di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso 8 gennaio, nel corso della trasmissione di Rai3 "Che tempo che fa", il presidente del Consiglio aveva annunciato che nel giro di "qualche settimana" dal governo sarebbero arrivate importanti novità sulla riforma della Rai. Aveva anche promesso che la sua “reggenza” sarebbe stata di segno radicalmente opposto rispetto a quella dell'esecutivo precedente ma, in termini di annunci strumentali e continue procrastinazioni, tra Monti e Berlusconi pare non esistano differenze così rilevanti.

A quasi 4 mesi dalla promessa del premier, infatti, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda ha chiaramente affermato che il prossimo consiglio di amministrazione della Rai sarà eletto con la legge Gasparri.

L’unico intervento annunciato è la nomina del rappresentante del ministero del Tesoro e l’indicazione del presidente sulla base del curriculum da pubblicare in rete, ma comunque dopo che la Vigilanza avrà indicato, si spera con gli stessi criteri, gli altri sette membri di nomina parlamentare. Più che altro un atto dovuto.

Il motivo ufficiale di questo manifesto dietrofront starebbe tutto nella tempistica: con il cda in scadenza la prossima settimana - il 4 e l'8 maggio si riunirà l'assemblea degli azionisti per approvare il bilancio e solo dopo questa operazione il presidente Zavoli darà il via libera per le consultazioni - “non era possibile intervenire con una modifica legislativa" ha candidamente affermato Giarda, rispondendo a un question time dell'Italia dei Valori alla Camera lo scorso giovedì. Ma, per quanto la riforma del sistema televisivo nazionale non sia certo il problema maggiore dell'Italia, questa dilatazione dei tempi denota un'impasse decisamente politica.

I sondaggi ricordano che il canone Rai resta la tassa più odiata dagli italiani, più dell’Imu, più delle accise sulla benzina, più del bollo auto e così, probabilmente con intento pilatesco, il governo tecnico riconsegna nelle mani del Parlamento la patata bollente della riforma dell’azienda pubblica, tanto attesa e tanto annunciata.

Visti i tempi procedurali, se ne riparlerà dopo il rinnovo dei vertici di viale Mazzini con lo spoil system dei partiti previsto dalla Gasparri, e cioè in autunno, a pochi mesi da quella che probabilmente sarà la campagna elettorale. Ed è difficile che, per quella scadenza, chi ha occupato l’azienda pubblica in tutti questi anni sarà disposto a fare un passo indietro in seno al fair play.

La palla - in questo caso avvelenata - torna quindi nel campo della politica dopo che sia il premier Monti che il ministro Passera, in questi mesi, avevano fatto intendere di voler intervenire anche drasticamente sulle regole di funzionamento dell’azienda. Ora, invece, prendono atto con realismo che non esistono le condizioni politiche - e ormai nemmeno i tempi - per intervenire in modo decisivo su quella lottizzazione che ammorba viale Mazzini dalla nascita. La Rai si conferma quindi la materia più resistente al cambiamento del nostro paese, più delle pensioni, più dell’articolo 18, più dell’Ici alla Chiesa, più della riduzione dei costi della politica.

La situazione dei conti rimane però seria: la Rai non è l’Alitalia ma potrebbe diventarla presto. Circa 350 milioni di euro di debiti pregressi e 200 milioni di possibili perdite fra le voci di spesa che non ritornano e la raccolta pubblicitaria della Sipra che segna un rosso del 17%. Le sedi estere chiudono i battenti e anche l'accordo siglato per trasferire il centro di produzione milanese nei locali del futuro Expo 2015 è saltato per questioni di costi. Il governo non sembra assolutamente disposto a sacrificare la risicata fiducia alle Camere per salvare il carrozzone di viale Mazzini e impone alla politica di assumersi le sue responsabilità, aggiungendo altre pagine all’agenda della trimurti Alfano-Bersani-Casini.

 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo Augusto Minzolini, cade anche l'ultimo baluardo del berlusconismo nell'informazione televisiva: Emilio Fede è stato rimosso dalla direzione del Tg4. Una notizia certamente inaspettata, anche per il diretto interessato che, nei commenti a caldo, non ha certo dato l'impressione che la fine dei rapporti con Mediaset - l'azienda che ha letteralmente servito per trent'anni - fosse consensuale.

