Rafah e le macerie della tregua

di Michele Paris

Dopo settimane trascorse ad accusare Hamas di non volere accettare un accordo per la liberazione degli “ostaggi” che avrebbe messo fine alla guerra nella striscia di Gaza, il regime israeliano di Netanyahu ha scatenato l’annunciata offensiva nella località di Rafah letteralmente poche ore dopo che il movimento di liberazione palestinese aveva dato il proprio consenso all’accordo sul...
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Gaza, gli scogli della tregua

di Michele Paris

L’attitudine dei vertici di Hamas nei confronti dell’ultima proposta di tregua avanzata da Israele sembra essere improntata a un’estrema cautela. Il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza ha fatto sapere nelle scorse ore che restano ancora elementi ambigui nella bozza sottoposta con la mediazione egiziana, anche se le trattative sono tuttora in corso e il documento potrebbe essere il punto di partenza per una “seria discussione”. È abbastanza chiaro che Washington e Tel Aviv puntino quanto meno a mettere in pausa il massacro di palestinesi nella striscia. Le manovre attorno alla proposta per un cessate il fuoco nasconde però il tentativo di garantire una qualche copertura al regime di Netanyahu, il quale ha...
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di Michele Paris

La quasi certa candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico, Hillary Clinton, ha rimediato una pessima figura anche nelle primarie di questa settimana negli stati di Oregon e Kentucky, nonostante in quest’ultimo sia riuscita a imporsi letteralmente per una manciata di voti. La prestazione di martedì del senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha fatto così in modo che la corsa alla nomination Democratica prosegua ancora per qualche settimana, fino almeno all’appuntamento del 7 giugno in vari stati, tra cui quello con il maggior numero in assoluto di delegati in palio, la California.

Non solo l’ex segretario di Stato di Obama non è riuscita nemmeno in questa occasione a dare la spallata decisiva al suo rivale, ma per certi versi ha addirittura visto aggravarsi i segnali di debolezza già emersi in questa tornata elettorale. Sanders ha infatti vinto con un comodo margine di vantaggio in Oregon (54% a 45%) e ha sostanzialmente pareggiato in Kentucky (46,8% a 46,3%) malgrado entrambe le primarie fossero limitate ai soli elettori registrati come Democratici.

Negli stati con questa regola, Sanders non aveva mai vinto, tranne che nel Vermont, mentre i suoi successi erano giunti in “caucuses” e primarie “aperte”, cioè nelle quali possono votare per il candidato Democratico anche gli “indipendenti” e i Repubblicani.

Il team di Hillary nella nottata di martedì si è affrettato a dichiarare vittoria in Kentucky, facendo trasparire l’ansia di mettersi al sicuro dalle conseguenze di un’umiliante doppia sconfitta. La Clinton aveva recentemente annunciato lo stop delle iniziative elettorali nelle primarie, così da risparmiare denaro per le elezioni di novembre, ma la prospettiva di una sconfitta in uno stato come il Kentucky l’ha convinta a tornare sulla propria decisione.

Qui sembravano sussistere tutte le condizioni per un’affermazione convincente di Hillary. La sua nettissima vittoria su Barack Obama nel 2008 doveva ad esempio testimoniare della popolarità della ex first lady nello stato. Allo stesso modo, com’è quasi sempre accaduto nei mesi scorsi, Hillary si era assicurata il sostegno di praticamente tutto l’establishment Democratico locale, compresa la “Segretaria dello stato”, Alison Lundergan Grimes, la quale ha per legge alcune responsabilità nel processo elettorale.

Lo scarso entusiasmo per la favorita Democratica è dimostrato anche dal fatto che martedì Hillary ha ottenuto meno della metà dei voti rispetto a otto anni fa e ha ceduto a Sanders tutte le contee carbonifere del Kentucky orientale, imponendosi invece nei principali centri urbani, caratterizzati da una forte presenza di afro-americani.

Questa realtà era sembrata chiara già alla vigilia del voto, con le apparizioni pubbliche di Hillary che avevano attirato quasi sempre poche centinaia di persone, contro le migliaia mobilitatesi per Sanders. La Clinton ha alla fine deciso di non organizzare nessun evento nella serata di martedì, al contrario del suo rivale che ha tenuto un comizio a Carson, nei pressi di Los Angeles, in California, di fronte a una folla di 10 mila sostenitori.

Proprio in questa occasione, Sanders ha pronunciato un discorso tra i più di sinistra di tutta la sua campagna elettorale, sottolineando le sue origini operaie, attaccando i poteri forti e Wall Street e invitando il Partito Democratico ad aprire le porte alla “working-class” americana. Un cambiamento di tono e una sorta di appello di classe evidenziati soprattutto dall’insolito riferimento esplicito alla “working-class” come forza sociale ben definita, solitamente ignorata dalla classe politica americana se non per dipingerla come irrimediabilmente razzista e retrograda.

