di Mariavittoria Orsolato

Non è solo un problema di Rai-Set, anche a La7 i programmi chiudono: Ma anche no, il contenitore domenicale del terzo polo televisivo, verrà infatti sospeso la prossima domenica, dopo sole 7 puntate. Partito lo scorso 4 dicembre, il programma condotto dal giornalista Antonello Piroso - spodestato dalla direzione del tg La7 con l’arrivo del big Enrico Mentana - ha avuto all’esordio 355mila spettatori e uno share del 2%, non riuscendo purtroppo a fare di meglio nelle settimane successive e tanto è bastato perché il direttore Paolo Ruffini decidesse di chiudere baracca.

Forse il titolo era infelice - “Ma Anche No” è un’espressione che fa parte delle perle del linguaggio popolar-simonaventuriano che la tv ha diffuso tra il popolo affamato di rincoglionimento catodico - ma la chiusura di questo esperimento è un peccato perché il programma in sé non era male. Pensato come un’alternativa radical-chic ai salotti gerontofili di Canale5 e Rai1, lo show aveva l’ambizione di essere un appuntamento in cui informazione e intrattenimento non significassero per forza info-tainment all’italiana, uno spazio di tre ore in cui condensare ospiti, interviste, satira, sport e musica.

Sforzo decisamente ammirevole da parte degli autori ma evidentemente affidato a mani poco esperte. Come ha giustamente affermato Riccardo Bocca nel suo blog di Repubblica, “a fronte di una degna scaletta, e di una conduzione ineccepibile, c’è la solita difficoltà che Piroso incontra nel diventare leader carismatico; e la facilità, invece, con cui il suo tono e la sua postura sprofondano nella difettologia tipica dell’italiano medio: sempre lì, in bilico, tra l’autocompiacimento per il proprio status e la fatica dell’upgrading”. Troppo poco, o forse troppo naif, per gli esigenti spettatori di la7, ormai abituati ai vari Lerner e Formigli, che lo hanno snobbato in massa pur consci di avere a disposizione, negli uggiosi e noiosissimi pomeriggi domenicali, dei fuoriclasse come il giornalista Andrea Scanzi e il geniale team satirico di Maccio Capatonda.

Quest’ultimo intento a perculare - si, adesso “sbefferggiare” si traduce così nel gergo giornalistico - il sensazionalismo trash e la nota morbosità dei tg nostrani, ha decisamente regalato perle ai porci con Unreal Tg e il suo Neri Pupazzo (riuscitissimo clone del giornalista Mediaset Salvo Sottile) intento a snocciolare tautologie sui fattacci di cronaca nera. C’erano dunque evidenti margini di crescita e la base narrativa era decisamente buona, ma tant’è.

Di certo la chiusura anticipata di Ma anche no sembra essere un segnale abbastanza eloquente che qualcosa a La7 si sta muovendo: la conclusione della trasmissione, la prossima domenica, potrebbe infatti segnare anche la fine del rapporto tra il giornalista e La7, un rapporto che già da tempo ha cominciato a incrinarsi. Dopo essere stato costretto a lasciare la prima serata, che La7 era obbligata a fargli fare ma che nonostante gli annunci continuava a rimandare (sperando forse, secondo i rumors più malevoli, che lui arrivasse a rompere il contratto biennale da 840 mila euro l’anno, molto oneroso per la tv Telecom) Piroso si è trasferito alla domenica pomeriggio.

Ma anche lì i problemi non sono mancati: respinta al mittente l’iniziale richiesta di andare in onda dalle 17 alle 20 (per evitare lo scontro con i programmi già collaudati delle altre reti e con le partite di Sky), con un budget ridotto al minimo, nessuna promozione e l’indisponibilità di Piroso ad “abbassare” il livello degli ospiti, più da prima serata “impegnata” (da Giancarlo Caselli al generale Mario Mori, da Gino Paoli a Francesco De Gregori a Mauro Moretti di Trenitalia) che da pomeriggio nazionalpopolare, inevitabile che il giornalista sognasse migliori lidi.

