La campagna elettorale negli Stati Uniti si sta infuocando a tal punto che in questi giorni si è assistito allo spettacolo di un presidente che ha apertamente celebrato e incoraggiato le violenze di organizzazioni neofasciste. L’atteggiamento di Donald Trump punta esattamente ad alimentare un clima di odio, diretto contro i manifestanti in piazza per protestare la brutalità della polizia, e dipingere qualsiasi elemento di opposizione al suo governo, incluso il Partito Democratico, come una minaccia eversiva di estrema sinistra.

Con le dimissioni improvvise nel fine settimana del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, rischia di aprirsi per la terza potenza economica del pianeta un periodo di incertezza che sta già mettendo in allarme la classe dirigente indigena. Tra una pesantissima crisi economica e sanitaria e le scosse internazionali provocate dalla condotta americana e dalla rivalità USA-Cina, gli interrogativi che emergono dall’addio alla guida del governo del premier più longevo della storia nipponica sono l’identità del suo successore e le capacità che avrà quest’ultimo di mantenere o accelerare la linea politica ed economica degli ultimi otto anni.

Praticamente una manciata di ore dopo la sospirata ripresa dei colloqui bilaterali sull’implementazione della prima fase dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’amministrazione Trump ha deciso questa settimana di imporre nuove e decisamente inconsuete misure punitive contro Pechino. L’iniziativa intende colpire decine di compagnie e individui ed è relativa alla situazione del Mar Cinese Meridionale, con ogni probabilità lo snodo più delicato della rivalità tra le due potenze, nonché il teatro potenziale di un futuro scontro armato.

Da un certo punto di vista, l’aggiunta di sanzioni per le attività cinesi in queste acque è la logica conseguenza delle ripetute provocazioni delle forze armate americane nell’area. Dal Mar Cinese Meridionale transita una parte consistente dei beni diretti da e verso la Cina, mentre l’area rappresenta anche il fronte più esposto, e per questo segnato da una crescente militarizzazione, del sistema difensivo di Pechino.

Nel Mar Cinese Meridionale si sovrappongono numerose rivendicazioni territoriali che coinvolgono, oltre alla Cina, altri paesi come Filippine, Vietnam, Brunei e Malaysia. Per decenni le dispute sono state di bassa intensità, ma l’intervento degli Stati Uniti, soprattutto a partire dalla “svolta” asiatica anti-cinese dell’amministrazione Obama, ha spesso finito per infiammare i rapporti tra i paesi coinvolti.

Il governo cinese, da parte sua, ha iniziato da tempo la costruzione di isole artificiali e installazioni militari in alcune aree contese, in larga misura in risposta alla minaccia americana. Le sanzioni decise mercoledì si riferiscono appunto a queste attività e confermano come Washington abbia ormai abbandonato anche formalmente la precedente neutralità circa le dispute nel Mar Cinese Meridionale per allinearsi su posizioni contrarie a quelle della Cina. A metà luglio, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aveva ratificato questo cambio di rotta, dichiarando ufficialmente “illegali” la gran parte delle rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

Le compagnie cinesi colpite dalle sanzioni sono 24 e tutte avrebbero avuto un ruolo nelle attività di costruzione che interessano il Mar Cinese Meridionale. Per loro sarà d’ora in poi impossibile acquistare qualsiasi bene dagli Stati Uniti senza prima avere ottenuto un’improbabile licenza speciale dal dipartimento del Commercio USA. Anche un numero imprecisato di individui presumibilmente coinvolti in queste attività verranno penalizzati, in primo luogo vedendosi respinte eventuali richieste di visti d’ingresso in America.

Come già anticipato, queste ultime misure contro la Cina sono del tutto inedite e particolarmente controverse. Mentre per quanto riguarda le questioni di Hong Kong o della minoranza musulmana dello Xinjiang il governo americano poteva quanto meno nascondersi dietro i principi della democrazia e la difesa dei diritti umani, in questo caso è difficile non vedere un puro interesse strategico e militare, sia pure anche in questo caso proposto come una battaglia per la difesa della sovranità dei paesi della regione.

