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di mazzetta
C'è un dittatura nel cuore dell'Asia dove nessuno ha voluto portare la democrazia. A dire il vero ce n'è più d'una, ma questa è la storia dell'Uzbekistan, dove il dittatore Karimov ha appena mandato a raccogliere il cotone i due milioni di uzbeki tra i 6 e i 15 anni che invece dovrebbero essere a scuola. Visto che rimarrebbero a presidiare aule vuote, Karimov manda a raccogliere il cotone anche i docenti, i bidelli e quanti più impiegati pubblici gli è possibile. Il cotone è una delle produzioni più importanti dell'Uzbekistan, realizzata grazie a colture intensive importate ai tempi dell'Unione Sovietica.
La furbata di coltivare una pianta che ha bisogno di molta acqua in un paese semi-desertico ha avuto i suoi costi, seccando letteralmente il Lago D'Aral e impoverendo terreni sempre più salati e sempre più inquinati da fertilizzanti e pesticidi. Al dittatore e alla sua famiglia, che detiene il monopolio del cotone, sembra importare poco: il ricorso alla manodopera forzata e gratuita garantisce comunque margini interessanti. Da parecchi anni l'ONU e alcune associazioni anglosassoni protestano per il lavoro minorile, che è poi schiavitù non essendo retribuito; la diplomazia uzbeka risponde che farà e provvederà, ma poi non succede niente.
Molti grandi marchi statunitensi hanno deciso di non comprare più cotone uzbeko e a loro si è unita anche qualche azienda italiana. A livello ufficiale la UE mantiene buoni rapporti con l'Uzbekistan, anche se di cotone ne importa pochino. Molto più interessante sembra il gas naturale, di cui il paese è ricco. Anche quello ovviamente è cosa di Karimov, ma le democrazie occidentali non sembrano preoccuparsi. Il dittatore è in buoni rapporti con il vicino russo e anche con gli americani, ai quali ha prima concesso l'uso di una base molto utile alla guerra in Afghanistan, poi li ha cacciati per poi, successivamente, siglare un nuovo accordo concedendo nuovamente la base.
Gli americani avevano avuto la cattiva idea di criticare una strage compiuta dal regime nella valle di Fergana. L'astuto Karimov aveva lamentato un attacco di “terroristi islamici”, ma si trattava in realtà di una rivolta di commercianti a seguito di abusi e taglieggiamenti culminati con un'ondata di arresti. Alla protesta, Karimov reagì con tale violenza che parecchie migliaia di uzbeki corsero alla frontiera e scapparono dal paese così com'erano, profughi. Una volta che la dinamica risultò evidente, mezzo mondo protestò e Karimov reagì ancora peggio.
Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, nessuno fece caso al fatto che cadde in testa anche agli uzbeki e ai loro vicini degli “Stan” sovietici. Karimov era allora il governatore della repubblica uzbeka e oggi ne è il dittatore. Sono passati vent'anni durante i quali lui e la sua famiglia hanno depredato tutto il depredabile e preso il controllo di tutti gli asset strategici del paese, dall'energia alle telecomunicazioni fino al cotone. Dal 1989 non ci sono più state elezioni, ma solo referendum per prorogare la carica di Karimov; non esistono partiti d'opposizione e il regime perseguita chiunque professi qualsiasi fede religiosa, dagli evangelici agli ebrei, fino ai musulmani e ai cristiani. Chi professa una fede si vede di norma negato il permesso di viaggiare all'estero e subisce altre angherie. Gli uzbeki di origine russa e gli ebrei in particolare hanno da tempo lasciato il paese in massa, colpiti prima dalle necessità economiche che dai morsi del regime.
Un vero e proprio regime di terrore, tanto che le proteste sono rarissime da parte di una popolazione impoverita dai furti della dittatura e intimorita dalle crudeli reazioni dell'apparato poliziesco. Innumerevoli sono i rapporti che parlano di torture e persino di una predilezione di Karimov per il bollire vivi avversari e nemici. La libertà di stampa non esiste e c'è anche un giornalista che si sta facendo 10 anni di galera per un articolo troppo “ecologista”; niente di strano, di solito basta molto meno.
La spietata dittatura di Karimov e quelle dei suoi colleghi confinanti non suscitano il minimo interesse in Europa, non si ricordano tonanti prese di posizione europee contro le elezioni-farsa in quei paesi, ma nemmeno contro scandali come questo degli scolari schiavizzati per raccogliere il cotone del “presidente”. Probabilmente c'entrano i grandi giacimenti di gas naturale di queste zone dell'Asia Centrale, che fanno gola a molti, ENI in prima fila.
