioni della Repubblica Islamica, indipendentemente dalla ratifica di una nuova versione del JCPOA.

Per quanto riguarda l’amministrazione Biden, è evidente che al momento prevalgono i calcoli elettorali, vista l’ampia maggioranza bipartisan contraria al JCPOA al Congresso di Washington, e la necessità di seguire i “consigli” di Israele. Il governo americano continua però a gettare fumo negli occhi della comunità internazionale, cercando di attribuire all’Iran la responsabilità dello stallo dei negoziati. La delegazione americana presso l’AIEA ha definito martedì la Repubblica Islamica “un partner ostile” nei colloqui indiretti in corso ormai da 16 mesi. Gli Stati Uniti, al contrario, sarebbero “pronti a implementare rapidamente l’accordo” sulla base di un “ritorno reciproco al rispetto [dei termini] del JCPOA”. Ciò che ostacolerebbe questo esito, secondo Washington, è appunto “l’assenza di un partner disponibile”.

La tesi americana non potrebbe essere più falsa. Se queste intenzioni USA fossero genuine, sarebbe stata sufficiente per l’amministrazione Biden, subito dopo l’insediamento del presidente democratico, una dichiarazione unilaterale del rientro puro e semplice nel JCPOA. La Repubblica Islamica, come aveva assicurato più volte, avrebbe automaticamente sospeso le attività “in violazione” dell’accordo, tornando a rispettare in pieno i termini sottoscritti nel 2015.

Il governo americano ha invece scelto di temporeggiare, poi di riaprire tardivamente il tavolo delle trattative e, in seguito, di presentare nuove richieste irricevibili per l’Iran e di seguire la fallimentare strada delle sanzioni già sperimentata da Trump. Col passare dei mesi, il capitale politico di Biden si è prosciugato definitivamente e l’assenza di una strategia negoziale coerente si è fusa con le pressioni dei falchi di Washington e del regime sionista, affondando forse definitivamente un accordo in grado di dare almeno un minimo contributo alla stabilità della regione mediorientale.

La controffensiva del regime ucraino nella provincia di Kharkov ha scatenato un dibattito infuocato tra i sostenitori delle due parti in guerra, proiettando soprattutto sul web un’ondata di illusioni e frustrazioni che quasi mai corrispondono a ciò che sta accadendo realmente sul campo. Le forze di Kiev, com’è noto, hanno finora riconquistato il controllo su una parte significativa di territorio in mano alla Russia e le operazioni militari, condotte sotto la completa direzione NATO, stanno proseguendo anche in questi giorni. Al di là dei toni prevedibilmente trionfali con cui le azioni dell’Ucraina vengono presentate in Occidente, le recentissime “vittorie” appaiono di natura soltanto tattica e una valutazione oggettiva degli eventi degli ultimi sei mesi non lasciano supporre, almeno a breve, un ribaltamento generale delle sorti del conflitto. Molto probabile è invece un cambio di marcia delle operazioni russe, preannunciato dai bombardamenti già avvenuti contro alcune infrastrutture cruciali dello stato ucraino.


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