di Mariavittoria Orsolato

Adiconsum, l’Associazione per la Difesa dei Consumatori che fa riferimento alla CISL, ha da poco inviato all'Antitrust una segnalazione formale intesa a denunciare una gestione scorretta da parte di Rai, Sky e Mediaset dei propri servizi multimediali. Secondo quanto riportato nella nota, infatti, il servizio di trasmissione offerto dai tre poli generalisti - che secondo le pubblicità avrebbe dovuto essere disponibile su tutti i tablets e gli smartphones - non è stato in effetti reso possibile per tutti i dispositivi, ma solo per quelli marchiati Apple, Windows o Samsung.

Ufficialmente, la Rai aveva promesso che gli Europei di Calcio sarebbero stati visibili in streaming su tutti i dispositivi mobili; e altrettanto veniva assicurato per Sky Go con le Olimpiadi di Londra. In realtà, è opinione dell’associazione che sia stata messa a punto una vera e propria discriminazione degli utenti sulla base delle loro scelte tecnologiche.

Se infatti Sky trasmette solo sugli applicativi del colosso di Cupertino e sul sistema operativo Android (in dotazione ai tablets Samsung e ad alcuni modelli di smartphone), Rai e Mediaset hanno privilegiato l'applicazione Microsoft Silverlight che è compatibile solo con i sistemi operativi di Windows e Mac.

In questo modo gli utenti che hanno scelto prodotti o software diversi da quelli sopracitati si sono ritrovati tagliati fuori dalle trasmissioni nonostante avessero sottoscritto un contratto (nel caso di Sky Go e di Mediaset Premium) o semplicemente confidassero nello streaming del servizio pubblico (nel caso della Rai).

 Dunque, stando a quanto afferma il segretario Pietro Giordano, “Adiconsum ritiene che tale materia necessiti di uno specifico intervento dell'Antitrust sia a tutela dei diritti del consumatore, per garantire la vendita corretta degli apparati, e dei contenuti multimediali sia per garantire una concorrenza trasparente fra i produttori di device, valutando se gli accordi con i produttori di contenuto distorcono o meno il mercato.

E se Mediaset e Sky - che sono società private - rischiano di veder riconosciuto solo un lieve difetto di comunicazione, le cose per Rai - che dovrebbe offrire invece un servizio pubblico ed essere dunque accessibile a tutti - potrebbero non essere altrettanto semplici. Non solo per quanto concerne gli ultimi eventi sportivi, ma in generale per l’intera offerta online la cui fruizione è decisamente aumentata nell'ultimo lustro.

Il problema è quello annoso della neutralità tecnologica, ovvero un principio di design/uso applicato alle reti a banda larga che forniscono accesso ad internet, ai servizi telefonici e alle trasmissioni televisive. Stando al paradigma positivo, una rete “neutrale” dovrebbe essere priva di restrizioni arbitrarie sui dispositivi connessi e sul modo in cui essi operano, risultando così universalmente accessibile agli utenti, qualunque sia il dispositivo in loro possesso.

Lo scorso 25 maggio il Governo ha ratificato con una legge le disposizioni Ue in materia di comunicazioni elettroniche, in particolare le direttive 2009/136/CE e 2009/140/CE, modificando il Codice delle Comunicazioni  per “rafforzare i diritti degli utenti in materia di trasparenza nei rapporti con i fornitori di servizi, con riferimento, ad esempio alle condizioni definite nei contratti stipulati con gli operatori.

L'abbattimento del digital divide torna dunque al centro del dibattito, con l’Adiconsum pronta a far leva sul principio della neutralità tecnologica per mettere in luce le distorsioni che tale meccanismo impone al mercato. Giordano e la sua associazione chiedono pertanto di rendere le pubblicità più trasparenti e pungolano l’Antitrust affinchè vigili più attentamente sulle promozioni messe sul mercato dagli operatori televisivi, così che l’utente non possa essere tratto in inganno da un mercato frammentato e disomogeneo.

Ad Audiconsum va in ogni caso il merito di aver prodotto una nuova e interessante riflessione sul tema della neutralità di accesso, ostacolo sempre vivo che la lotta di mercato tra i grandi gruppi non consente di aggirare in virtù delle rispettive posizioni di forza e delle frizioni di cui la concorrenza (in questo caso sleale) si nutre a spese e a scapito dei cittadini.