Probabilmente, se in Italia interrogassero i parlamentari sull'Uzbekistan, finirebbe come per il Darfur, che venne scambiato con il “fast-food”. All'indifferenza della politica si contrappone invece l'attività delle imprese: é un fatto che l'interscambio commerciale con Karimov e suoi inguardabili colleghi sia in crescita costante da anni.
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di Eugenio Roscini Vitali
Capoluogo del distretto occidentale di Uasin Gishu, nella provincia di Rift Valley, Eldoret è famosa per aver dato i natali al capostipite dei fondisti kenioti, Kipchoge Keino, e non solo. Da qualche giorno, infatti, la città è tornata alla ribalta per una ragione sicuramente meno nobile: sembra che le autorità di Nairobi abbiano annunciato la chiusura del locale campo profughi, un struttura che ospita circa 2.200 rifugiati interni, civili di etnia Kikuyu scampati alle violenze etniche post elettorali che tra il dicembre del 2007 e la primavera del 2008 sconvolsero la regione. La paura è che le zone di provenienza non siano ancora del tutto sicure e per questo molti profughi non sarebbero disposti a tornare a casa; per facilitare l’operazione di sgombero il governo avrebbe comunque offerto ad ogni famiglia la cifra di 35 mila scellini (490 dollari) e il trasporto gratuito fino alle comunità di appartenenza.
Un problema di difficile soluzione che da una parte vede gente disperata alla quale viene promesso un risarcimento insufficiente a costruire una qualsiasi alternativa di vita, dall’altra la polizia che potrebbe ricorrere all’uso di squadre speciali per lo sgombero forzato della tendopoli. Le tensioni quindi non mancano e nel campo, gia teatro di diversi scontri, i profughi hanno una sola grande preoccupazione: non sanno dove andare.
Secondo quanto dichiarato dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), degli oltre 350 mila profughi interni transitati nei centri di accoglienza, quelli che già tornati a casa sono 347.500; il numero dei civili ancora presenti nelle tendopoli è ufficialmente di 7.200 ospiti. Il governo ha già deciso di chiudere entro la prima metà di ottobre tutti e 43 i campi che sono stati aperti in seguito all’emergenza scoppiata tra il 2007 e il 2008, compreso il centro di Eldoret, che oggi rappresenta la struttura più grande tra quelle riservate ai rifugiati interni.
L’allarme non è certo da sottovalutare, soprattutto se si pensa alle difficoltà alle quali andranno incontro le famiglie vittime di un conflitto interno di inaudita violenza e che, a tutt’oggi, possono solo contare sull’aiuto delle Nazioni Unite, della Croce Rossa Keniana e delle agenzie umanitarie non governative che operano in Africa orientale.
La lotta per la sopravvivenza attraversa tutto il Paese e l’emergenza è ormai totale. La condizione più tragica riguarda sicuramente i quasi 300 mila rifugiati somali che vivono nei tre campi profughi di Dadaab, scappati dai combattimenti e agli scontri armati, dagli stupri e dai saccheggi, da una situazione che rende impossibile qualsiasi intervento sanitario e che trasforma un popolo in un esercito di senza speranza, gente alla quale è stato tolto qualsiasi diritto. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UHNRC), da gennaio ad oggi sono oltre 50 mila i somali che hanno attraversato il confine per raggiungere le tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley; una fuga di massa che ha generato un flusso pari a 6.400 unità al mese e un sovraffollamento che ha costretto le autorità a trasferire 12 mila profughi da Dadaab al campo di Kakuma, a pochi chilometri dal confine sudanese, dove peraltro erano già presenti 45.017 rifugiati.
Secondo i dati relativi al 31 agosto scorso, Ifo, Hagadera e Dagahaley ospitano 288.079 profughi, il 23% in più rispetto a gennaio 2009 e il triplo del numero massimo per il quale è predisposto. La gestione è affidata a Care International, l’organizzazione umanitaria statunitense che opera in Kenya dal 1968 e dal 1991 nei campi profughi di Dadaab. Dopo quella di Afgooye, 30 chilometri ad ovest di Mogadiscio, una striscia di 15 chilometri di terra dove sono ospitate circa 490 mila persone, la tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley rappresentano una delle più grandi concentrazioni di rifugiati al mondo. E’ una tragedia umanitaria che le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative di tutto il mondo definiscono di proporzioni impensabili, composta per il 97% da somali e per il resto da sudanesi, ugandesi e congolesi.
