Gaza, gli scogli della tregua

di Michele Paris

L’attitudine dei vertici di Hamas nei confronti dell’ultima proposta di tregua avanzata da Israele sembra essere improntata a un’estrema cautela. Il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza ha fatto sapere nelle scorse ore che restano ancora elementi ambigui nella bozza sottoposta con la mediazione egiziana, anche se le trattative sono tuttora in corso e il documento potrebbe...
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Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto per la prima volta dall'allora primo ministro Boris Johnson nell'aprile 2022, avrebbe dovuto essere approvato in via definitiva già la scorsa settimana, ma una serie di emendamenti alla legislazione, proposti dai “pari” alla Camera dei Lord, ne aveva rallentato nuovamente l’iter. Il primo ministro Rishi Sunak ha dichiarato che, se...
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di Mario Braconi

La scorsa domenica, tra le proteste dei manifestanti anti-Assad, si è tenuto al Cairo il meeting della Lega Araba convocato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG, ovvero Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, più Giordania e Marocco che con il Golfo hanno poco a vedere, ma sono comunque regni arabi). Argomento ufficiale dell’incontro, il deteriorarsi della situazione siriana e la conseguente possibile espulsione del Paese dal “club”, che alla fine è stata respinta.

L’attivismo interessato dell’Arabia Saudita sul caso Siria è evidente sin da quanto, il 7 agosto scorso, fu la prima nazione araba a condannare apertamente l’uccisione di civili nel corso delle violenze di piazza in Siria. “O il governo siriano sceglierà la saggezza di sua spontanea volontà, oppure finirà per scivolare e perdersi nel caos”, dichiarò in quell’occasione il re Adbullah, esortando il governo siriano a seguire la strada delle riforme, “non quelle promesse, ma quelle reali, che possano essere percepite dai nostri fratelli cittadini siriani nella loro vita quotidiana.”

Difficilmente l’Arabia Saudita può essere considerata il baluardo dei diritti umani nel mondo arabo: non solo per ovvie considerazioni sulla sua situazione politica interna, ma anche a valle delle sue iniziative politiche legate alle rivolte arabe. Il Regno ha offerto ospitalità a Ben Ali, cacciato dalla Tunisia dal suo popolo inferocito; espresso imbarazzo per il processo all’ex dittatore egiziano Hosni Mubarak, definendolo “uno spettacolo umiliante per tutti” e, sotto l’ombrello dello “Scudo della Penisola” (il braccio militare del CCG), ha inviato truppe saudite in un altro Paese, il Bahrein, per sostenere la repressione contro le sollevazioni popolari.

In sintesi, l’agenda politica del Regno può essere così riassunta: da un lato, contrastare la cosiddetta primavera araba, mantenendo quanto più a lungo possibile lo status quo ed accreditandosi come potenza di riferimento nella Regione. Dall’altra, regolare i conti con il regime siriano di Al-Assad, di cui è naturale nemico, per motivi di religione e di strategia. Agli occhi dei sauditi, il problema di Al-Assad non è quello di calpestare diritti umani e democrazia, quanto quello di appartenere alla setta alawita, una minoranza non vista di buon occhio dai sunniti (che, incidentalmente, rappresentano circa i tre quarti della popolazione siriana). Se aggiungiamo che sono noti gli eccellenti rapporti tra la Siria e l’Iran (sciita) e che il regime siriano è forse l’unico nell’area non dominato dai religiosi, è chiaro come, per Ryad, la rivolta siriana contro la dittatura rappresenti un’eccellente opportunità per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Secondo voci insistenti, tra l’altro, il Regno starebbe sostenendo la resistenza anti-Assad, oltre che con un sostegno politico ufficiale presso la Lega Araba, anche in modo più opaco e fattivo. In questo senso, sono interessanti le parole di Muhammad Rahhal, capo del Consiglio Rivoluzionario Siriano dei Comitati di Coordinamento (opposizione), che a fine agosto dichiarava al giornale siriano stampato in Gran Bretagna Asharq Alawsat: “Abbiamo adottato una risoluzione per armare la rivoluzione, che prenderà una direzione aggressiva molto presto”. Al giornalista che gli chiedeva come la resistenza pensasse di procurarsi le armi necessarie, Rahhal ha risposto in modo ambiguo: “Fintanto che avremo qui gli Stati Uniti, ci saranno sempre armi”; e l’unico Paese dell’area che ospita basi USA è proprio l’Arabia Saudita.

