Rafah e le macerie della tregua

di Michele Paris

Dopo settimane trascorse ad accusare Hamas di non volere accettare un accordo per la liberazione degli “ostaggi” che avrebbe messo fine alla guerra nella striscia di Gaza, il regime israeliano di Netanyahu ha scatenato l’annunciata offensiva nella località di Rafah letteralmente poche ore dopo che il movimento di liberazione palestinese aveva dato il proprio consenso all’accordo sul...
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Gaza, gli scogli della tregua

di Michele Paris

L’attitudine dei vertici di Hamas nei confronti dell’ultima proposta di tregua avanzata da Israele sembra essere improntata a un’estrema cautela. Il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza ha fatto sapere nelle scorse ore che restano ancora elementi ambigui nella bozza sottoposta con la mediazione egiziana, anche se le trattative sono tuttora in corso e il documento potrebbe essere il punto di partenza per una “seria discussione”. È abbastanza chiaro che Washington e Tel Aviv puntino quanto meno a mettere in pausa il massacro di palestinesi nella striscia. Le manovre attorno alla proposta per un cessate il fuoco nasconde però il tentativo di garantire una qualche copertura al regime di Netanyahu, il quale ha...
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di Antonio Rei

Il pericolo scampato è motivo di sollievo, ma non va accolto come un trionfo. In tutta Europa schiere di commentatori hanno ululato di gioia nell’apprendere lunedì che in Austria era avvenuto il miracolo: rimontando uno svantaggio del 14% al primo turno, Alexander Van der Bellen si è imposto al ballottaggio delle presidenziali su Norbert Hofer. Così Vienna, invece di essere la prima capitale europea a ospitare un presidente della Repubblica di estrema destra, si ritrova con il primo capo di Stato verde del continente. Un risultato certamente insperato e importante, ma non tale da rimuovere tutte le preoccupazioni che queste elezioni hanno suscitato.

Quando si riesce a frenare pochi centimetri prima del burrone, una volta smaltita l’adrenalina, è il caso di domandarsi come si è arrivati così vicini al precipizio. E l’analisi del voto austriaco non è per nulla rassicurante. A ben vedere, Van der Bellen l’ha spuntata con un margine di appena 31.026 voti, per giunta arrivati via posta dai residenti all’estero. In termini percentuali, significa che ha vinto con il 50,3% contro il 49,7% di Hofer. Pochi centimetri, appunto.

L’Austria è perciò un Paese quanto mai diviso e la spaccatura, a leggere i dati, divide in modo netto i livelli socioeconomici e culturali. Van der Bellen ha prevalso in tutte le grandi città del paese, arrivando a ottenere il 70% a Vienna (in alcuni quartieri addirittura all’80%). Anche gli elettori in possesso almeno del diploma di scuola superiore hanno scelto in massa il candidato ecologista, preferendolo nel 69% dei casi. In modo speculare, Hofer è stato di gran lunga il più votato nelle campagne, fra gli strati sociali meno abbienti e fra quelli meno istruiti.

Pur senza cadere negli sproloqui sulla lotta di classe, non si può non rilevare che l’elettorato austriaco è polarizzato intorno a due grandi binomi: pro e contro la logica europeista, pro e contro l’accoglienza dei migranti. Per intenderci, Van der Bellen è contrario a ogni tipo di barriera fisica contro il flusso delle persone (compresa quella concepita e poi abortita al Brennero) e ritiene che la libera circolazione sia un principio da difendere, mentre Hofer ha incentrato la propria campagna elettorale contro gli immigrati che, secondo lui, “rubano posti di lavoro e risorse”, danneggiando le condizioni di vita e lo Stato sociale degli austriaci purosangue.

Ora, una frattura di questo tipo suscita alcuni motivi di riflessione. Innanzitutto, è il caso di ricordare che in Austria il ruolo del Presidente della Repubblica non è particolarmente determinante. Le elezioni che conteranno davvero saranno le politiche del 2018. In questa prospettiva, è evidente che sarebbe un suicidio adagiarsi sugli allori della vittoria di Van der Bellen e sottovalutare l’ascesa del Fpoe. Il partito di Hofer, dichiaratamente xenofobo e anti-immigrati, esce comunque da queste presidenziali forte del suo miglior risultato di sempre ed è più che mai in corsa per la partita che davvero conta.

In secondo luogo, il dilagare di populismo e nazionalismo in Austria è tanto più significativo perché si tratta di un Paese mediamente ricco. In assenza di svolte nella politica europea in tema di crescita, inclusione sociale e accoglienza dei migranti, perciò, viene da chiedersi cosa potrà accadere in altri Paesi europei dove la disoccupazione è molto più alta, la povertà molto più diffusa e l’afflusso di migranti molto più significativo.

Infine, l’unica sentenza definitiva che gli austriaci hanno consegnato alla storia con le ultime elezioni presidenziali è la bocciatura dei grandi partiti politici tradizionali. Socialdemocratici e popolari sono attualmente al governo insieme, amalgamati in una grande coalizione che traghetta il Paese dal 2007, e dal 1945 fino alla settimana scorsa si erano scontrati in ogni singolo ballottaggio per le presidenziali. Stavolta, però, hanno ceduto entrambi di schianto al primo turno, non riuscendo a portare i rispettivi candidati oltre l’11%.

Forse qualcosa cambierà da qui in avanti, visto che la settimana scorsa è arrivata la nomina di un nuovo cancelliere socialdemocratico, Christian Kern, in sostituzione dell’impopolare Werner Faymann. Le promesse di cambiare rotta, com’è ovvio, si sprecano, ma stavolta - visto che l’estrema destra è più che mai attrezzata per vincere e andare al governo - c’è da sperare che una nuova fase inizi davvero, anche nei rapporti con Bruxelles. Altrimenti, dopo tanti cori di giubilo per Van der Bellen, l’Austria si unirà al club di Ungheria e Polonia, scivolando nelle braccia del populismo nero.

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