 

di Mariavittoria Orsolato

E' un Biscione in agonia quello che in questi giorni si vede a Cologno Monzese. A fronte del crollo delle azioni in borsa, dei pessimi risultati con la raccolta pubblicitaria e, non ultimo, del recente e drastico piano di tagli, è evidente che Mediaset sta affrontando un crisi ben peggiore rispetto alle dirette concorrenti. Una crisi che, pare, rischia di stravolgere anche gli assetti proprietari dell'impero berlusconiano, con Confalonieri che spinge per l'allontanamento di Pier Silvio dalla dirigenza in favore di un pool tecnico in grado di risanare conti e palinsesti. Ma andiamo per ordine.

Il 2012 di Mediaset era già cominciato male: i dati di bilancio per il 2011 si chiudevano con solo 225 milioni di euro di profitti - vale a dire un clamoroso 36% in meno rispetto agli anni precedenti - segnando il record negativo di performance per l'azienda di Cologno Monzese. Per correre ai ripari il CdA deliberava a marzo un drastico taglio dei dividendi agli azionisti, portandoli da 36 a 10 centesimi di euro ad azione, ma faceva crollare contestualmente il titolo in borsa, sospeso dalle contrattazioni per eccesso di ribasso il 22 marzo. I danni maggiori si erano però registrati nell'ultimo trimestre del 2011 quando, probabilmente anche per effetto delle dimissioni da premier, la pubblicità sulle sue tv è andata a picco registrando un preoccupante -10%.

Il primo semestre dell’anno ha fatto poi registrare una calo nei ricavi, che sono passati da 2,253 miliardi di euro agli 1,999 miliardi attuali rispetto allo stesso periodo del 2001, con una perdita del 12,2% e una diminuzione dell'utile pari al 73,5% in meno rispetto ai 12 mesi precedenti. E anche i ricavi di Mediaset Premium derivanti dalla vendita di carte, ricariche e abbonamenti hanno subito una flessione notevole rispetto allo scorso anno.

Milioni di euro bruciati dunque e, per metterci una pezza, la dirigenza Mediaset ha varato una lista di tagli da 250 milioni di euro, operativa dal 4 agosto, per ridurre gli attuali costi aziendali e di produzione. Il  primo atto del nuovo “piano di efficienza” è stata la dismissione della storica casa di produzione interna, la Videotime, con cui si è voluto scorporare un importantissimo ramo produttivo dell'azienda per farlo confluire in una newco di proprietà terza; con buona pace dei 74 lavoratori di Palazzo dei Cigni che, come extrema ratio, hanno addirittura pubblicato un'accorata lettera dalle colonne de La Repubblica, strizzando l'occhio alle nemesi De Benedetti.

Ma gli operatori di ripresa e i montatori non sono gli unici a rischio in Mediaset. I deludenti risultati con la raccolta pubblicitaria hanno indotto i dirigenti a credere che i palinsesti siano completamente da rivoluzionare e anche tra i volti noti del piccolo schermo ci sono contratti a rischio e/o cachet da ridimensionare, soprattutto nelle testate giornalistiche. Il conduttore di Matrix Alessio Vinci, ad esempio, si è visto spostare il programma alla seconda serata della domenica e anche la direzione del Tg5 pare essere in forse.

Gli ascolti del telegiornale di Canale 5, in particolare l’edizione delle 20, stanno andando a picco con uno share medio che si aggira attorno al 16%: per provare a recuperare terreno dallo scorso 30 luglio Clmente J Mimun, ha strappato un quarto d'ora al quiz preserale per collocare le anticipazioni che su La7 hanno fatto (pare) la fortuna del tg di Enrico Mentana. Ma per i fatturati di Mediaset questo potrebbe non essere abbastanza e già si vocifera di un probabile avvicendamento pre-elettore alla direzione della testata, con il clamoroso ritorno di Augusto Minzolini.

Molto più spinosa, invece, la questione inerente i vertici dell'azienda. Secondo le voci che corrono a Cologno Monzese, i manager del gruppo, sostenuti da Fedele Confalonieri, sarebbero sempre più decisi a chiedere il passo indietro di Pier Silvio Berlusconi, colpevole, a loro avviso, di aver operato le scelte sbagliate che hanno condotto il Biscione sull'orlo del baratro finanziario. Crollo della pubblicità e calo degli ascolti sono gli elementi certi della crisi ma, secondo il rampollo di Berlusconi, le scelte operate sono state l'inevitabile risposta alle richieste dettate dal mercato.

