Nonostante le minacciose dichiarazioni di Trump e Netanyahu dei giorni scorsi, la tregua nella striscia di Gaza sembra potere resistere, almeno per il momento, dopo che giovedì Hamas ha confermato che procederà con la liberazione concordata di altri tre prigionieri israeliani entro la giornata di sabato. La minaccia dello stop all’implementazione delle condizioni previste dal cessate il fuoco era legata alle ripetute violazioni da parte di Israele, ma anche al piano delirante del presidente americano per trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” sotto il controllo USA. Se confermato, il momentaneo passo indietro di Washington e Tel Aviv, alla base della decisione di Hamas di sbloccare la liberazione dei prigionieri, è probabilmente dovuto proprio al disastroso impatto di quest’ultimo progetto criminale, che, tra l’altro, rischierebbe seriamente di destabilizzare vari paesi arabi alleati di Washington.

Con l’arrivo di Trump alla casa Bianca un cambio di rotta ci si aspettava e un cambio di rotta è arrivato. I paesi europei che si sono fatti trascinare con entusiasmo russofobico nella crociata anti-russa hanno ricevuto conferme precise ai loro peggiori timori nella vicenda ucraina. In una telefonata intercorsa tra i due presidenti di Usa e Russia, si è aperto il negoziato tra Casa Bianca e Cremlino e si sono ipotizzati colloqui diretti e reciproci viaggi nei rispettivi paesi quale segno della ripresa di un rapporto positivo, come dimostra lo scambio di prigionieri avvenuto in assoluta rapidità. Dunque la road map negoziale sull’Ucraina è iniziata e dalle prime indiscrezioni, peraltro confermate quasi apertamente da Washington, sembra che le richieste di Putin per porre fine all’operazione militare speciale russa possano essere accettate nella sostanza.

La tregua a Gaza sembra essere ormai sull’orlo del collasso. Hamas ha annunciato la sospensione della liberazione dei prossimi ostaggi, un passo che compromette seriamente l'implementazione degli accordi di cessate il fuoco. Questa decisione è motivata dalle reiterate violazioni dell’accordo da parte di Israele, che continua a condurre operazioni militari e bloccare l’ingresso di forniture essenziali. Tra le infrazioni documentate, si segnalano l’uso quotidiano di droni da ricognizione, l’uccisione di decine di civili e ostacoli sistematici all’ingresso di materiali di soccorso, inclusi medicinali e attrezzature per la rimozione delle macerie. A peggiorare la situazione, Israele continua a ritardare il ritorno dei palestinesi sfollati nel nord della striscia, violando uno degli impegni centrali della tregua.

Questa escalation arriva dopo l’ennesima dimostrazione di arroganza politica da parte degli Stati Uniti. Durante un’intervista, Donald Trump ha ribadito il suo progetto di spopolare Gaza e trasformarla in una sorta di proprietà personale, descrivendola come "un’opportunità immobiliare per il futuro". Le dichiarazioni dell'ex presidente delineano un piano criminale di pulizia etnica, che include il trasferimento permanente dei palestinesi verso paesi terzi come Giordania ed Egitto, minacciando sanzioni contro chiunque non collabori.

La sigla non lasciava dubbi, USAID è sempre stata sinonimo di aiuti umanitari statunitensi. Ma, come denunciato da decenni, la bugia cominciava proprio dalla sigla e si estendeva a opere e uomini della struttura USA, nata nel 1961, durante il governo John F. Kennedy nel bel mezzo della Guerra Fredda, e il cui compito era quello di contenere l’influenza sovietica nel mondo.

A Teheran si potrà anche continuare ad urlare “Morte all’America”, ma lo slogan dei fondamentalisti iraniani non cambia la realtà: gli Stati Uniti, nonostante la crisi, continuano a imporre la loro influenza globale. Con Trump di nuovo alla Casa Bianca, l'Iran deve scegliere tra resistenza e compromesso.

Le prime dichiarazioni del nuovo mandatario, rivolte a paesi come Canada, Messico, Danimarca e Panama, dimostrano che Washington si vede obbligata a un’espansione continua per mantenere il proprio dominio. Lo slogan "Make America Great Again" non è altro che un’ammissione del declino americano e l’illusione di poterlo invertire con nuove strategie di controllo e subordinazione degli alleati.


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