Nel secondo giorno della sua trasferta mediorientale, il presidente americano Trump ha incontrato a sorpresa in Arabia Saudita il presidente di fatto della Siria, Ahmad al-Sharaa, dopo che martedì aveva annunciato la sospensione delle pesantissime sanzioni economiche che gravano da anni su Damasco. Il vertice con il leader “riabilitato” della filiale siriana di al-Qaeda (HTS) è stato uno spettacolo degradante ma adeguato agli eventi che stanno infiammando la regione, con gli Stati Uniti totalmente a fianco delle forze terroristiche, a cominciare dallo stato ebraico, per schiantare l’Asse della Resistenza, dalla Palestina all’Iran. La visita di Trump sta confermando d’altra parte le priorità assolute di Washington, vale a dire gli affari e il riassetto degli equilibri strategici in Medio Oriente a proprio favore, lasciando solo poco più di frasi di circostanza per il genocidio in corso a Gaza.

Ormai siamo abituati ad ogni apparizione pubblica di Donald Trump, abbastanza almeno da sapere che ogni suo discorso comincerà con una promessa e terminerà con una minaccia. Va detto che i bersagli li trova tanto tra i suoi nemici (e sono molti, anche insospettabili) come tra i suoi alleati (ammesso che ne abbia) e, ad essere precisi, va detto anche che dimostra una capacità camaleontica e che non ha nessun imbarazzo nello smentirsi, affermando ogni volta il contrario di quella precedente.

Le elezioni di metà mandato nelle Filippine hanno insolitamente focalizzato l’interesse di stampa e osservatori internazionali per via di implicazioni esplosive in materia di politica estera, soprattutto in relazione allo scontro tra Cina e Stati Uniti in Asia orientale. Il voto di lunedì prevedeva il rinnovo di tutte le amministrazioni locali, della camera bassa del parlamento di Manila e della metà dei seggi del Senato. Per molti, la consultazione rappresentava una sorta di referendum sulla scelta tra i due più importanti clan politici del paese-arcipelago – Marcos e Duterte – a loro volta riconducibili a orientamenti favorevoli rispettivamente a Washington e a Pechino.

Il fronte filo-sionista e i media ufficiali in Occidente sono in pieno fermento da alcuni giorni per la possibile clamorosa rottura che si starebbe consumando tra il presidente americano Trump e il governo di ultra-destra israeliano del primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Il rilascio nella giornata di lunedì da parte di Hamas del prigioniero con cittadinanza americana, Edan Alexander, è arrivato infatti al termine di una trattativa diretta tra gli Stati Uniti e il movimento di liberazione palestinese che governa Gaza. La vicenda avrebbe creato seri problemi a Tel Aviv, visto anche che si aggiunge ad altri recenti sviluppi che hanno visto la Casa Bianca agire sulle questioni mediorientali senza consultare il principale alleato americano nella regione. Se di vera rottura si può parlare lo si vedrà a breve, quando le diverse direzioni presumibilmente prese da USA e Israele potrebbero portare a uno scontro aperto, spingendo Trump a decidere per quali interessi la sua amministrazione è realmente intenzionata ad adoperarsi.

Un giudice federale americano è dovuto intervenire nuovamente questa settimana per imporre all’amministrazione Trump il rispetto di un ordine che aveva già emesso nel mese di aprile al fine di fermare le deportazioni illegali di immigrati negli Stati Uniti verso paesi autoritari o in stato di guerra. L’ingiunzione è solo l’ultima in ordine di tempo delle numerose arrivate nei giorni scorsi. Svariati tribunali del paese hanno preso di mira quelli che appaiono a tutti gli effetti come rapimenti da parte delle forze di polizia, seguiti dal confinamento in veri e propri lager e dall’espulsione senza il minimo rispetto delle procedure legali e dei diritti costituzionali.

Il giudice distrettuale Brian Murphy del tribunale di Boston ha risposto a un’istanza di urgenza dei legali di immigrati di origine laotiana, filippina e vietnamita, che stavano per essere imbarcati su un volo governativo diretto in Libia. Un altro potenziale paese di destinazione dei migranti da espellere era l’Arabia Saudita. Gli avvocati e le organizzazioni umanitarie che hanno partecipato alla causa ritenevano che il governo del presidente Trump fosse sul punto di trasgredire all’ordine precedente dello stesso Murphy che imponeva, prima di eseguire le deportazioni, una notifica scritta da recapitare ai destinatari del provvedimento e l’opportunità per questi ultimi di ricorrere davanti a un giudice.


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