E’ di qualche settimana fa, infatti, la voce secondo cui Piroso sarebbe pronto a fare i grande salto e tornare a Rai Due, stavolta come conduttore e non come semplice autore. Il sito Dagospia ipotizza addirittura che il giornalista comasco potrebbe occupare lo spazio che fu di Michele Santoro ma nessuna conferma ufficiale è arrivata e, anzi, la rete di Telecom Italia Media fa sapere che Ahi Piroso, l’altra trasmissione affidata all’ex direttore, andrà avanti fino all’estate.

Se però Piroso dovesse passare effettivamente a viale Mazzini, la sfida sarebbe ancor più dura, se non suicida. Se infatti l’ex direttore della testata giornalistica di La7 dovesse  approdare alla conduzione del nuovo talk-show del giovedì sera, si contenderebbe gli ascoltatori di Servizio Pubblico e di Piazza Pulita. Piroso punterebbe a ottenere il 7% di share, lontano dal 20% di Annozero, ma molto vicino ai dati che oggi ottengono Santoro e Formigli: un compromesso accettabile che migliorerebbe sicuramente i dai dati che oggi ottiene Rai 2 il giovedì, serata sottratta all’impietoso Auditel solo dalla Coppa Italia e ferma a un misero 2%. Se così fosse, se davvero la disputa si giocasse contro i due grandi ex di Annozero, allora il titolo del programma potrebbe essere Harakiri Piroso.

 

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso 5 gennaio in molti hanno ricordato con affetto e rimpianto il compleanno di Peppino Impastato, il giovane militante di sinistra brutalmente assassinato 34 anni fa. Con la sua Radio Aut - prima vera emittente libera antimafia - denunciò e mise alla berlina i boss di Cinisi e Terrasini, cominciando ad abbattere il muro di omertà che da sempre proteggeva i traffici e i crimini di Cosa Nostra. A continuare quella che fu la fondamentale opera di Peppino in Sicilia, da 13 anni a questa parte c'è Telejato, una piccolissima emittente di Partinico diretta da Pino Maniaci, assurta agli onori delle cronache proprio per le sue tenaci battaglie contro i boss del palermitano.

Ora questo straordinario esperimento di informazione - l'emittente consta di sole tre stanze e, nonostante il successo di pubblico e contenuti, i mezzi e le risorse sono a dir poco limitati - rischia di scomparire perché, in questo specifico caso, dove non poté la Mafia, forse riuscirà lo Stato.

Dal prossimo 30 giugno, infatti, anche la Sicilia dirà addio al sistema analogico per passare al digitale terrestre e Telejato, così come tutte le 250 tv comunitarie sparse in Italia, potrebbe essere costretta a chiudere i battenti perché impossibilitata ad acquistare le frequenze. La piccola tv, rilevata nel 1999 dall'allora imprenditore edile Maniaci, non gode infatti delle caratteristiche tecniche e normative per essere assimilata alle emittenti e, nonostante pochi coraggiosi imprenditori  abbiano deciso di investire in pubblicità sull'emittente, le difficoltà economiche non permettono un adeguamento agli standard imposti dalla Legge Gasparri.

Eppure la sua redazione - cui collabora tra l'altro Salvo Vitale, già conduttore con Impastato di Radio Aut - è qualcosa che ha del miracoloso nel panorama giornalistico italiano: con testardaggine e puntualità ha consentito di rappresentare al meglio le esigenze di un territorio tanto problematico attraverso il mezzo televisivo, riuscendo a richiamare l’attenzione sui temi caldi riguardanti Cosa Nostra e senza mai dimenticare di fare nomi e cognomi. Impresa non da poco se si tiene conto che la sede dell'emittente dista appena 50 kilometri da Corleone, capitale immaginifica di ogni malaffare organizzato.