Che il problema sia puramente anagrafico (il giornalista si avvicina agli 81), che la colpa sia della storiaccia di Ruby Rubacuori o del recentissimo scivolone sulla valigetta piena di soldi trasportata illegalmente in Svizzera, non ci è dato sapere.

Da Cologno Monzese tengono a precisare che la decisione di sostituire Fede con Giovanni Toti, già direttore responsabile di Studio Aperto, “si inserisce in una logica di rinnovamento editoriale della testata”, ma al povero Emilio tanto è bastato per gridare al complotto - puntualmente smentito poco dopo, B. docet - e fare il nome di Confalonieri, reo di aver preso decisioni mentre Berlusconi era alla partita del suo Milan.

Stando a quanto affermato dallo stesso Fede, l'idea di abbandonare il Tg4 era infatti già nell'aria, ma in autunno, a stagione televisiva conclusa, quando il buon Silvio lo avrebbe ricompensato con un posto sicuro alla Camera. “Con Berlusconi sono già d'accordo” avrebbe detto il giornalista, ma qualcosa evidentemente è andato storto. E a pesare potrebbe essere stato proprio lo scivolone svizzero.

Nelle indagini sui due milioni e mezzo che, alla fine dello scorso anno, Fede avrebbe cercato di depositare su un conto in un istituto di credito di Lugano, operazione respinta “per carenza di idonea documentazione”, la magistratura capitolina avrebbe ipotizzato il reato di riciclaggio ma gli accertamenti riguarderebbero anche una eventuale evasione fiscale e una tentata esportazione di capitali all'estero.

Al momento il fascicolo sarebbe ancora a carico di ignoti. La vicenda, segnalata dalla Guardia di Finanza - che tra l'altro ha appurato che l'auto su cui Fede era a bordo con un altro uomo per la trasferta oltreconfine è intestata a Mediaset - è stata definita dal giornalista una “colossale balla” e una “invenzione”.

Ma il fascicolo aperto dal Tribunale di Roma è solo l'ultima delle inchieste che vedono coinvolto Emilio Fede. L'ormai ex direttore del Tg4 è indagato a Milano in concorso in bancarotta per il fallimento della LM management nell'ambito dell'inchiesta per cui Mora è in carcere dal giugno dell'anno scorso: secondo l'accusa Fede avrebbe trattenuto per sé una parte dei 2.850.000 euro versati da Giuseppe Spinelli, manager di fiducia di Silvio Berlusconi, mentre era in corso la procedura di fallimento della società del talent scout, poi cancellata da un crac da 8.5 milioni.

Anche qui Fede ha sostenuto che si sarebbe trattato di un prestito restituito dallo stesso impresario dei vip. I nomi di Fede e Mora, assieme a quello della consigliere lombarda del Pdl Nicole Minetti,  spuntano poi nello spinoso affaire Ruby. In questo procedimento il giornalista è imputato per induzione e favoreggiamento della prostituzione delle ragazze maggiorenni e della allora minorenne Ruby, tutte ospiti ad Arcore durante i celeberrimi bunga parties. Il caso, per il quale anche l'ex premier è imputato ma in un processo separato, è in dibattimento e la prossima udienza è fissata per venerdì prossimo.

Posto che ora avrà sicuramente più tempo per dedicarsi ai problemi giudiziari e sentirsi conseguentemente più vicino al suo idolatrato padrone, nella giornata di ieri Emilio Fede è infine giunto ad accettare l'allontanamento dal tg che per 19 anni ha diretto e condotto.

Nel pomeriggio il giornalista si è deciso a firmare l'intesa sulle dimissioni e in serata, nell'edizione delle 19 del Tg4, ha preso ufficialmente commiato dai telespettatori. Un arrivederci più che un addio, dato che tra i benefit della buonuscita milionaria ci sarebbe la possibilità di continuare a condurre un programma di prima o seconda serata, di restare in azienda come consulente o di diventare - come ha spiegato lui stesso - direttore editoriale dell'informazione.