Una situazione tragica che in alcuni casi diventa umiliante, dove innumerevoli persone sono costrette a vivere senza un accesso regolare ai servizi igienici, all’acqua, al cibo, alle strutture sanitarie, minacciate all’interno dei campi da continue epidemie di colera, malaria, TBC e dissenteria, dall’aumento di casi di HIV/AIDS, polio e morbillo, senza alcuna garanzia sulla sicurezza, vittime di una violenza diffusa (soprattutto sevizie e stupri) che negli ultimi mesi ha superato una crescita del 30%.
A due anni di distanza, il Kenya deve ancora interrogarsi sulle cause che provocarono gli scontri scoppiati all’indomani delle elezioni presidenziali del dicembre 2007, la peggiore ondata di violenza della storia post coloniale: almeno 1200 morti, migliaia di feriti e circa 2 milioni di civili costretti a fuggire e a diventare profughi nel loro stesso Paese. Secondo lo studio intitolato “Le cause profonde e le implicazioni della violenza post elettorale del 2007”, commissionato dal gruppo interconfessionale Inter-Religious Forum (IRF) alla Media Focus on Africa, organizzazione no-profit che opera nel settore della comunicazione per lo sviluppo, le ragioni di questa tragedia vanno ricercate nel decadimento morale e sociale di una nazione esposta a fattori che ancora oggi minacciano la sua stessa esistenza.
Corruzione, cattiva gestione della cosa pubblica, negazione di una qualsiasi forma di giustizia sociale, iniqua distribuzione delle terre, marginalizzazione di alcuni gruppi dal contesto politico ed economico e mancanza di riforme istituzionali: sono questi i motivi che, insieme ad un sistema politico secondo il quale “il vincitore prende tutto”, hanno aumento in modo esponenziale le tensioni etniche e sociali che hanno trascinato il Kenya sull’orlo della guerra civile.
E’ in questo contesto che i rifugiati di Eldoret, Kakuma, Ifo, Hagadera, Dagahaley e di tutti gli altri campi profughi del Kenya devono sopravvivere, in una lotta per il potere politico ed economico che risale ai tempi dei presidente Kenyatta, uno scontro che ha attecchito le sue radici durante il regime di Daniel arap Moi ed è esploso con Mwai Kibaki, che ha una sua logica nello scontro etnico tra Kikuyu e Luo ma che coinvolge gli interessi di Washington e Londra, che in Kenya ancora molti interessi. Un Paese instabile, oppresso dalla violenza, assediato dal quinto anno consecutivo di siccità e devastato dalle inondazioni, dove c’è chi sopravvive con due litri di acqua al giorno, meno acqua di quanto noi consumiamo scaricando lo sciacquone del gabinetto.
Un Paese asfissiato dalla povertà, dai prezzi del cibo (superiori del 180% rispetto alla media africana), dei carburanti e dei beni essenziali, dove 1.340.000 persone ricevono forme di assistenza alimentare di prima necessità e dove 3.800.000 hanno bisogno di aiuti di emergenza. Dove quindi essere rifugiati diventa un problema tra i problemi.
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di Michele Paris
Dopo giorni di annunci minacciosi e intimidazioni da parte degli Stati Uniti e degli alleati occidentali nei confronti dell’Iran, alle porte di Ginevra è andato finalmente in scena il primo round di colloqui multilaterali e bilaterali, per cercare di dirimere la questione del nucleare di Teheran. In quasi otto ore di discussioni, che hanno incluso anche il primo storico faccia a faccia ad alto livello tra USA e Iran dalla rivoluzione del 1979, sono stati fatti almeno due primi passi importanti verso una risoluzione pacifica della questione. Una disponibilità iraniana forse inaspettata però a Washington, da dove, nonostante tutto, si è continuato a minacciare nuove sanzioni in caso di mancata collaborazione in tempi molto brevi.
L’incontro tra il negoziatore iraniano Saeed Jalili e il cosiddetto gruppo P5+1, composto dai rappresentanti dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) più la Germania, non era nato però sotto i migliori auspici, anche se alla vigilia del meeting aveva contribuito ad allentare le tensioni la concessione da parte dell’amministrazione Obama di un visto d’ingresso negli USA al ministro degli esteri di Teheran, Manoucher Mottaki, per visitare il proprio ufficio di rappresentanza a Washington presso l’ambasciata pakistana.