Probabilmente un tentativo di autoassoluzione quello di Pier Silvio, che vuole evitare a tutti i costi sia l’intervento del padre sia quello della sorella maggiore: Marina sarebbe infatti frustrata dal raggio d’azione limitato di cui dispone, ristretto all’area di Segrate, e punta a sbarcare a Cologno Monzese con tutti i crismi dell’ufficialità. Ma non è una cosa facile, sono troppe le variabili da dover prendere in considerazione: dagli asset di famiglia ai rapporti di forza fra i Berlusconi di primo e di secondo letto. Senza dimenticare che il padrone del vapore rimane sempre e comunque lui, papà Silvio.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

La scorsa settimana la nuova presidente Rai, Anna Maria Tarantola, ha tenuto il suo discorso d'insediamento dinanzi al Consiglio di Amministrazione. Un discorso encomiabile sulla carta che, nei punti programmatici, rivendica autonomia di manovra rispetto all'ingerenza dei partiti: “Una buona governance che si fondi su una chiara distinzione di ruoli e di responsabilità, senza sovrapposizioni, aree grigie, interferenze”; e si pone in linea con le politiche di austerità imposte dal governo di Mario Monti: “Una situazione economico-finanziaria-patrimoniale in equilibrio e sostenibile nel tempo, che consenta di conseguire anche un nuovo e profittevole posizionamento sul mercato”.

Un discorso d'insediamento colmo di buoni propositi in termini di qualità gestionale e produttiva :“Una gestione aziendale basata sull’autonomia e sul merito, che sappia valorizzare, stimolare e premiare le professionalità e i talenti, attenta ai giovani e alle donne.”; addirittura attento alla valorizzazione della figura femminile nei palinsesti: “Una linea editoriale rispettosa del pluralismo, dell’eticità, della responsabilità, sempre attenta alla finalità pubblica; una linea editoriale che ridia forza e ulteriore significato alla dignità e alla presenza della donna”.

In pratica un'orazione del miglior Gorgia che però, nella riunione svoltasi ieri a viale Mazzini, è stata indirettamente smentita dalle delibere approvate dal cda. Certo la neopresidente, ex numero due di Bankitalia, ha dato seguito al suo proclama e ha deciso di autoridursi lo stipendio– a quanto si apprende, Tarantola percepirà un salario di 366.000 euro lordi, inferiore a quello percepito dal predecessore Paolo Garimberti, che si aggirava sui 450.000 euro netti, ed inferiore ai 400.000 euro che la signora guadagnava nell'olimpo della finanza italiana. E, certo, nelle scorse settimane l'assemblea degli azionisti - composta dal ministero del Tesoro e dalla Siae – ha avuto il buon senso di decidere la riduzione di circa il 30% dei compensi dei componenti del cda, portandoli a 66.000 euro lordi annui, che comunque non sono pochi.

Anna Maria Tarantola ha tenuto a sottolineare che il “nobil gesto” è stato concesso “nonostante l'aggravio di lavoro e di responsabilità connessi con le nuove deleghe conferite al Presidente”, ma a vanificare il suo fair play e parte di quanto affermato appena una settimana fa nel discorso d'insediamento c'ha però pensato il collega Luigi Gubitosi, nuovo direttore generale Rai, che, pur avendo invocato un contratto a tempo determinato affinché sia palese che non ha intenzione di rimanere a viale Mazzini un minuto in più del dovuto, non ha minimamente mollato l'osso sul compenso e ha fissato la sua quota di prestazione a 650.000 euro lordi l'anno, la stessa percepita dall'ex dg Lorenza Lei.

Squilibri di reddito a parte, presidente e direttore generale pare abbiano cominciato a tracciare il piano operativo della Rai disegnata da Monti, al quale ancorare ulteriori interventi di razionalizzazione, con l'intenzione di mantenere in equilibrio efficienza e produttività, tagli e rilancio del prodotto. I primi interventi potrebbero forse essere già definiti nella prossima riunione del cda, prevista per il prossimo 2 agosto. Ma le disgrazie della tv di stato sono ancora tutti sul tavolo - a fine anno è atteso un rosso tra i 60 e i 100 milioni di euro, con un indebitamento intorno ai 300 milioni - e già l'ex dg Lei aveva ipotizzato una nuova manovra correttiva da 50-60 milioni.