Proprio perché accuratissimo nel circostanziare le sue invettive, Maniaci è di sicuro il più esposto e, nel caso in cui l'emittente dovesse chiudere, sono in molti a pensare - primo tra tutti il sindaco di San Giuseppe Jato, Giuseppe Siviglia - che Pino potrebbe facilmente diventare il Peppino Impastato del 2012. A farlo fuori, la mafia ci ha provato moltissime volte: gli hanno bucato le gomme, bruciato l’auto e, nel 2008, gli hanno rotto quattro costole, ma il giorno dopo era in tv, a leggere il suo tg dei record: due ore di nomi e cognomi e relative malefatte, a muso duro davanti alle telecamere, perché “se non mi volete vedere più, mi dovete ammazzare”.

Ma a mettere i bastoni tra le ruote di Telejato c'hanno pensato anche altri, alcuni con querele - in 13 anni di servizio ammontano ad oltre 300 - altri, come i “colleghi” giornalisti, accusando Maniaci di esercizio abusivo della professione: nonostante il 10 luglio 2008 fosse già stato assolto con formula piena in un altro processo per la stessa accusa perché il fatto non sussisteva, Pino è stato rinviato a giudizio il 30 marzo 2009 perché formalmente non iscritto all'Albo dei Giornalisti. Un'assurdità se si pensa al valore dell'informazione fatta dalla piccola emittente di Partinico: come ha affermato la figlia di Pino, Letizia Maniaci, anch'essa parte della redazione di volontari “gli spettatori segnalano i fatti prima a noi che ai Carabinieri”.

Dal prossimo 30 giugno dunque, le leggi dello Stato potrebbero riuscire nell'impresa di far tacere per sempre la piccola emittente di Partinico. Telejato, infatti, non avrà mai i fondi per comprare le frequenze tv del digitale terrestre se queste fossero messe in vendita a cifre milionarie. Né potrebbe concorrere con Rai e Mediaset se queste fossero regalate con il famoso beaty-contest, per ora scongiurato. Insomma, l’unica soluzione possibile sarebbe quella di tenere conto della specificità delle piccole televisioni locali; nel caso specifico, quello di una tv che da anni conduce una battaglia per la democrazia, la libertà e la legalità, come da sempre fa Telejato, è un imperativo per il governo quello di garantirne la sopravvivenza.

Troppo facile invocare sterilmente i vari Giuseppe Fava, Peppino Impastato, Mauro Rostagno e tutti i giornalisti morti nella loro sacrosanta battaglia contro Cosa Nostra. Il nuovo esecutivo tecnico ha di fronte a sé la grandissima opportunità di tagliare col passato e il presente recente, di ribaltare un trascorso fatto di conflitti d’interesse, di favoritismi e di un'informazione a rimorchio, o meglio “da riporto”, dei poteri forti. Intervenga dunque in questa direzione se, come affermato in più occasioni, la legalità e il merito sono i più alti valori che li muovono ad agire.

Sono anni che il baffuto Pino, pur riportando ferite sul campo, riesce a tenere a bada le cruente minacce dei mafiosi, tant'è che imperterrito continua a denunciare ed informare i cittadini, sul malcostume e l'illegalità diffusa nella valle dello Jato. Sarebbe davvero una bestemmia se a chiudergli la bocca per sempre fosse proprio quello Stato che da 13 anni serve fedelmente, facendo vera informazione sociale.

 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo due anni e mezzo di indegna guida del fu primo tg della tv di Stato, il direttorissimo Augusto Minzolini lascia su cortese richiesta della direzione generale gli studi di Saxa Rubra. La motivazione è il drastico calo di ascolti del Tg1, unito al naturale spoil-system che tocca la Rai ad ogni avvicendamento nell'esecutivo. A maggior ragione per colui che, come Emilio Fede, é stato il portavoce televisivo del cavaliere ormai (almeno in parte) disarcionato.

Il sito Dagospia, accreditano Minzolini come il nuovo direttore di Panorama in sostituzione coatta di Giorgio Mulè, che commesso il passo falso di attaccare la moglie di Bossi titolando un articolo del settimanale Mondadori “Lady B, imperatrice della Padania” e descrivendo la moglie del Senatur come “l'anima nera del movimento”. “Gestisce l'agenda del marito - si legge - stabilisce chi affiancargli, chi premiare.