La ritrovata combattività di Sanders è probabilmente dovuta almeno in parte alla crescente e sempre più aperta ostilità dell’apparato di potere Democratico nei suoi confronti. Oltre alla campagna mediatica già in corso da tempo per convincerlo ad abbandonare la corsa alla nomination visto il vantaggio insormontabile di delegati accumulato da Hillary Clinton, nei giorni scorsi è partita una nuova offensiva che intende screditare i sostenitori di Sanders.

Ciò è coinciso con i disordini registrati alla convention locale andata in scena settimana scorsa a Las Vegas, dove il Partito Democratico dello stato doveva nominare un certo numero di delegati da inviare alla convention nazionale di luglio a Philadelphia. Il caos del Nevada potrebbe prefigurare, secondo alcuni, le divisioni che rischiano di emergere la prossima estate anche tra i Democratici e che erano finora rimaste in secondo piano, anche per l’attenzione della stampa concentrata in larga misura sui problemi interni al Partito Repubblicano.

A Las Vegas, l’organizzazione di Sanders si era meticolosamente adoperata per la nomina di un numero consistente di delegati favorevoli al senatore, in modo da compensare la sconfitta di misura subita nei “caucuses” del mese di febbraio. Quando i vertici del partito hanno però di fatto escluso la maggior parte dei delegati pro-Sanders, i sostenitori di quest’ultimo hanno protestato animatamente, finché l’intervento delle forze dell’ordine ha riportato la calma nell’assemblea.

I giornali americani hanno poi dato ampio spazio alle accuse della numero uno del Partito Democratico del Nevada, Roberta Lange, protagonista di un’accesa denuncia contro i sostenitori di Sanders per avere diffuso il suo numero di telefono privato, sul quale avrebbe ricevuto centinaia di telefonate e SMS intimidatori. La vicenda è stata subito raccolta dai leader del partito vicini a Hillary per invitare Sanders a condannare l’accaduto e, più o meno velatamente, a chiedergli di farsi da parte per evitare ulteriori divisioni interne.

Sanders, da parte sua, ha rilasciato una dichiarazione per denunciare eventuali violenze ma ha ribadito le accuse alla leadership Democratica di utilizzare “il proprio potere per impedire un processo equo e trasparente” nella nomina del candidato alla presidenza.

Le suppliche rivolte a Sanders per accettare il responso delle primarie e il successo di Hillary Clinton sono tanto più intense quanto risultano sempre più forti i timori nei confronti di una candidata profondamente screditata e vista con ostilità da decine di milioni di americani.

Non solo i più recenti sondaggi su base nazionale, per quello che possono valere a questo punto della stagione elettorale, mostrano come Trump abbia virtualmente chiuso il gap che lo separa da Hillary, ma quotidianamente appaiono notizie che ricordano i legami di quest’ultima con l’élite economica e finanziaria degli Stati Uniti. Anche alcune delle stesse iniziative della “frontrunner” Democratica per promuovere la propria immagine finiscono frequentemente per mettere in luce i moltissimi aspetti negativi del suo curriculum politico e personale.

Questa settimana, ad esempio, la Clinton ha reso pubblica la propria dichiarazione dei redditi relativa al 2015 nella speranza di mettere a segno qualche punto a suo favore nelle battute iniziali della sfida con Trump. Il candidato Repubblicano non ha infatti ancora deciso se far conoscere o meno agli elettori i propri redditi.

La mossa di Hillary, comune peraltro a tutti i candidati alla Casa Bianca nell’era moderna, rischia però di trasformarsi nell’ennesimo boomerang. Oltre ai 5 milioni di dollari incassati dai diritti legati alla sua biografia uscita nel 2014, la dichiarazione dei redditi di Hillary ha elencato un’altra serie di discorsi a favore di banche e corporation che le hanno fruttato singoli compensi anche superiori ai 200 mila o ai 300 mila dollari, per un totale di 1,5 milioni di dollari.

Infine, in caso di vittoria contro Trump, Hillary ha prospettato l’assegnazione al marito Bill di un ruolo di primo piano per plasmare le politiche economiche della sua futura amministrazione. L’ipotesi dovrebbe far suonare l’allarme tra gli elettori americani, vista l’implementazione da parte dell’allora presidente Clinton, con il pieno sostegno della consorte, di una disastrosa agenda economica e finanziaria neo-liberista nel corso degli anni Novanta.

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