Alla direzione del Tg4 arriva così Giovanni Toti, una scelta "interna" su un giornalista che ha fatto tutta la sua carriera all'interno di Mediaset. Entrato a Palazzo dei Cigni nel 1996, da allora ha quasi sempre lavorato a Studio Aperto come redattore di cronaca, poi caposervizio e caporedattore del servizio politico e, nella prima direzione di Mario Giordano, ha firmato i programmi settimanali della testata “Lucignolo” e “Live”. Dal 2007 al 2009, come vicedirettore, ha ricoperto l'incarico di responsabile dei rapporti con i media della holding Mediaset e nell'ottobre del 2009 è tornato alla testata con la qualifica di condirettore e il 22 febbraio 2010 ha assunto la direzione del tg di Italia 1.

Rimasti orfani dei suoi memorabili “fuori onda” e della sua personalissima idea di verità giornalistica, ricordiamo Emilio con le parole che Aldo Grasso gli ha dedicato a mo' di epitaffio sulle colonne del Corriere: “Da quando è sbarcato alla corte del Biscione, non ha mai fatto mistero del suo tifo, della sua venerazione, della sua partigianeria. Anzi, se esiste qualcosa che va oltre la faziosità, ebbene quello è sempre stato il suo terreno d’elezione”. Ciao Emilio.

 

di Mariavittoria Orsolato

Non più di qualche mese fa lo vedevamo ancora impegnato a negare che la crisi avesse toccato i portafogli degli italiani. Ora invece, abbandonato Palazzo Chigi causa spread, anche Berlusconi dovrà ammettere che il depauperamento non è una tendenziosa invenzione della stampa bolscevica, creata ad hoc per remargli contro, ma una dura realtà da affrontare.

A parlargli chiaro sono stati i dati di bilancio del suo personalissimo impero televisivo che nel 2011 hanno infatti chiuso con “solo” 225 milioni di euro di profitti, vale a dire un clamoroso 36% in meno del 2010.

Ma i danni maggiori si sono registrati nell'ultimo trimestre dell'anno quando, probabilmente per effetto delle dimissioni da premier, la pubblicità sulle sue tv è andata a picco, con una performance molto peggiore rispetto a quella del resto del mercato, Rai e Sky comprese.

L'infausto evento non accadeva da anni e l'inversione di tendenza è stata repentina: fino al 30 settembre 2011, con il Cavaliere ancora saldo alla guida del governo, la raccolta di Cologno Monzese era sì in calo, ma solo del 2%, contro il - 4,6% dei rivali.

Tra ottobre e dicembre la musica però è decisamente cambiata: gli spot sui network di Arcore sono scesi dell'8,1%, mentre il resto del mercato è scivolato del 7%. La voce più preoccupante, dicono gli analisti, è il -11% di raccolta delle tre reti ammiraglie (Canale5, Italia1 e Rete4), compensato in minima parte dal discreto risultato dei nuovi canali digitali.

Il trend è continuato a gennaio e febbraio con la raccolta Mediaset in calo come quella di mercato, mentre le reti satellitari di Rupert Murdoch hanno guadagnato ancora quote, e anche l'agonizzante tv pubblica è riuscita a fare di meglio.

E nemmeno il bouquet digitale, cavallo sui si è puntato moltissimo a Cologno Monzese, è riuscito a riequilibrare i pessimi risultati del gruppo: 68 milioni di utili persi in 12 mesi, ai quali si aggiunge il periodo non proprio idilliaco di Telecinco in Spagna e il fallimento dell’investimento su Endemol, la casa produttrice del format televisivo Grande Fratello, in onda da 12 lunghissimi anni e ormai boccheggiante in termini di ascolti e conseguenti sponsor.

Alla luce di questi sconfortanti numeri il direttivo di Mediaset ha deliberato un taglio drastico dei dividendo, portandolo da 35 a 10 centesimi di euro per azione, e ha riservato ai soci azionisti solo 113 milioni di euro, molto meno dei 400 milioni di euro distribuiti lo scorso anno.