In coda al G20 di Pittsburgh della settimana scorsa, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna avevano annunciato con grande enfasi la presunta scoperta di un impianto segreto iraniano per l’arricchimento dell’uranio nei pressi della città santa di Qom. Nel rispetto del Trattato di Non-Proliferazione, del quale l’Iran è firmatario, Teheran aveva però comunicato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) l’esistenza della seconda costruzione - dopo quella di Natanz, già sottoposta ad ispezioni - quattro giorni prima della “rivelazione” americana. Il trattato, infatti, prevede la comunicazione alla IAEA di un eventuale nuovo sito almeno 180 giorni prima dell’invio ad esso di combustibile nucleare per essere trattato.
I governi e i media occidentali avevano tuttavia immediatamente sfruttato una dichiarazione del direttore dell’agenzia, Mohammed El Baradei, nella quale sosteneva che l’Iran stava violando il Trattato di Non-Proliferazione, dal momento che una modifica di esso stabiliva la comunicazione di un nuovo sito nucleare 180 giorni prima della costruzione dello stesso. Peccato però che tale modifica non sia mai stata approvata dal governo iraniano e, nel corso della stessa intervista alla CNN indiana, El Baradei abbia chiarito come a tutt’oggi non sussistano prove che l’Iran stia procedendo nella produzione di armi nucleari. Una versione, quest’ultima, puntualmente celata all’opinione pubblica occidentale.
La struttura di Qom è stata dunque utilizzata per lanciare una serie di ultimatum verso il governo di Ahmadinejad e per minacciare nuove sanzioni che, se adottate, interesserebbero, tra l’altro, l’accesso al credito e le forniture di petrolio raffinato all’Iran. Per raccogliere consensi all’interno del Consiglio di Sicurezza attorno a provvedimenti più duri per Teheran, da dove si continua a sostenere che il proprio programma nucleare viene sviluppato esclusivamente per scopi pacifici, gli Stati Uniti hanno messo allora in atto forti pressioni sui paesi più recalcitranti (Russia e Cina), giungendo un paio di settimana fa anche alla rinuncia dell’installazione di uno scudo missilistico in Repubblica Ceca e Polonia, fortemente osteggiato da Mosca.
La trattativa di Ginevra per gli USA avrebbe dovuto così ruotare esclusivamente attorno alla questione del nucleare di Teheran, mentre da parte iraniana si puntava su un’agenda decisamente più ampia e tesa ad includere altri temi importanti come la non-proliferazione, la situazione in Afghanistan e la riforma delle Nazioni Unite. I cinque membri del Consiglio di Sicurezza - tutte potenze nucleari (più la Germania) che da tempo ha completato il processo di arricchimento che si cerca di bloccare in Iran – hanno anche già stabilito di “intensificare il dialogo nelle prossime settimane” ed hanno dato appuntamento a Saeed Jalili, il quale oltre guidare il negoziato per il suo paese è anche il segretario del potente Consiglio Nazionale per la Sicurezza iraniano che risponde direttamente all’ayatollah Khamenei, a fine ottobre per un secondo confronto.
Nel corso dei colloqui, che hanno visto anche un faccia a faccia di 45 minuti tra il rappresentante di Teheran e il sottosegretario di Stato americano, William J. Burns, i paesi del "gruppo 5+1" hanno alla fine ottenuto due concessioni decisive, quanto meno per permettere alla diplomazia di guadagnare tempo e scongiurare, per il momento, il ricorso a sanzioni più pesanti. Jalili ha infatti accettato di aprire nelle prossime due settimane il sito nucleare di Qom alle ispezioni dell’IAEA - El Baradei sarà infatti a Teheran nei prossimi giorni - e di inviare la maggior parte del proprio uranio arricchito in Russia per trasformarlo in carburante necessario ad alimentare un piccolo reattore da utilizzare per scopi di cura e ricerca medica.
Attualmente, le riserve iraniane di uranio sono state arricchite ad un livello stimabile tra il 3,5 e il 5%. Per utilizzare il materiale in ambito medico è necessario invece ottenere un arricchimento del 19,75%, mentre per ottenere un ordigno nucleare si deve giungere fino al 90%. Una situazione che chiarisce a sufficienza, a dispetto delle pretese occidentali, quanto l’Iran sia lontano dal possedere uranio arricchito sufficiente per un’arma nucleare. Se l’uranio di cui dispone verrà inoltre spedito all’estero per essere trattato, parecchi altri mesi ancora potrebbero passare prima che l’Iran possa tornare a raccogliere tutte le sue scorte nei siti dichiarati.
