La sconfitta senza precedenti incassata da Erdogan nel fine settimana è lo specchio della crisi politica ed economica che sta attraversando la Turchia e il suo governo in un contesto regionale e internazionale sempre più instabile. Nel voto amministrativo di domenica, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente è finito dietro all’opposizione kemalista del Partito Popolare Repubblicano (CHP) per la prima volta in termini di consensi su base nazionale. Il sostegno di fatto al genocidio israeliano, nonostante le feroci critiche di facciata rivolte a Netanyahu, e l’impennata dell’inflazione e dei tassi interesse, seguita all’imposizione di politiche economiche “ortodosse” dopo le elezioni presidenziali e legislative dello scorso anno, si sono tradotte in un sensibile aumento dell’astensionismo e nell’abbandono dell’AKP di ampie fasce dell’elettorato, talvolta anche nelle tradizionali roccaforti del partito.

Il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco segna, assieme ad alcuni altri drammatici eventi degli ultimi giorni, il superamento di un ulteriore limite da parte di Israele in una guerra di aggressione che ha ormai assunto i contorni di un genocidio in piena regola contro i palestinesi e di una campagna terroristica nei confronti dei paesi vicini, nonché delle organizzazioni internazionali e dei singoli operatori umanitari sul campo nella striscia di Gaza. Le provocazioni e il livello di criminalità di Netanyahu e del suo governo sembrano aumentare in parallelo alla presa d’atto del fallimento strategico delle operazioni militari contro la resistenza palestinese, probabilmente nel tentativo di allargare il conflitto al Libano e alla Repubblica Islamica, creando cioè uno scenario nel quale gli Stati Uniti sarebbero di fatto costretti a intervenire a fianco dell’alleato.

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica, illegittimità giuridica e incapacità politica facile da descrivere.

L’unico aspetto positivo dell’opinione espressa martedì dall’Alta Corte britannica sull’estradizione di Julian Assange è che il fondatore di WikiLeaks non verrà consegnato nelle prossime ore alla “giustizia” americana. La decisione presa dai due giudici del tribunale di Londra segna infatti una nuova tappa della persecuzione contro il 52enne giornalista australiano. Ai suoi legali è stata cioè formalmente riconosciuta la possibilità di appellarsi alla sentenza di estradizione negli Stati Uniti, ma questo diritto potrà essere negato nelle prossime settimane semplicemente se il governo di Washington presenterà alla corte alcune semplici garanzie sul rispetto dei diritti di Assange, senza nessuna possibilità di avere la certezza che verranno rispettate. Inoltre, l’Alta Corte ha ristretto drasticamente le basi sulle quali potrà teoricamente appoggiarsi il ricorso contro l’ordine di estradizione, escludendo le prove più recenti contro gli USA e la questione fondamentale della natura politica del caso Assange.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della comunità internazionale, soprattutto dopo la rabbiosa risposta di Tel Aviv agli eventi registrati al Palazzo di Vetro.


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