Un colpo di forbice che peserà moltissimo sul bilancio della azienda di Cologno e che ha già fatto danni in borsa: ieri, dopo l'annuncio del taglio ai dividendi, il titolo del Biscione ha avuto un crollo verticale e Mediaset è stata sospesa dalle contrattazioni per eccesso di ribasso.

A soffrire di questa congiuntura negativa saranno anche le tasche dello stesso Berlusconi che quest'anno vedrà rientrare solo 45 milioni di euro, contro i 150 che erano fruttati lo scorso anno, senza contare che anche Mondadori - altra costola dell'impero del cavaliere - nel 2012 non retribuirà i suoi azionisti.

L'innegabile fase recessiva nella quale si trova l'Italia ha certo condizionato il mercato pubblicitario ma in quella che pare essere la disfatta del Biscione giocano un ruolo decisivo anche gli ascolti, in forte calo soprattutto nei tre canali generalisti.

In poco più di tre anni Rete4, Canale5 e Italia1 hanno perso quasi il 10% in termini di copertura del pubblico televisivo - dal 38,6% del 2008 al 30% del 2011 - e a mettere un pezza al salasso di share non è certo bastato il bouquet digitale, fermo ad un modestissimo + 4,1% rispetto allo scorso anno.

Provando a mettersi ai ripari, Mediaset ha varato nella seconda metà del 2011 un piano di efficienza triennale e ha messo assieme una lista di tagli da 250 milioni di euro per ridurre gli attuali costi aziendali e di produzione. Probabili dunque licenziamenti, drastici ridimensionamenti dei budget per la produzione dei programmi e investimenti necessariamente più modesti.

La crisi così tanto esorcizzata da Berlusconi è arrivata dunque anche alle porte della potentissima Mediaset ed ora che a Palazzo Chigi e in Parlamento non ci si occupa più di televisioni e patrimoni personali, il cavaliere è costretto a fare i conti con la dura realtà e a immedesimarsi nei tanti  imprenditori che boccheggiano a causa delle congiunture negative dei mercati.

Forse il cavaliere disarcionato farà i conti anche con gli spettri dei suoi tanti errori politici che, lo ammetta o meno, hanno sicuramente contribuito ad accelerare la corsa dell'Italia verso il baratro finanziario. Se dunque il karma esiste, adesso è certamente su Cologno Monzese.

 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo nove anni di esilio forzoso, la maggiore dei fratelli Guzzanti ha fatto finalmente ritorno sul piccolo schermo e, al solito ha portato scompiglio. Un due tre stella, la nuova trasmissione di Sabina Guzzanti su La7, al suo esordio ha già fatto accapigliare il pubblico e il gotha della critica televisiva nostrana, offrendo un prodotto difficilmente etichettabile. Uno spettacolo a metà tra la satira che l’ha fatta amare al grande pubblico e il talk show d’approfondimento cui il suo impegno politico ha sempre mirato.

Per il suo Un due tre stella Sabina Guzzanti ha creato un microcosmo che rappresenta i teatri occupati come il Valle di Roma, un luogo dove si ascolta musica, comicità, satira, parodia e si protesta ragionando sui massimi sistemi dell'economia e del nostro destino politico. E lo ha fatto dimostrando in modo cristallino che la comicità non è necessariamente un guscio vuoto ma, se ben orchestrata, può diventare prezioso strumento di ricerca e comunicazione.

Certo, dopo nove anni di confino dalla tv Sabina si è tolta qualche sassolino dalla scarpa, ma chi pensava che senza la stampella di Berlusconi la Guzzanti non funziona dovrebbe ricredersi. La padrona di casa della trasmissione ha fatto un po' il riassunto della politica degli ultimi tempi e ci ha dato un esempio di come si possa ironizzare anche dopo Silvio. Sia nella caricatura a Mario Monti ritratto mentre fa il provino per dimostrare l'X-Factor, anzi il Quid Factor, del vero premier. Sia nel suo monologo d'apertura, condotto a pieni nudi, su un albero con quel tono un po’ beffardo di chi sa già che le pioveranno addosso le critiche più sgradevoli ma che comunque vale la pena provarsi lo stesso.