Nonostante le concessioni strappate, il presidente Obama in prima persona, da Washington, ha lanciato un nuovo ultimatum nei confronti dell’Iran, ricalcando i toni del suo predecessore nelle settimane precedenti all’invasione dell’Iraq. Gli Stati Uniti insomma sono “pronti ad aumentare la tensione”, ha minacciato l’inquilino della Casa Bianca, “se da Teheran non ci si muoverà rapidamente” verso il rispetto degli obblighi riguardo al nucleare.
L’atteggiamento bellicoso dell’amministrazione americana, in sostanza, è rimasto invariato rispetto alla vigilia dei colloqui di Ginevra e la richiesta di permettere agli ispettori internazionali un “accesso completo e senza restrizioni” al sito di Qom, situato nei presso di una base militare, rischia di complicare il negoziato. L’obiettivo finale degli Stati Uniti inoltre è sempre stato quello di giungere ad una totale sospensione dell’arricchimento dell’uranio, una pretesa che l’Iran si è invece sempre rifiutato di prendere in considerazione.
Una strategia, quella americana, che può apparire mirata a mantenere alta la pressione, fino al raggiungimento di risultati concreti, su un paese con il quale non ha rapporti diplomatici da tre decenni e il livello di diffidenza rimane estremamente elevato. Ma che sembra utilizzare, secondo alcuni, anche la questione del nucleare come un pretesto per spingere l’Iran, attraverso nuove sanzioni, verso una transizione ad un regime più docile nei confronti degli Stati Uniti e della loro volontà di consolidare la propria influenza in Medio Oriente e in Asia Centrale.
La lezione dell’Iraq sembra essere già stata dimenticata dalla nuova amministrazione a Washington, come ha fatto notare qualche giorno fa, dalle pagine del New York Times, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale per il Medio Oriente Flynt Leverett, il quale ha ricordato come la strategia della minaccia di nuove sanzioni non farà che aumentare la frustrazione iraniana o, nella peggiore delle ipotesi, condurre ad un conflitto militare. Secondo Leverett, la politica più efficace consisterebbe al contrario nella ricerca di un riallineamento strategico con l’Iran sull’esempio di quello condotto da Nixon nei confronti della Cina negli anni Settanta e secondo il quale gli USA dovrebbero muovere dei passi concreti per assicurare Teheran che la normalizzazione dei rapporti bilaterali sarebbe nel suo stesso interesse.
Il riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran, tuttavia, comporterebbe anche un certo grado di conflittualità con quei paesi europei (per non parlare di Russia e Cina) che godono già di proficui rapporti commerciali con Teheran. Alimentare le tensioni potrebbe invece indebolire in qualche modo le relazioni tra di essi e l’Iran, consegnando agli americani maggiore spazio di manovra in caso di un cambiamento di regime nel prossimo futuro. Forse anche per questo, minacce e provocazioni, piuttosto che un piano mirato ad un ristabilimento graduale di pacifiche relazioni diplomatiche, promettono di rimanere una costante della retorica statunitense nei confronti dell’Iran anche nei mesi a venire.
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di Luca Mazzucato
New York. Quelli che “Barack Obama non è presidente: é nato in Kenya.” Quelli che “il governo vuole staccare la spina alla nonna per pagare la riforma sanitaria.” Quelli che “Obama è un nazista, o magari un socialista.” Dopo il fuggi-fuggi dalla corazzata neocon e la scomparsa del clan di George W. Bush, il Partito Repubblicano si è trasformato in un'armata Brancaleone, il cui unico scopo é affondare Barack Obama, costi quel che costi. La leadership del partito è stata scippata dai popolari commentatori radiofonici e televisivi di estrema destra che, come Rush Limbaugh e Glenn Beck, che grazie al megafono di Fox News arringano folle di bianchi inferociti dal presidente “abbronzato.”