Tra le possibili operazioni di cui si è parlato, la cessione degli asset passivi RaiWay, che potrebbe iniettare nelle casse dell'azienda intorno ai 500 milioni; la dismissione parziale del patrimonio immobiliare (da tempo si parla della vendita di Viale Mazzini e via Teulada, ma anche di Palazzo Labia a Venezia); il taglio delle collaborazioni dei pensionati; la riduzione degli attuali 14 canali con eventuali interventi sul personale in esubero; misure per il recupero dell'evasione del canone, che pesa per circa 500 milioni di mancati introiti.

Ad incombere resta poi il nodo delle nomine, che arriverà al pettine solo dopo l'estate. In ballo c'è Rai1, collocazione alla quale punterebbe l'ex dg Lei, ma nel mirino c'è anche Rai2, in crisi di ascolti. In vista delle elezioni del 2013 gli occhi sono puntati anche sul Tg1: il contratto di Alberto Maccari scade a dicembre, ma potrebbe essere sostituito anche prima.

Per la nuova dirigenza di viale Mazzini si aprono dunque sfide non semplici, ma se è vero che la nostra televisione è lo specchio del paese, allora probabilmente anche in Rai le manovre “lacrime e sangue” non sortiranno l'effetto voluto e continueranno ad aumentare lo spread tra la cittadinanza e il servizio pubblico che l'azienda dovrebbe offrigli.

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso aprile il Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, aveva annunciato in pompa magna l'estinzione del beauty contest e il contestuale ritorno a regolari aste per l'assegnazione degli slot di frequenze televisive digitali. Credevamo che con questa decisione l'odissea del digitale fosse finalmente e positivamente chiusa ma non è stato così. Qualche giorno fa, infatti, lo stesso Corrado Passera ha assegnato a titolo gratuito la bellezza di 19 frequenze, bloccandone l'usufrutto per vent'anni: quattro di queste sono andate alla Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia Media e cinque ad altrettante emittenti private.

Inutile dire che la decisione abbia risollevato il polverone di polemiche e i soliti sospetti sul fatto che questa sia solo l'ultima delle gentili concessioni fatte alle televisioni dell'ex presidente del consiglio che, a questo punto, non dovrà più preoccuparsi della “provvisorietà” dell'usufrutto.

Il Ministro, da poco iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Biella per reati finanziari risalenti al 2006, si è giustificato dicendo di essersi strettamente attenuto alla procedura e a sua discolpa ha tirato in ballo il Codice delle Comunicazioni Elettroniche e il regolamento Agcom 353/11/CONS, secondo cui il periodo di rilascio deve essere adeguatamente lungo per consentire così l'ammortamento degli investimenti necessari per la “valorizzazione delle infrastrutture che operano su tali frequenze”.

In più, nella Finanziaria 2010 il ministro dell’economia dell’epoca, Giulio Tremonti, fece scrivere che c’era “l’obbligo di trasformare i titoli provvisori (rilasciati a livello regionale tra il 2008 e il 2012 nda) in definitivi entro il 30 giugno 2012, in coincidenza con il passaggio al digitale su tutto il territorio nazionale”. Passera avrebbe quindi effettivamente ottemperato alle prescrizioni, salvo però dare a Mediaset le frequenze ‘più pulite’: stando a quanto affermano gli esperti di etere, gli slot consegnati alle tv di Berlusconi sarebbero infatti migliori dal punto di vista qualitativo, non soffrirebbero cioè delle interferenze con le tv dei Paesi stranieri confinanti con il nostro.

Secondo il parere di alcuni addetti ai lavori, l’operazione ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio blitz: all‘asta per la banda, infatti, chi ci guadagnerà saranno le Tv e non lo Stato che s’è spogliato di un proprio diritto.

“Il rischio è reale - sottolineano gli esperti - e l’unica possibilità che ha il governo di uscire dall’impasse è avviare una rigorosissima politica sul reale uso delle frequenze, perché non si può accettare che un bene così prezioso, parliamo di svariati miliardi di euro, possa essere sottoutilizzato”. “Un monitoraggio che garantisca che le frequenze non vengano accaparrate sine cura, ma si osservi il principio anglosassone Use it or lose it” ovvero: o sfrutti a pieno (e soprattutto per la collettività) il bene statale che ti viene dato in concessione, oppure lo perdi a tempo indeterminato.