E ora sta combattendo la lotta contro i maronian' ribelli e dissidenti che non le perdonano di trattare il partito come un bene di famiglia, da destinare al Trota”, vale a dire al figlio Renzo. Un sgarbo a quello che sulla carta non sarà più un alleato ma che in ogni caso Berlusconi si vuole imbonire in vista del dopo Monti, perchè si sa che Silvio senza Umberto non va da nessuna parte.

Dunque un ritorno all'ovile per lo spampanato del berlusconismo. Dopo aver difeso a spada tratta l'indifendibile del passato esecutivo, la giusta ricompensa per il paladino del cavaliere non può che essere la direzione del rotocalco di famiglia: una collocazione normale e naturale, un'isola felice in cui poter pontificare liberamente senza l'ansia di dover affossare ad ogni costo il servizio pubblico a favore dei tg Mediaset. Il danno d’immagine e conseguente credibilità per la prima testata Rai è stato indubbiamente consumato.

Come certifica anche l’ultima ricerca pubblicata dall’Osservatorio di Demos-Coop, secondo il quale la fiducia nel Tg1, presso il pubblico, oggi si ferma al 50,1%: ben 3,1 punti percentuali in meno di un anno fa e addirittura 18,9 rispetto al 2007, quando il notiziario della prima rete Rai, allora diretto da Gianni Riotta era considerato affidabile dal 69% degli intervistati.

Più o meno lo stesso livello del 2002: un crollo verticale insomma, che in meno di quattro anni ha trascinato nel baratro l'attendibilità di una redazione come quella di Saxa Rubra. Il Tg1 risulta meno credibile di entrambi i notiziari delle altre reti Rai (il Tg3 con il 62,1% è il più apprezzato tra i tre notiziari, mentre il Tg2 si attesta su un comunque risibile 51,5%) ed è stato superato anche dall’outsider Tg La7, cresciuto in maniera esponenziale nell’ultimo anno sotto la direzione di Enrico Mentana (più 5,9 punti dal 2010 e ben 17,4 dal 2007) Tallona il Tg1, il Tg5 quinto a quota 48,5. Il meno credibile dei notiziari nazionali è il Tg4 di Emilio Fede, fermo a 19,4 punti percentuali. Studio Aperto, ovviamente, non pervenuto.

A sostituire il direttorissimo e a sobbarcarsi i suddetti problemi arriverà Alberto Maccari, attuale direttore della Testata Giornalistica Regionale Rai. Una nomine che nelle intenzioni è “ad interim” fino al gennaio 2012 ed è motivata - sempre ufficialmente - dalla prossimità della pensione (manovra Monti permettendo) del sessantacinquenne giornalista umbro. Ufficiosamente invece manca il consenso in Cda: due dei consiglieri (Nino Rizzo Nervo per l'area Pd e Rodolfo de Laurentiis per l'Udc) hanno già affermato la loro contrarietà ad un incarico temporaneo e proprio per la mancanza di una maggioranza sicura in Consiglio in vista del voto di oggi, Garimberti ha deciso di far pesare sul tavolo Rai anche la sua stessa presenza a viale Mazzini.

 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo essere passati indenni attraverso gli scandali sessuali dell’Italia che conta e dopo essere riusciti a digerire gli spot sul signoraggio della premiatissima ditta Marra-Scilipoti-Tommasi, credevamo ormai di avere abbastanza pelo sullo stomaco per affrontare in modo pressoché maturo qualsiasi argomento anche lontanamente “pruriginoso”. A dimostrare che questo paese ha uno spirito inguaribilmente ottimista, è arrivata l’altro giorno la notizia secondo cui, nella giornata mondiale per la lotta all’HIV, in Rai sarebbe stata vietata la parola “preservativo”.