Il primo assaggio si era avuto durante la campagna elettorale dello scorso anno con il movimento dei birthers, che potremmo tradurre come “nascitari”. I birthers, il cui nome rifà il verso ai famosi truthers (il movimento che chiede di riaprire le inchieste sull'Undici Settembre), hanno sollevato il dubbio che Barack Obama sia ineleggibile, in quanto segretamente nato in Kenia. Per mettere fine a queste dicerie, il presidente ha messo in rete una copia del suo certificato di nascita depositato alle Hawaii, ma ovviamente la dura realtà è incapace di scalfire le profonde convinzioni di questi repubblicani.
La demenza ha contagiato persino la leadership repubblicana, che ha cavalcato l'onda anomala dei birthers pur sapendo trattarsi di pura spazzatura. Nei comizi in giro per il paese, i deputati repubblicani spesso ripetono gli slogan dei birthers, ottenendo immancabilmente fragorose ovazioni. Ma si sono spinti più in là, portando questa follia fino al Congresso. Per strizzare l'occhio ai birthers, alcuni repubblicani hanno presentato una proposta di legge che obbligasse i candidati alla presidenza a presentare il certificato di nascita (proposta poi bocciata).
Alla domanda di una giornalista su cosa il presidente pensasse di fare al riguardo, il portavoce della Casa Bianca Gibbs ha alzato le spalle, osservando che “il certificato di nascita del presidente è pubblico, con quindici dollari vai all'anagrafe di Honululu e puoi leggere l'originale.” Ma vuoi mettere la gioia di poter urlare che Obama non è mai stato presidente? Inestimabile!
La parola definitiva sui birthers la dà l'Urban Dictionary, che definisce birther “colui che lotta per il diritto di sposare il proprio cugino,” un pacato riferimento al fenomeno del cretinismo delle valli, che ha reso possibile la nascita e la radicazione di questo movimento, forte di centinaia di migliaia di sostenitori bianchi, di mezza età, armati e incazzati.
Il movimento dei birthers è stato il primo esempio di una nuova visione della politica. Privi di leadership e di argomenti validi dopo aver affossato contemporaneamente Iraq, Afghanistan, Wall Street e il bilancio statale, i senatori e deputati del Grand Old Party hanno preferito affidarsi alle schegge impazzite della destra conservatrice. L'idea è semplice: cementare una base di irriducibili tra gli antiabortisti, gli amanti delle armi, i suprematisti bianchi, insomma tutti quelli che odiano il presidente senza se e senza ma, per riportare il partito verso magnifiche sorti e regressive.
Quello che nessuno si aspettava, è che la strategia di inondare il discorso pubblico d’idiozie sparate a tutto volume sta avendo un discreto successo e rischia di affondare il progetto cardine della presidenza Obama: la riforma sanitaria. Nella battaglia sulla sanità si sono sposati due aspetti della galassia conservatrice: la demenza pura dei birthers con il fiume di dollari delle potentissime assicurazioni sanitarie.
A colpi di denaro sonante, la lobby delle assicurazioni sanitarie ha comprato tutti i senatori repubblicani (uno spreco, potevano averli gratis!), insieme ad un manipolo di democratici centristi detti Blue Dog, cruciali per bloccare la riforma: è la nascita del movimento dei deathers, ovvero i “mortuari.”
Il soprannome deve la sua origine alle ripetute dichiarazioni di politici repubblicani, tra i quali spicca la rediviva Sarah Palin, secondo i quali la riforma sanitaria di Obama nasconde il progetto del governo di “staccare la spina alla nonna.” La senatrice Virginia Foxx, ad esempio, non la manda a dire e in Senato tuona: “Questa riforma ha come obiettivo mettere a morte gli anziani!” Secondo il senatore Louie Gohmert, poi, “gli anziani verranno messi in liste ed uccisi.”
La lista di slogan partoriti dal settore marketing delle assicurazioni sanitarie e vendute dai senatori repubblicani è esilarante e a verbale della discussione al Senato. Il governo dovrebbe istituire dei “comitati della morte” (death panels, da cui il nomignolo deathers), che dovranno valutare l'utilità sociale di ogni singolo anziano e decidere se vale la pena tenerlo in vita, o non conviene forse staccare la spina. I senatori più temerari, come il segretario del Partito Repubblicano Michael Steel, svelano che Obama userà i registri elettorali per eliminare i soli anziani registrati come repubblicani.
Allo sfortunato Newt Gringich, purtroppo, alcuni giornalisti hanno fatto notare che “di questa proposta non c'è alcuna traccia nel disegno di legge!” Al che Gringich ha seguito la classica scuola Ghedini: “Ma va là! La legge è lunga un migliaio di pagine!” E, con pacato buonsenso, ha paragonato Barack Obama al compianto Adolf Hitler, ricordando che i nazisti sono stati i primi ad introdurre l'eutanasia per gli anziani e i disabili.
