Mentre il premier israeliano Netanyahu atterrava a Washington per incontrare i complici del genocidio, nella capitale cinese è stato annunciato un accordo potenzialmente decisivo tra le varie fazioni che rappresentano la popolazione palestinese. A mediarlo è stato il governo di Pechino, confermando il ruolo sempre più importante della Repubblica Popolare nello sforzo di stabilizzare la regione mediorientale. Nel concreto, l’evento andato in scena in Cina difficilmente produrrà risultati nel breve periodo, ma rappresenta senza dubbio l’emergere di una nuova piattaforma unitaria attorno alla quale i movimenti palestinesi – tradizionalmente attraversati da profonde divisioni – potranno coordinare una strategia contro l’occupazione, alternativa a quella senza prospettive offerta dall’Occidente e dai regimi arabi.

L’attacco israeliano contro il porto yemenita di Hodeidah nel fine settimana rischia di infiammare ancora di più il Medio Oriente e di imbrigliare definitivamente il regime sionista e il suo principale sponsor – il governo americano – in un pericoloso conflitto su vasta scala. Il bombardamento ha preso di mira strutture civili e commerciali, senza causare nessun danno dal punto di vista militare al governo guidato dal movimento Ansarallah (“Houthis”). L’iniziativa di Israele era stata decisa come ritorsione contro il clamoroso blitz portato a termine venerdì da un drone yemenita sulla capitale, Tel Aviv.

Il ritiro dalla corsa alla rielezione di Joe Biden è stato presentato come una decisione autonoma del presidente democratico una volta preso atto delle limitazioni dovute alle sue condizioni fisico-mentali e del clima sempre più sfavorevole all’interno del suo partito. In realtà, la rinuncia alla nomination è l’inevitabile risultato di un feroce scontro tra le varie fazioni del Partito Democratico e dell’apparato della “sicurezza nazionale” americano, esploso più o meno apertamente dopo il disastroso dibattito presidenziale dello scorso 27 giugno.

Chi sarà a rimpiazzare Biden alla guida del ticket democratico non è ancora del tutto certo. La vice-presidente, Kamala Harris, sembra la logica favorita e ha subito incassato l’appoggio ufficiale del suo superiore. Ci sono tuttavia alcune procedure previste dal partito che non consentono un semplice passaggio di consegne tramite una sorta di investitura presidenziale. In teoria, dovrebbero essere i delegati alla convention – prevista a Chicago dal 19 al 22 agosto – a decidere il nuovo candidato alla Casa Bianca, ma se anche la forma dovesse essere rispettata, i vertici democratici faranno di tutto per sottrarre il processo di selezione agli elettori e ai loro rappresentanti scelti durante le primarie.

Managua. Quando si parla di Nicaragua spesso ciò che appare va interpretato. In questo caso il 45 compleanno non è solo una data, perché questi 45 anni sono la durata intera dell’epopea del Sandinismo. Il suo battesimo ebbe luogo il 19 Luglio del 1979, quando sui tetti e davanti dell’antica cattedrale (e non al suo interno) si celebrò il rito purificatore di un Paese che, con una dittatura criminale ormai fuggita e i guerriglieri che si facevano governo, si lasciava alle spalle l’era più buia, si liberava dei suoi stracci e indossava il vestito della festa.

Il potente senatore democratico del New Jersey, Robert Menendez, è stato giudicato colpevole martedì in un clamoroso processo che lo vedeva alla sbarra per corruzione e altri gravissimi reati collegati al suo incarico di (ex) presidente della commissione Esteri della camera alta del Congresso degli Stati Uniti. Di origine cubana e tra i “falchi” più convinti sui temi di politica estera nel suo partito, Menendez aveva in sostanza offerto i propri servizi a ricchi imprenditori e governi stranieri in cambio di denaro e svariati altri “benefit”. Per lui, la sentenza che stabilirà la pena arriverà nel corso di un’udienza fissata per la fine di ottobre, a pochi giorni dalle elezioni a cui sembra intenzionato a candidarsi da indipendente dopo essere stato scaricato dai vertici del Partito Democratico.


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