Non una mera crescita economica ma la promozione di ogni essere umano. Così dovrebbe essere concepito il turismo. “Un’opportunità, concreta e feconda, di crescita, non solo economica, ma umana, sociale e spirituale, secondo una logica di responsabilità”, si legge nel report Paradisi perduti? Viaggiatori responsabili per un turismo che sviluppa le comunità locali, redatto da Caritas.

 

Un turismo al servizio della realizzazione dello sviluppo sociale, considerato che “il turismo, a volte, disegna situazioni drammaticamente contradditorie nel contrasto tra la povertà di molti e la ricchezza di pochi” e ha conseguenze dirette anche sull’ambiente. Perché crescita e sviluppo non sono sinonimi, essendo la prima connotata da valore quantitativo e il secondo da elementi di qualità. Per “uno sviluppo sostenibile, dunque, bisogna uscire da una mera logica del profitto e passare a vedere la contemporaneità di tre valori di base: la prosperità economica, la qualità ambientale e la giustizia sociale”. Con al centro l’uomo e l’ambiente.

Con una temperatura superiore di 1,53 gradi rispetto alla media, il 2018 è ufficialmente - dal 1800 - l’anno più caldo per l’Italia. Che, trovandosi al centro di un’area considerata un hot spot del cambiamento climatico, potrebbe essere una delle aree più sensibili alle conseguenze (imprevedibili) nel rapporto tra temperatura dei mari, venti e precipitazioni.

 

Sono le città, le zone più a rischio. Per due motivi: per il consumo e l’impermeabilizzazione dei suoli prodotti - negli ultimi settanta anni - da case, capannoni, strade e parcheggi; perché viviamo in uno dei paesi più delicati dal punto di vista idrogeologico del mondo. Nel 2018 si sono registrati centoquarantotto eventi con impatti rilevanti: si è aperto con la siccità record registrata nel centro-sud, è stato caratterizzato - più di altri anni - da trombe d’aria sempre più intense che hanno fatto contare quarantuno danni e da allagamenti causati da piogge intense ed esondazioni fluviali, che si sono ripetuti in Sardegna.

Seppure lontani dai riflettori mediatici, esistono conflitti sempre accesi. Dei trecentosettantotto contati nel 2017, quello che l’opinione pubblica italiana ricorda più di tutti è quello siriano. Delle altre crisi (in corso nel continente africano, nel Messico e nelle Filippine), a ricordarle è solo il 3 per cento. E il livello di amnesia è piuttosto elevato: il 14 per cento non ricorda nemmeno un attentato terroristico e il 24 per cento neanche una guerra.

 

D’altronde, stando ai dati riportati nel VI dossier Conflitti dimenticati. Il peso delle armi, redatto da Caritas, i mezzi di informazione nazionali non aiutano a ricordare: considerando le tre principali testate quotidiane - Corriere della Sera, La Stampa e La Repubblica - nei periodi novembre e dicembre 2017 e maggio e giugno 2018, il numero di articoli sulle crisi (dimenticate) dello Yemen, della Somalia, dell’Ucraina non supera i nove di media.

 

Tra gli altri conflitti che la narrazione giornalistica omette ce n’è uno - quello in Somali, appunto - che va avanti da un quarto di secolo e, in passato, ha segnato la storia italiana con passaggi in ombra, come gli scandali della cooperazione e i traffici di armi. Le quali incidono sempre più nelle dinamiche legate ai conflitti, arrivando a determinarne il corso.

 

L’Italia è tra i primi dieci paesi al mondo esportatori di armi: nel solo 2017, le autorizzazioni all’esportazione - rilasciate dal nostro ministero degli Esteri - hanno superato i dieci miliardi di euro; di esse, il 57 per cento fa riferimento a nazioni non appartenenti all’Unione europea ma a tanti paesi impegnati nella sanguinosa guerra nello Yemen. Il 50 per cento degli intervistati nel Rapporto sarebbe favorevole a limitare la produzione nostrana di armamenti, evitando, soprattutto, di esportarle laddove le guerre sono in corso; il 31 per cento ritiene che l’industria andrebbe soppressa; il 64 per cento ridurrebbe anche la vendita di armi agli enti privati.

 

Ma esiste un segmento della popolazione del Belpaese – più di quinto – che ritiene giusto produrre armi e laasciarne inalterata la vendita; solo poco meno di un terzo del campione analizzato accetta la possibilità di una guerra e due terzi è contrario. In quindici anni, è scesa, dal 75 al 59 per cento, la percentuale di chi è d’accordo sul fatto che l’Onu non possa decidere di eventuali interventi militari e in tredici anni è cambiato l’orientamento sulla partecipazione dell’Italia alle missioni militari cosicché nel 2005 era favorevole il 70 per cento, nel 2013 si era scesi al minimo storico del 32 per cento e ora si registra una risalita, toccando il 45 per cento.

 

Per fortuna, la grande maggioranza dei mille e settecentottantadue studenti frequentanti la terza media di quarantacinque istituti scolastici sparsi in tutto il territorio nazionale, considera la guerra un “elemento evitabile”, da superare, per il 63 per cento degli alunni, attraverso il progresso culturale e da prevenire con il dialogo e il rispetto dei diritti umani, anche se un ragazzo su cinque ritiene che la guerra sia un “elemento inevitabile”, legato indissolubilmente alla natura umana.

 

D’altronde, nel 2018, solo il 53 per cento ha sentito parlare della Dichiarazione universale dei diritti umani. Condizionando, probabilmente, la percezione delle conseguenze delle guerre. Alla domanda La guerra obbliga tante persone a fuggire dalla propria terra. Secondo te, è giusto che i paesi europei accolgano queste persone? La risposta è stata positiva solo per il 28 per cento degli studenti.

Se è noto che la crisi economica ha impresso una forte pressione sui bilanci pubblici degli Stati europei, meno evidente è che la suddetta crisi abbia anche fatto registrare una sensibile contrazione della percentuale di spesa dedicata all’istruzione. E in Italia maggiormente che altrove. Già non se la passava bene prima, quando il nostro Paese si trovava nella seconda metà della classifica europea per percentuale di spesa in istruzione rispetto al PIL.

“Sono diversi anni che questo Rapporto sottolinea come la società italiana viva una crisi di spessore e di profondità e come gli italiani siano incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. A fotografare la realtà sociale italiana, è il cinquantaduesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2018 del Censis, in cui la società ne esce delusa, arrabbiata e diffidente.


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