La storia dei “comitati della morte” ha fatto il giro del paese alla velocità della televisione e in breve i Town Hall Meetings (frequenti incontri tra deputati e cittadini, una consuetudine della democrazia americana) si sono trasformati in gironi infernali in cui anziani disperati urlavano ai senatori democratici che è una vergogna e che non sono sopravvissuti fino a sessantacinque anni per essere “uccisi da un burocrate mandato da Washington.” Alcune inchieste giornalistiche hanno presto scoperto però che queste “proteste spontanee” altro non erano se non eventi pianificati dalle compagnie assicurative, che pagavano e trasportavano attivisti anziani in lungo e in largo per dare l'impressione di eventi diffusi su tutto il territorio nazionale.
La lobby delle assicurazioni sanitarie sta facendo carte false per evitare l'introduzione di un'opzione pubblica nella riforma, che introducendo un elemento di concorrenza farebbe crollare i profitti fraudolenti delle compagnie assicurative. Creano a volte episodi curiosi. Secondo un editoriale dell'Investors Business Daily, la sanità pubblica è “socialista”, e dunque il peggiore dei sistemi possibili: “Se il fisico teorico Steven Hawking fosse vissuto in Inghilterra, ad esempio, la sanità pubblica l'avrebbe ucciso da tempo.” Pronta la risposta del celebre fisico inglese, che dalla sua residenza di Cambridge, vicino Londra, ha confermato di essere vivo e vegeto, proprio grazie alle cure del sistema sanitario nazionale.
Grazie alle martellanti pubblicità delle assicurazioni sanitarie, che seminano il panico tra gli anziani, e al largo spazio dato dai media alle continue proteste, il sostegno popolare alla riforma sanitaria, larghissimo fino a pochi mesi fa, ha cominciato a vacillare. L'ultimo sondaggio della NBC mostra che la strategia di spararla grossa funziona: il 45% degli americani crede alla favola dei comitati della morte e dell'eutanasia sugli anziani; il 55% crede che la riforma darà copertura agli immigrati clandestini, mentre il 50% crede che i soldi della riforma verranno usati per favorire gli aborti, entrambe grossolane menzogne inventate premiata ditta repubblicani-assicurazioni. L'iter della riforma sta incontrando enormi difficoltà in Senato e non è chiaro se riuscirà a passare.
Resta da vedere se questo schema repubblicano funzionerà anche contro l'altra riforma che i democratici hanno in cantiere: quella della finanza. Un anno fa, il popolo della destra conservatrice marciava insieme ai liberali per protestare contro l'avidità di Wall Street che ha portato alla crisi globale. Riusciranno i nostri eroi amministratori delegati a manipolare a proprio favore la rabbia dell'uomo bianco razzista, inferocito contro le banche e le corporations, e rivoltarla ancora una volta contro se stesso? Unica salvezza: gettare il telecomando.
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di Michele Paris
In Colombia, l’azienda estrattiva americana Drummond Company è finita nuovamente sotto accusa nei giorni scorsi, quando un’associazione sindacale di Pittsburgh, in Pennsylvania, ha inviato una lettera ufficiale di protesta nei suoi confronti al segretario di Stato Hillary Rodham Clinton. Di stanza a Birmingham, nell’Alabama, questa società si è infatti resa protagonista del licenziamento illegittimo dei propri dipendenti appartenenti al sindacato e impiegati nella miniera colombiana di La Loma. Questo purtroppo non appare come un episodio isolato, dal momento che nel recente passato erano già emerse responsabilità ben più gravi nell’ambito dell’attività della compagnia statunitense nel paese sudamericano politicamente più vicino a Washington.
Lo scorso mese di marzo, centinaia di minatori della Drummond Company in Colombia avevano preso parte ad uno sciopero indetto in seguito alla morte del loro collega, Dagoberto Clavijo, precipitato in un pozzo mentre era alla guida di un mezzo pesante. In risposta all’interruzione dei turni di lavoro, la dirigenza dell’azienda americana ha deciso il licenziamento degli organi direttivi locali del sindacato Sintramienenergetica. Come se non bastasse, la stessa società detentrice dei diritti di sfruttamento della miniera colombiana ha chiesto al Ministero del Lavoro colombiano il permesso per licenziare altri 4 mila suoi dipendenti, tutti appartenenti ad associazioni sindacali.