Certo, l’AIDS è un morbo che non tira più come nei magnifici anni ’90, in più di 20 anni di sensibilizzazione lo si è sviscerato a dovere e in tutte le sue sfaccettature; eppure alla tv di Stato se ne parla ancora in termini che definire “medievali” sarebbe un pallido eufemismo. La denuncia di questo gigantesco omissis è arrivata da Rosanna Iardino, la presidente del network italiano delle persone sieropositive che, dopo aver partecipato alla conferenza stampa in cui si presentavano le iniziative in merito della Radiotelevisione italiana, ha notato come si evitasse accuratamente di usare le espressioni “profilattico” o “ preservativo”.

A seguito della denuncia della Iardino, è saltata fuori una mail indirizzata ai conduttori e alle redazioni dei programmi coinvolti nell’iniziativa, che lasciava adito a ben pochi dubbi: «Carissimi, segnalo che nelle ultime ore il ministero ha ribadito che in nessun intervento deve essere nominato esplicitamente il profilattico; bisogna limitarsi al concetto generico di prevenzione nei comportamenti sessuali e alla necessità di sottoporsi al test Hiv in caso di potenziale rischio. Se potete, sottolineate questo concetto».

Il mittente di questa paradossale missiva - lo sanno ormai anche i muri che l’unico rimedio efficace contro la trasmissione del virus è indossare o far indossare il preservativo - altri non è che Laura De Pasquale, funzionaria della tv di Stato in rapida ascesa, nonché - come precisano dalle colonne del Corsera - fidanzata del “cameraman privato” del Cavaliere, Roberto Gasparotti. Alla sventurata l’ingrato incarico di dover imporre un compito difficilissimo per i comunicatori: parlare di HIV e delle sue problematiche senza mai far riferimento al simbolo di tutte le battaglie che da 25 anni a questa parte sono state combattute. Un po’ come parlare dello scontro di Trafalgar senza citare l’ammiraglio Nelson.

La direttiva comunque è arrivata e, secondo quanto si apprende da ambienti di Viale Mazzini, sarebbe frutto di un "errore di comunicazione": un'indicazione giunta dal ministero in azienda, girata alla De Pasquale e da quest'ultima inoltrata senza avvisare i responsabili. In una nota il portavoce di Balduzzi ha spiegato che il ministero "ha fatto presente che quest'anno la campagna di sensibilizzazione nella Giornata puntava sullo slogan Non abbassare la guardia, fai il test”, precisando con fare pilatesco che "ogni altra iniziativa è responsabilità dei dirigenti Rai".

Il solito scaricabarile dunque, in cui però si omette volutamente di dire che il neoministro della Sanità è un orgoglioso cattolico, un buon amico di Rosy Bindi, è il padre putativo dei Dico, nonchè componente fino all’insediamento nel governo, della Commissione dei diritti del Pd, ovvero quell’organismo (assolutamente evanescente, dati i risultati) che dovrebbe dirimere le divisioni interne sui temi etici. Difficile che con queste premesse si possa avere qualche dubbio su quella che in effetti è la linea del nuovo ministro in termini di prevenzione dell’AIDS, ovvero assoluta obbedienza ai dettami d’oltre Tevere.

Ma forse a urtare Balduzzi e la sbadata De Psquale è stata proprio quella parola, “presevativo”. In tal caso, ci permettiamo di suggerire alcuni sinonimi in uso tra la popolazione sessualmente attiva che forse potrebbero ovviare all’imbarazzo e far sì che l’anno prossimo la giornata mondiale contro l’HIV venga trattata con i termini più appropriati: palloncino, guanto, impermeabile per il vendicatore calvo, goldone, condom, cappuccetto, uomo invisibile, paracadute, rivestimento, copri asta, the Venus Glove, scacciapensieri, pigiamino, gommino, gommone, amico fritz, condor, gundam, anticoncertativo, ballon, terzo incomodo, acchiappagirini, calzino, muta per uccelli, acchiappa geyser. Grazie a Dio il nostro vocabolario è ancora ricchissimo.

di Mariavittoria Orsolato

Il fatto che oltre dodici milioni di italiani ogni lunedì si sintonizzino su Rai1 per guardarsi “il più grande spettacolo dopo il weekend”, di questi tempi è qualcosa di sociologicamente indicativo. Nelle tre puntate trasmesse finora è riuscito a non scendere sotto la soglia del 40% di share, con numeri da plebiscito che rallegrano i dirigenti Rai e sembrano dare un attimo di respiro ai conti del servizio pubblico: si parla di introiti pubblicitari prossimi a un milione e mezzo di euro a puntata, e di questi un terzo rappresenta il valore aggiunto legato al solo Fiorello.