Troppo bello per essere vero in un'Italia famosa per i suoi pantagruelici sprechi di risorse pubbliche. Non a caso, su Affari&Finanza di qualche giorno fa, il professo Antonio Sassano, docente della Sapienza spiegava come, “grazie a queste assegnazioni ventennali, il diritto di ogni operatore a mantenere la frequenza assegnata o una frequenza equivalente diventerà difficilmente contestabile”.

“Le emittenti - ha aggiunto il professore - saranno le proprietarie effettive dello spettro televisivo. Di conseguenza, una rivoluzione del numero di frequenze destinate alla tv sarà impossibile e con essa il coordinamento internazionale e la liberazione della banda a 700 Mhz”. “In altre parole - ha concluso Sassano - esiste un rischio concreto che l’Italia non riesca a cogliere tutti i vantaggi di una progressiva assegnazione delle frequenze televisive alla banda larga mobile e che abbia effettuato assegnazioni definitive che non potranno mai essere coerenti con il quadro europeo e internazionale”.

Il tutto metterebbe quindi in serio rischio gli impegni presi dall’Italia in seno all’Unione europea per la Digital Agenda e in sede ITU, dove s’è deciso che, dal 2015, la banda 700 MHz sarà co-primaria tra tv e banda larga mobile. Ma, dal momento che stiamo ancora pagando 350.000 euro al giorno per sorbirci l'ormai ex tg di Fede su rete 4 - la frequenza che RTI scippò a Europa 7 senza mai restituire, nonostante la corte di Strasburgo avesse deliberato a favore di quest'ultima - il problema per i nostri governanti evidentemente non si pone.


 

di Mariavittoria Orsolato

Anna Maria Tarantola è il nuovo presidente Rai. Lo ha deciso martedì sera il nuovo consiglio di amministrazione, confermando in pieno le indicazioni che il premier Monti - tenutario del Tesoro ad interim - aveva espresso ormai un mese fa. Non è stato però un voto semplice. Sebbene la votazione si sia chiusa con la maggioranza necessaria di 7 voti, il Pd ha registrato la pesante astensione del suo consigliere Antonio Verro - cha ha scelto di non votare in seno alle sue perplessità sull’ormai ex numero due di Bankitalia - e anche tra i pidiellini i malumori non sono mancati.

Le votazioni sulla nuova presidenza sono state infatti in forse fino all’ultimo, perché i consiglieri in quota Pdl avrebbero voluto votare contestualmente la nomina e un ordine del giorno sulla governance dell'azienda, cercando di limitare il conferimento di poteri speciali al nuovo presidente. Il Popolo della Libertà si era da tempo mostrato contrariato riguardo il progetto del premier Mario Monti di attribuire al nuovo presidente Rai una serie di deleghe operative - sia sulle spese, che su alcune decisioni tecniche e sulle nomine non giornalistiche - che lo trasformerebbero in qualcosa di più di un presidente, più simile a un amministratore delegato. Ma l'ordine del giorno presentato dal consigliere Antonio Pilati è giunto troppo tardi, secondo il parere dell'ufficio legale Rai, e non se n’è fatto nulla.

Secondo Alessio Butti, capogruppo del Pdl in Vigilanza, la colpa è da attribuire al Partito Democratico:  “Tutta la sinistra calpesta le prerogative del Parlamento, accettando di votare subito un'apprezzata signora della quale però non conosciamo né le competenze tecnico-televisive né l'opinione sui pieni poteri che Monti vorrebbe attribuirle. Vogliamo parlare delle deleghe o accettiamo tutto senza un minimo di confronto democratico e politico?”

A schierarsi con il Governo, in posizione sempre più prona, è invece il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “Il governo ha detto che vuole modificare deleghe e poteri e si fa così. Se il Pdl fa saltare il tavolo, il Governo trovi altre autorevoli soluzioni. Per quanto mi riguarda il commissariamento rimane sempre in piedi”.

Il problema, insomma, sono e restano le deleghe: quella sui contratti da 2,5 a 10 milioni, che sarebbero approvati dal presidente - su proposta del direttore generale - e quella sulla nomina dei dirigenti non editoriali di primo e secondo livello, ovvero la maggioranza, sempre in mano alla diarchia presidente-direttore generale; e c'è in Rai chi ipotizza una mediazione che lasci la nomina di una parte dei dirigenti, quelli di secondo livello, all'interno del Cda. La partita si sposta ora in Commissione parlamentare di Vigilanza, che oggi dovrà votare la "fiducia" alla Tarantola con almeno 27 voti sui 40 componenti.



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