Il fronte diplomatico che vede al centro dell’interesse la Repubblica Islamica continua a essere caratterizzato da un certo fermento a poche settimane dal cambio della guardia alla Casa Bianca che potrebbe far precipitare nuovamente le relazioni tra Teheran e l’Occidente. Le vicende si intrecciano al conflitto in corso a Gaza e in Libano, con gli Stati Uniti e l’Europa che cercano di indebolire la posizione dell’Iran in Medio Oriente, possibilmente senza fare esplodere un conflitto su vasta scala. In questo quadro, il recente voto di condanna in sede AIEA e la risposta del governo iraniano sono solo gli ultimi sviluppi di una trama che, in attesa di Trump, sembra essere ancora tutta da scrivere.

Lo scorso fine settimana, la Repubblica Islamica ha fatto sapere di avere attivato centrifughe di nuova generazione per l’arricchimento dell’uranio presso i propri siti nucleari civili. La decisione è stata presa subito dopo il via libera alla mozione contro l’Iran da parte del “Consiglio dei Governatori” dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, motivata ufficialmente dalla insufficiente trasparenza delle attività nucleari di questo paese. Il voto aveva seguito l’incontro a Teheran tra il direttore generale dell’agenzia, Raphael Grossi, e il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi. Quest’ultimo aveva chiarito senza ambiguità che una risoluzione di condanna all’AIEA avrebbe costretto il suo governo a prendere provvedimenti, come è poi puntualmente accaduto.

I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali nella giornata di domenica in Romania hanno mandato letteralmente in corto circuito politici, stampa e commentatori indigeni e occidentali, tutti colti di sorpresa dal primo posto ottenuto dal candidato indipendente di estrema destra, Calin Georgescu. Già frequentatore ai margini della politica romena, quest’ultimo ha smentito completamente le previsioni della vigilia e i primi exit poll, accedendo comodamente al secondo turno di ballottaggio grazie a una serie di fattori, tra cui la decisione di impostare la sua campagna elettorale sulla denuncia delle politiche guerrafondaie e ultra-liberiste dettate da Bruxelles e sull’apertura alla possibile normalizzazione dei rapporti con la Russia.

L’autorizzazione di Biden all’utilizzo dei missili statunitensi a medio raggio, capaci di colpire il territorio della federazione russa, è apparsa come un tentativo di ipotecare pesantemente l’iniziativa politica della nuova amministrazione Trump attraverso l’innalzamento a livello globale della guerra tra Russia e Ucraina. L’escalation pone l’Ucraina di fronte ad uno scenario militare inevitabilmente più duro di quanto già non lo fosse, perché è ovvio che i russi, di fronte ad altri attacchi con ATACMS statunitensi o Storm Shadow inglesi, reagiranno. Nel caso poi i missili USA dovessero colpire la popolazione civile, c’è da attendersi che stessa sorte toccherà all’Ucraina e potrebbe coinvolgere persino gli stessi paesi NATO. Dunque, i riflessi possibili di un ordine impartito da un ormai ex presidente, vista l’indisponibilità russa a rinunciare alla propria sicurezza, rischiano di estendersi a livello globale.

La decisione di giovedì della Corte Penale Internazionale (CPI) di emettere un mandato di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant rappresenta in larga misura un atto simbolico che mette però ancora una volta in luce, in maniera clamorosa, responsabilità e complicità dei sostenitori dello stato ebraico nel genocidio in corso. Il premier e l’ex ministro della Difesa israeliani, responsabili diretti delle atrocità contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, sono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, per i quali le prove sono colossali e sotto gli occhi di tutto il mondo. Al di là della gravità delle accuse e dei crimini, la reale portata di questa decisione appare quasi nulla: Israele e il suo primo ministro, così come tutti gli altri responsabili dell’orrore, continueranno infatti a godere della protezione diplomatica degli stati Uniti e degli altri governi occidentali, a conferma del fatto che la giustizia internazionale resta altamente selettiva, debole e, in molti casi, funzionale ai calcoli geopolitici delle grandi potenze.

L’inviato speciale di Washington per il Libano, Amos Hochstein, è arrivato mercoledì in Israele per tirare le somme con il primo ministro Netanyahu delle trattative in corso su una possibile tregua sul fronte settentrionale. Gli Stati Uniti e i principali esponenti dello stato libanese hanno espresso un aperto ottimismo nei giorni scorsi, anche se la proposta sul tavolo per far cessare i combattimenti nel paese dei cedri continua a incontrare i dubbi di Hezbollah, essendo fortemente sbilanciata a favore dello stato ebraico.


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