Inoltre, le sanzioni più recenti rappresentano un altro strumento con cui cercare di ostacolare i piani di integrazione infrastrutturale e commerciale della Cina nell’area euro-asiatica, riassunti nella definizione di “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative”. Svariate compagnie appena sanzionate sono infatti impegnate in progetti a essa riconducibili, soprattutto nel settore della costruzione di infrastrutture per le telecomunicazioni.

La concomitanza di queste misure con il vertice virtuale di inizio settimana tra i responsabili delle politiche commerciali di Washington e Pechino è la testimonianza di come la Casa Bianca non abbia nessuna intenzione di allentare le pressioni sulla Cina a poche settimane dalle elezioni presidenziali.

Le discussioni tenute nei giorni scorsi erano state le prime da molti mesi a questa parte ed erano servite a rilanciare l’impegno cinese ad aumentare le importazioni di prodotti americani secondo quanto richiesto da Trump per sospendere i dazi doganali imposti fino all’anno scorso. Il clima cordiale dei colloqui aveva ridato una certa momentanea fiducia ai mercati, ma gli sviluppi successivi hanno riconfermato la volontà USA di mantenere la linea dura contro Pechino.

Il Mar Cinese Meridionale resta dunque un’area cruciale nella rivalità sino-americana ed è infatti teatro di regolari operazioni di “pattugliamento” da parte della marina militare e dell’aviazione USA. Queste manovre vengono giustificate da Washington come indispensabili per riaffermare il principio della “libertà di navigazione” in acque internazionali, ma sono comprensibilmente viste come aperte provocazioni da parte cinese.

Proprio mercoledì, la Cina avrebbe lanciato due missili nelle acque del Mar Cinese Meridionale nel quadro di un’esercitazione militare in corso, dopo che il giorno precedente le autorità di Pechino avevano denunciato l’ingresso nel proprio spazio aereo di un aereo spia americano.

Le sanzioni di questa settimana sono solo l’ultima tranche dell’offensiva anti-cinese degli Stati Uniti. L’elenco di provvedimenti e misure punitive è talmente lungo da far pensare alla Cina come la causa di tutti i mali del pianeta. In realtà, lo zelo americano nel punire la Cina è piuttosto il sintomo della disperazione della classe dirigente USA nel tentativo di arrestare la crescita della principale potenza concorrente sullo scacchiere internazionale.

Tra le decisioni più clamorose prese dall’amministrazione Trump solo negli ultimi tempi vanno ricordate almeno l’ordine di vendita a una corporation americana della popolare applicazione TikTok, la chiusura del consolato cinese di Houston, il tentativo di compromettere la linea di approvvigionamenti di Huawei e le sanzioni contro politici e amministratori cinesi ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang.

Anche se la campagna americana di “massima pressione” sull’Iran ha incontrato un previsto ostacolo nei giorni scorsi alle Nazioni Unite, gli sforzi dell’amministrazione Trump per cercare di mettere all’angolo la Repubblica Islamica non sembrano volersi fermare. Le manovre USA stanno infatti procedendo con il tour in Medio Oriente e in Africa settentrionale del segretario di Stato, Mike Pompeo, il cui obiettivo principale è appunto di raccogliere e allargare i consensi per le politiche anti-iraniane di Washington, in parallelo alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni regimi arabi sunniti.

Quella che si è aperta lunedì a Charlotte, in North Carolina, con la nomina ufficiale di Donald Trump a un secondo mandato alla guida degli Stati Uniti è una convention repubblicana quasi del tutto inedita. Le ragioni non dipendono solo dalla ridottissima presenza di partecipanti in loco per via dell’emergenza Coronavirus, ma anche e soprattutto dallo spazio che stanno trovando e troveranno fino a giovedì le posizioni ultra-reazionarie, se non apertamente fasciste, dei partecipanti, a cominciare dal presidente in carica.


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