Le manovre del presidente francese Macron per mettere in piedi un governo in grado di mandare in porto la legge di bilancio per il prossimo anno sembrano avere ottenuto qualche risultato temporaneo, riuscendo a convincere il Partito Socialista (PS) a non votare le mozioni di sfiducia contro il premier in pectore, Sébastien Lecornu, programmate giovedì all’Assemblea Nazionale. Il fedelissimo del presidente, evidentemente dietro istruzioni dell’Eliseo, ha infatti promesso di sospendere fino al 2028 l’applicazione dell’ultra-impopolare “riforma” delle pensioni del 2023, così da soddisfare appunto la richiesta minima dei socialisti per aprire una trattativa e cercare di superare la gravissima crisi che sta attraversando la politica transalpina.

Dopo la clamorosa sfiducia incassata da François Bayrou a inizio settembre e il ritiro del primo gabinetto Lecornu ad una manciata di ore dalla sua nomina, l’ex ministro della Difesa aveva riottenuto un secondo mandato da Macron per esplorare la possibilità di raccogliere maggiori consensi in parlamento. Con qualche inevitabile modifica al testo precedente, Lecornu si è presentato martedì in aula ridimensionando gli obiettivi di bilancio per il 2026. Mentre il suo predecessore puntava a portare il deficit dal 5,4% al 4,6% del PIL, con uno sforzo finanziario di 44 miliardi di euro, Lecornu ha affermato di puntare al 4,7% o comunque a una quota al di sotto del 5%. Senza interventi significativi, l’Europa ipotizza un passivo in rapporto al PIL francese per il prossimo anno del 5,7%, ben al di sopra del limite teoricamente fissato dall’UE.

Dopo la sbornia mediatica della giornata di lunedì, seguita al grottesco intervento di Trump al parlamento israeliano e alla firma a Sharm El-Sheikh del “piano di pace” per mettere fine al genocidio palestinese, la tenuta della fragile tregua in atto a Gaza resta minacciata da una lunga serie di incognite, quasi nessuna delle quali affrontata dal documento partorito dal presidente americano e dal primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Quello che è andato in scena in Egitto, alla presenza anche di svariati leader europei, è un tentativo di cancellare del tutto la realtà del genocidio e le responsabilità israeliane, occidentali e dei regimi arabi sunniti, proponendo un’immagine semplicemente assurda della “comunità internazionale” come forza di pace.

La risposta cinese alle ultime decisioni dell’amministrazione Trump sulle restrizioni all’export di microchip con tecnologia statunitense sembra segnare un punto di svolta nella “guerra commerciale” in corso, con gravi incognite e possibili destabilizzazioni permanenti delle catene di approvvigionamento globali. Pechino, mandando un chiaro messaggio circa la propria pazienza in esaurimento, ha imposto un drastico giro di vite sulle esportazioni di terre rare, batterie e altri componenti cruciali per molti settori industriali, soprattutto per quello militare americano. Il presidente repubblicano ha risposto con la minaccia di alzare di un altro 100% i dazi applicati alle merci cinese in entrata, ma la capacità di Washington di influenzare le decisioni della Repubblica Popolare restano limitate, così come le capacità di adattamento nel breve e medio periodo alle inevitabili ritorsioni di quest’ultimo paese.

Per quanto gli accordi firmati siano al centro di negoziati che dureranno ancora qualche giorno, il primo, fondamentale passo di quella che è soprattutto un accordo per il cessate il fuoco israeliano su Gaza, ha avuto inizio. E anche se il ritorno dei gazawi in quel che resta della loro città prosegue, gli accordi restano privi di prospettiva storica e di credibilità politica: rimangono il risultato di un negoziato che ha messo fine al bombardamento ed all’esilio forzato dei palestinesi dalla loro terra, ma scambiarli per un progetto di pacificazione sarebbe un errore madornale.

Il principale problema è quello del rilascio di alcuni prigionieri palestinesi che Israele non vuole liberare. Tra questi, il più importante è Marwan Barghouti, detto “il Mandela palestinese”, la figura di maggiore spicco all’interno di Fatah e l’unico che potrebbe riunificare politicamente i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Israele lo tiene imprigionato da oltre 20 anni e gli ha comminato 5 ergastoli. Motivo? Avrebbe coordinato attacchi durante la seconda Intifada. Lui si è detto incolpevole ma non ha riconosciuto la legittimità del tribunale israeliano a giudicarlo.

L’accordo sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas annunciato giovedì è soltanto un primo e fragilissimo passo verso la fine del genocidio che il regime sionista sta conducendo nella striscia di Gaza da due anni a questa parte. Già la tenuta di questa prima fase preliminare è altamente incerta, vista la totale libertà d’azione garantita a Netanyahu, ma i veri problemi inizieranno dopo l’avvenuto scambio di prigionieri e l’eventuale implementazione delle altre condizioni previste nei prossimi giorni. Quello scritto nella proposta presentata da Trump il 29 settembre scorso, se non dovessero esserci modifiche in seguito a ulteriori trattative, assicura infatti solo due esiti: la ripresa dell’aggressione israeliana o la sconfitta storica della resistenza palestinese e la fine delle aspirazioni alla creazione di un’entità statale pienamente sovrana.


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