A sorreggere la parte satirica e più leggera della trasmissione, oltre a Sabina Guzzanti - con la parodia di Lucia Annunziata, che vorrebbe fare coppia con Gad Lerner per fare più share di Stanlio e Ollio, e di Barbara Palombelli, che giustifica l'ingenuità del marito Francesco Rutelli ignaro delle azioni del suo tesoriere Mario Lusi - ci sono la sorellina Caterina Guzzanti con una fantastica rappresentazione dei giovani di Casa Pound, gli attori della serie Romanzo Criminale nella spassosa parodia “La Banca della Magliana” e il causticisismo veterano Nino Frassica. Ci sono poi giovani e promettenti come il ventottenne Saverio Raimondo, uno stand up comedian emblema non solo delle numerose vicende di giovani attori italiani ma del più vasto e precario mercato del lavoro.

A dare forma alla parte più “impegnata” del programma ci sono invece ospiti del calibro di Micheal Moore, l’economista Andrea Fumagalli, Giulietto Chiesa, Ugo Mattei, Francesco Raparelli, l'assicuratrice Stefania e il responsabile dell'Economia del Pd Stefano Fassina. È qui che Sabina si gioca la carta del talk show e ci spiega un punto di vista: gli interessi degli Stati divergono da quelli dei mercati finanziari e la democrazia non va a  braccetto degli interessi dei grandi capitali. Il debito pubblico ci soffoca, dobbiamo pagarlo? Una discussione interessante e fondamentale nella poetica satirica di Sabina Guzzanti, ma decisamente impegnativa e ingombrante per chi dalla trasmissione si aspettava una semplice sequela di sketch e imitazioni.

Un due tre stella ha disorientato probabilmente per questo motivo. Sabina Guzzanti avrà certo commesso qualche errore nella conduzione - era la sua prima volta e bisogna dargliene atto - ma il format che è riuscita a mettere in piedi ha il raro pregio di aver provato a sperimentare, cosa che in Italia non si vede da tempo immemore. Scorporare dalla satira pura il contenuto politico e metterlo a disposizione degli spettatori un istante dopo, sotto forma di interviste e discussioni di approfondimento, è stato sicuramente coraggioso e oltremodo innovativo in una televisione che, pur di mantenere lo share, si fossilizza su formule trite al limite della gerontofilia.

Nei commenti a caldo si è potuto leggere di come Sabina fosse “barricadera catodica, dimentica degli obblighi da comicastra - far ridere, tanto ridere, o almeno abbastanza ridere - e fedele soltanto alla militanza nel PdN: il Partito della Noia” (Riccardo Bocca sui blog de l’Espresso); di come la Guzzanti “ha molti rospi da togliersi… procede tra noia e tristezza, tra comizietti e saccenterie… propaganda infida…” (il sommo Aldo Grasso sul Corriere); del fatto che “la Guzzanti fa meno ascolti di Paolo Brosio a Lourdes” ( l’autorevolisimo Libero).

E anche parte del pubblico che l’ha amata con addosso il cerone dei tanti volti sbeffeggiati ha male accolto questa estensione del suo personalissimo modo di fare satira. Evidentemente non ne hanno capito l’onestà e forse non l’hanno mai capita, perché è innegabile che la maggiore dei Guzzanti si offre al pubblico senza remore e che la menzogna non fa parte del suo vocabolario. Solo per questo motivo, rivederla sul piccolo schermo è stato un sollievo.

 

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Dal primo gennaio Rai Internazionale, il canale della tv pubblica pensato e prodotto per gli italiani all'estero, è diventato storia. Aveva appena compiuto diciott'anni - le trasmissioni dedicate erano cominciate nel 1993 - ma i tagli imposti dall'allora governo Berlusconi e sottoscritti dal CdA ne hanno decretato la chiusura formale: tutte le programmazioni dedicate sono state annullate da gennaio, i giornalisti e il personale ridistribuiti in altre testate, il segnale nel mondo mantenuto attivo ma solo per trasmettere quanto già visto in Italia.

