Nel 2017 sono stati quasi trentasettemila i migranti accolti nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, comunemente chiamato SPRAR. Circa quattromila e cinquecento i minori, di cui più di tremila quelli senza famiglia mentre settemila e ottocento le persone portatrici di esigenze particolari e di delicate vulnerabilità.

 

Novemila, invece, sono i migranti usciti dagli SPRAR - diffusi in oltre mille e ottocento comuni - dei quali oltre il 70 per cento ha terminato il percorso di accoglienza avendo acquisito gli strumenti per una propria autonomia. Segno che i settecento e settantasei progetti realizzati a livello locale hanno raggiunto i risultati sperati.

 

I dati, raccolti nell’Atlante SPRAR 2017, contano più di quattromila beneficiari che hanno trovato un’occupazione lavorativa, settemila e cinquecento quelli che hanno frequentato un corso di formazione professionale, soprattutto nel settore della ristorazione e del turismo e ventiduemila e quattrocento coloro che hanno seguito corsi di formazione linguistica per più di dieci ore settimanali. Non solo. Nell’anno esaminato sono stati effettuati diciottomila e quattrocento interventi volti all’autonomia abitativa.

 

E se la partecipazione alle attività del territorio risulta più difficoltosa, certamente più facile è il coinvolgimento (f)attivo nella gestione del progetto, in cui risultano impegnati a supporto dei beneficiari di ultimo ingresso per la conoscenza delle procedure di accoglienza, per l’organizzazione degli spai comuni, dei momenti ricreativi e dei laboratori.

 

In ogni modo, le attività intraprese con i progetti all’interno degli SPRAR mirano ad apportare cambiamenti anche nel contesto locale e della comunità, poiché sensibilizzano la collettività, rafforzano la rete dei servizi e coinvolgono la rete locale che è senz’altro funzionale ai percorsi di accoglienza. Per favorire l’inserimento nel tessuto sociale e l’amplificazione del senso di appartenenza al territorio.

 

In questa direzione sono andate le iniziative intraprese nel corso del 2017 che hanno coinvolto le scuole, puntando a un percorso di conoscenza reciproca basata sul rapporto diretto tra studenti e migranti degli SPRAR, scevro da barriere culturali e luoghi comuni, e quelle finalizzate al recupero di arti e mestieri. Che non solo rappresentano un’ottima opportunità lavorativa futura ma sono efficaci anche per coniugare esigenze di integrazione dei singoli e sviluppo locale. Vale la pena segnalare un’iniziativa realizzata dalla società cooperativa Recherche di San Gavino Monreale, la capitale dello zafferano, in Sardegna.

 

Dopo aver accompagnato gli ospiti dello SPRAR in un percorso di conoscenza del territorio, della sua storia e delle sue tradizioni, il progetto Oro Rosso li ha ingaggiati sia nella fase di coltivazione, in collaborazione con le aziende produttrici sia in quella di organizzazione della manifestazione, che si tiene a novembre, legata alla promozione e alla vendita di questa preziosa spezia, nell’allestimento degli stand espositivi e informativi, assegnando loro il ruolo di ambasciatori dello zafferano.

 

Con l’auspicio che tutto questo non venga annichilito dalle nuove normative che “nel tratteggiare nuovi provvedimenti sul sistema di protezione umanitaria senza un’adeguata previsione di un sostegno legislativo ed economico dello Stato, rischiano di esporre i comuni all’impossibilità di intervenire a far fronte alla presenza di persone sul territorio con ricadute pesanti sul fronte sociale”, si legge nel Rapporto annuale sugli SPRAR.

Ci sono miliardi di persone nel mondo che vivono in paesi nei quali la libertà di pensiero e di espressione è fortemente limitata. Se sono atee, poi, sono anche vittime di discriminazioni o persecuzioni sia da parte degli Stati sia da parte della società. Tanto da far passare, senza tanti ostacoli, che sposare il pensiero ateo è un atto di terrorismo, che promuovere valori umanisti è una sorta di attacco criminale alla cultura, che non professare una religione è un crimine morale degno di morte, che i figli possono essere portati via a causa dell’apostasia dei genitori, che mettere in discussione la cultura che le circonda può essere interpretato come blasfemia.

Un’elevata ricchezza nazionale non è sinonimo di una elevata uguaglianza. Anche nei paesi più ricchi del mondo esiste un’inequità educativa. Anche nei quarantuno paesi ad alto e medio reddito membri dell’OCSE o dell’UE. Per fattori che sono fuori dal controllo dei bambini - visto che alcune cause possono risalire a prima della loro nascita - i quali, per questo, partono svantaggiati.

 

Per esempio, per la condizione economica famigliare che genera disparità che si manifestano presto e che tendono a persistere. Anche il genere e il luogo di nascita possono essere determinanti quali fonti di disuguaglianza, comprese (o escluse) le politiche e le pratiche del sistema educativo che, volendo, possono assumere un ruolo di livellamento tra le condizioni di partenza dei bambini o accentuarne le diversità (quando, addirittura, non crearne di nuove).

Da gennaio a settembre 2018, ne hanno beneficiato trecentosettantanove mila nuclei famigliari. Cioè più di un milione di persone. A fare i conti sui percettori del beneficio economico erogato dallo Stato ai nuclei familiari indigenti - comunemente chiamato REI - è l’Osservatorio statistico sul Reddito di Inclusione dell’INPS, proprio nel momento in cui l’attuale governo è in piena battaglia sulla futura legge di bilancio che vorrebbe introdurre il reddito di cittadinanza, superando quello di inclusione, messo a punto dal governo Gentiloni.

Nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale, i poveri in Italia continuano a essere troppi: da quattro milioni e settecentomila del 2016 a cinque milioni e cinquantottomila nel 2017. E sono sempre più giovani: i minorenni in povertà assoluta sono un milione e duecentottomila e i giovani fra i diciotto e i trentaquattro anni, un milione e centododicimila. Cioè, un povero su due è giovane o minorenne.

 

A indicarlo, il rapporto Povertà in attesa, redatto da Caritas, che svela i volti della povertà: diminuiscono le storie di povertà ma risultano “più complesse, croniche e multidimensionali”; aumentano le storie di solitudine e diminuiscono le situazioni di chi “sperimenta una stabilità relazionale data da un’unione coniugale”, fattore scatenante nell’entrata in uno stato di bisogno, e sale il numero delle persone senza dimora. Va da sé che alle difficoltà di ordine materiale si affiancano altre forme di vulnerabilità: problemi famigliari, di salute o legate ai processi migratori e al disagio occupazionale.


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