Probabilmente a causa dell’indigestione di nani e ballerine, il ritorno di Rosario Fiorello a viale Mazzini ha catalizzato l’attenzione di un pubblico ormai sfinito dalla realtà urlata della millesima edizione del Grande Fratello, ed evidentemente voglioso di essere accompagnato nella gradevolezza della finzione. Perché il programma dell’ex codino più famoso d’Italia - Roberto Baggio non ce ne voglia - altro non è che una rivisitazione nemmeno troppo corretta del fu glorioso varietà Rai:  uno spettacolo nazionalpopolare che al suo istrione alterna ospiti di spicco, momenti canori e comicità decisamente politically correct. Fiorello, ormai unico nello sterminato panorama televisivo italiano, riesce a giostrare con maestria un colossale amarcord e regala agli spettatori uno sguardo nostalgico ai tempi che oggi sono universalmente riconosciuti come più austeri, costumati e ovviamente più felici.

Il volto rassicurante dello showman siciliano, unito alla garbata prevedibilità di un format che definire “tradizionale” è un eufemismo, sta di certo alla base del successo strepitoso di “ilpiùgrandespettacolodopoilweekend”. In più di due ore di diretta tutto fila come dovrebbe, non ci sono momenti critici - nel senso che non ci sono né sorprese, né occasioni di riflessione - tutto è immediato, tutto è emozione, tutto è puro e semplice intrattenimento. Senza pretese ma con qualche indubbio filtro. Primo tra tutti quello dello stesso Fiorello, che riduce gli ospiti a semplici spalle e che nel suo timido tentativo di fare quella satira ormai scomparsa dalla Rai, viaggia col freno a mano tirato.

Di questo se ne sono accorti in molti, a cominciare da Sabina Guzzanti che su Twitter - social network neo eletto luogo deputato alle diatribe tra VIP - ha definito lo show “noioso” beccandosi per tutta risposta un “rosicona” dal diretto interessato, che ha talmente preso sul serio l’incidenza popolare di Twitter da titolare il suo titolo con un hashtag. Attacchi sono arrivati anche dallo scrittore Fulvio Abbate che ne ha criticato il tasso di correttezza politica, troppo vicino al neutro, definendolo “San Fiorello da Valtur” e accusandolo di scimmiottare un “Bagaglino dal volto umano”.

Dall’altra parte, quella degli entusiasti dirigenti Rai, Lei in primis, si sottolinea la superlativa professionalità di Fiorello. Uno showman in grado di attirare sia quello che potremmo definire un pubblico “colto e raffinato” che la più vasta platea “nazionalpopolare” proprio in virtù della sua maestria di intrattenitore, di personaggio completo che agilmente alterna qualità canore e comiche riuscendo a dialogare col pubblico con toni brillanti.. Un Walter chiari del 21° secolo, come lo ha definito il mentore Maurizio Costanzo, che possiede il taumaturgico potere di donare spensieratezza e allontanare - seppur per poco - la problematicità che invade il vivere odierno.

Così non si può far altro se non pensare che l’Italia di Fiorello assomigli fin troppo all’Italia di questa “nuova era” Monti: un’Italia vecchia, docile e assolutamente immobile. Professionale, certo, impeccabile nel suo ruolo, ma inevitabilmente stantia. Dove ai giovani non resta che imitare i vecchi e sperare che, come in quello studio, il passato possa rivivere. Dove le lungaggini diventano atmosfera, la noia concentrazione e le banalità si trasformano in memoria storica. E la crisi, per qualche ora, non si sente più.

 


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