Il Consiglio di Amministrazione Rai poi ha stabilito che i servizi informativi sinora svolti dalla direzione guidata da Daniele Renzoni fossero riassorbiti da una nuova testata in cui saranno conglobate Rainews24 e Televideo. Stando al presidente della FNSI Franco Siddi si tratta di un enorme disservizio, di uno svilimento della funzione di servizio pubblico. “Risparmi reali non ce ne sono - afferma in una nota - ma gli italiani nel mondo sono stati puniti, privati di una anche minima informazione circolare e di ritorno”.

Ma il problema potrebbe non riguardare solo i concittadini mirati verso migliori lidi. A saltare con Rai internazionale potrebbero infatti esserci anche alcune importanti sedi di corrispondenza giornalistica e così facendo si lascerebbero scoperte aree di interesse geopolitico come la Turchia o l'India - oggi più che mai sotto i riflettori dei media nostrani - così come Mosca o l'Africa. Il problema, al solito, sarebbero i costi: le sedi a rischio chiusura sono state giudicate “poco produttive” ai fini dell'informazione nazionale e con la chiusura della testata internazionale queste non avrebbero più ragion d'essere.

Se infatti pensiamo allo spazio che viene riservato alla pagina degli esteri nei tg Rai, la decisione di viale Mazzini pare anche essere sensata. Peccato che, almeno sulla carta, una tv di stato non possa esimersi dal coprire le notizie e gli eventi internazionali. Peccato anche che le sedi in questione costino complessivamente 928.500 euro l'anno, una cifra irrisoria se si pensa ai costi di produzione faraonici per trasmissioni quantomeno discutibili.

Nell'ottica costi/benefici tanto cara alla filosofia tecnica che il paese ha deciso di sposare, non è accettabile che la Rai scelga di rinunciare a una programmazione specifica per gli italiani all'estero cioè a uno degli spazi ancora residui di autentico servizio pubblico, penalizzando chi è lontano e poco può fare per protestare. E che lo faccia soprattutto in viziosa coerenza con una linea editoriale e politica che vuole abdicare, proprio nell'era della società globale, a una presenza internazionale forte e autorevole del nostro Paese.

Si chiude Rai Internazionale, si tagliano drasticamente le sedi di corrispondenza all'estero, si cancella Rai Med. La Rai diventa specchio di un paese che non solo ha perso peso e prestigio nei suoi rapporti con il resto del mondo, ma che anche rinuncia a risalire la china. Ma tant'è, evidentemente l'estero è un peso, un qualcosa di cui si può fare a meno.

La Rai lascia dunque un vuoto che, naturalmente, Mediaset è pronta a riempire. Quattro milioni di elettori italiani all'estero sono un bacino di cui il servizio pubblico si può dimenticare, ma non le televisioni di Berlusconi, che sentitamente ringraziano. Il biscione ha appena partorito “Mediaset Italia”, una nuova rete internazionale che sarà visibile, previo apposito abbonamento, nei bouquet di alcune tra le più importanti emittenti presenti nei cinque continenti.

Affidata all’ex affiliato alla P2 Massimo Donelli, “Mediaset Italia” trasmetterà in lingua italiana, via satellite e via cavo, il meglio del peggio della programmazione di Canale 5, Italia 1 e Rete 4, le edizioni principali dei telegiornali e ovviamente tutto il calcio italiano, bomba di appeal per l'italiano all'estero. Al momento le trasmissioni sono già visibili negli Stati Uniti, in America Latina e in Australia - le tre mete principali per gli emigranti italiani - ma la copertura dovrebbe comunque arrivare ad essere globale.

I costi dell'abbonamento alla nuova piattaforma targata Cologno Monzese non sono ancora stati pubblicati sul sito dedicato ma, a voler essere maliziosi, il nuovo posizionamento internazionale di Mediaset sembra l'ennesima gentile concessione di viale Mazzini. Si potrebbe obiettare che la Rai ha semplicemente lasciato il campo libero al migliore offerente ma considerando la condizione di duopolio televisivo presente nel nostro Paese, il dubbio rimane lecito.

 


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