Tormando alla riunione della Lega Araba, a dispetto del discorso pieno di ovvietà tenuto domenica dal ministro degli Esteri del Qatar, Jasim Bin Jabir Al-Thani, è stata approvata una road map che dovrebbe condurre ad un cessate il fuoco in Siria entro due settimane, scandita da incontri tra rappresentanti dell’opposizione e del regime, da tenersi al Cairo.

La proposta di negoziati è stata immediatamente respinta tanto dal governo siriano (perché ciò costituirebbe una limitazione alle prerogative di uno stato sovrano), che dai suoi oppositori: questi ultimi hanno fatto sapere da tempo di non voler scendere a patti con Al-Assad: esemplare, in tal senso, il commento affidato da Suhair Atassi, una delle figure di spicco dell’opposizione, al suo account su Twitter: “lo abbiamo detto nel giorno in cui è caduto il primo martire: nessun dialogo con gli assassini”.

In ogni caso, domenica non è passata la proposta di sospendere la Siria dalla Lega Araba, che richiederebbe il voto favorevole di due terzi del parlamento della Lega Araba: diversi paesi del “club”, tra cui Sudan, Algeria, Libano e Yemen sono infatti contrari. Del resto, nemmeno presso le Nazioni Unite (NU) è stato possibile stigmatizzare la violenza di stato siriana (si parla di ben 3.000 morti dall’inizio delle sollevazioni popolari, tra cui ben 187 bambini): la condanna ufficiale da parte del Consiglio di Sicurezza è stata infatti impedita dal veto di Russia e Cina e dall’astensione di Brasile, India e Sud Africa.

L’inviato russo presso le NU Vitaly Churkin, assieme all’ambasciatore cinese, Li Boadong, hanno spiegato di non voler offrire alcun pretesto ad eventuali future azioni determinate ad un regime change in Siria. Secondo Churkin la “filosofia del confronto dei paesi occidentali costituisce un ostacolo al possibile accordo tra governo ed opposizione”. Aldilà dell’interesse USA per la caduta di Al-Assad, osteggiato dalle altre potenze, al momento non vi sono le condizioni per alcun accordo tra le due fazioni, mentre appare chiaro che la Russia stia difendendo soprattutto la sua storica alleanza con Damasco, che tra l’altro vede prosperare il suo lucroso business di esportazione di armi. Dopo l’embargo sulla Libia, infatti, la Siria costituisce un eccellente mercato di sbocco.

Intanto, in Siria si continua a morire. Il sito dei Local Coordination Committees (LCC), che rappresenta l’opposizione, parlava l’altro ieri di 23 morti tra le fila degli oppositori del regime nella città di Homs, mentre Al-Jazeera riporta le notizie acquisite dal gruppo britannico Syrian Observatory for Human Rights (SOHR), secondo cui 11 soldati sarebbero stati uccisi dagli oppositori, di cui quattro mediante un dispositivo esplosivo a comando remoto.

Il Comitato, inoltre, riporta la notizia secondo cui uomini del governo siriano starebbero rastrellando studi medici, ospedali e cliniche private sospettati di curare gli oppositori feriti nel corso delle dimostrazioni, coerente con una testimonianza diretta raccolta da chi scrive circa due settimane fa. In particolare, si parla di raid presso gli ospedali Al Fatih e Al Rajaa, nei pressi di Damasco, e dell’arresto di circa 250 tra medici e farmacisti dall’inizio della rivolta.

Nessun dialogo, quindi, tra governo e opposizione, ma il regime di Assad sembra comprendere l’urgenza di uscire dall’isolamento in cui si trova. A proposito di riforme, secondo l’agenzia Nena News, oggi Al-Assad avrebbe nominato un comitato incaricato di redigere una nuova Costituzione; forse un piccolo passo verso la riduzione del peso politico del partito Baath, ma è comunque difficile che un blando atto distensivo, nel corrente contesto esplosivo, possa avere qualche effetto concreto.

 

 

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