Secondo il sindacato colombiano, sarebbero state le pessime condizioni delle vie di comunicazione presso la miniera ad aver causato l’incidente mortale. Per questo motivo, e in base alla legge sul diritto del lavoro attualmente in vigore nel paese sudamericano e alle convenzioni approvate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, lo sciopero appariva del tutto legittimo. Per sostenere la battaglia dei loro colleghi colombiani e per protestare contro i licenziamenti, il sindacato americano United Steelworkers International (USW) ha così indirizzato una lettera alla ex first lady lamentando la condotta della Drummond Company.
Sottoscritta dal presidente della USW, Leo W. Gerard, la missiva intende convincere il Dipartimento di Stato a far pressioni sul governo di Bogotà per bloccare i licenziamenti e migliorare le condizioni di lavoro nella miniera, ma anche far luce sulle passate attività della Drummond Company per contrastare la sindacalizzazione dei propri addetti. Solo negli ultimi due anni la compagnia dell’Alabama si è infatti vista trascinare nei tribunali americani per tre volte, dovendo affrontare accuse gravissime.
Il primo processo risale al mese di luglio 2007, quando un giudice federale di Birmingham aprì un dibattimento riguardante fatti accaduti nel 2001. In quella circostanza, decine di minatori della Drummond Company a bordo di un autobus vennero improvvisamente fermati e fatti scendere da un gruppo di 15 individui armati, alcuni dei quali indossavano uniformi miliari colombiane. Tra i lavoratori fermati, vennero scelti tre leader sindacali – Valmore Locarno Rodriguez, Victor Hugo Orcasita e Gustavo Soler – successivamente torturati e assassinati.
Secondo le dichiarazioni giurate di alcuni testimoni, il presidente della divisione colombiana della Drummond Company – Augusto Jimenez – avrebbe personalmente consegnato 200 mila dollari in contanti ad un capo di un gruppo paramilitare locale di estrema destra come compenso per l’esecuzione dei tre sindacalisti. La vicenda sollevò molto scalpore negli USA, tanto che la sottocommissione Affari Esteri del Congresso, presieduta dal deputato democratico Bill Delahunt, le dedicò una seduta molto accesa. Nonostante le prove a carico, la Drummond Company alla fine riuscì ad evitare una sentenza di condanna, anche se a marzo di quest’anno i figli dei tre minatori assassinati sono riusciti a far riaprire il processo dopo aver ottenuto accesso ad una nuova testimonianza.
Più recentemente, nel mese di maggio, un altro procedimento è stato avviato in base alle accuse di aver pagato milioni di dollari al gruppo paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), responsabile dell’uccisione di 67 operai iscritti al sindacato. Anche in questo caso sarebbero documentati incontri tra dirigenti della Drummond Company e membri di alto grado dell’AUC per concordare gli obiettivi di una vera e propria strategia volta ad assassinare e terrorizzare (tramite rapimenti e percosse) i lavoratori impegnati nell’attività sindacale e i loro famigliari. Da parte sua, l’azienda mineraria statunitense continua a sostenere la propria estraneità ai fatti, facendo notare come violenze di questo genere in Colombia siano ampiamente diffuse e legate ad altri fattori che nulla hanno a che vedere con la sua attività nel paese.
La Drummond Company, la quale acquistò la miniera di La Loma negli anni Ottanta e da allora ha visto crescere vertiginosamente le proprie esportazioni di carbone, fino ad una quantità di quasi 23 milioni di tonnellate nel 2007, non ha d’altra parte mai mostrato troppi scrupoli per i propri dipendenti (soprattutto se sindacalizzati) nemmeno in territorio americano. Con il crescere degli affari in Colombia, la compagnia ha proceduto nell’ultimo decennio alla chiusura di molte miniere nell’Alabama e al licenziamento di migliaia di persone. Tra il 1994 e il 2001, cinque siti hanno terminato le operazioni e 1.700 operai iscritti al sindacato hanno perso il loro posto di lavoro. Solo pochi mesi fa, sono stati licenziati altri 56 minatori nella contea di Jefferson, sempre in Alabama, dove l’azienda fondata nel 1935 da H. E. Drummond mantiene tuttora in vita alcune operazioni estrattive.
La collaborazione tra grandi aziende americane e gli squadroni della morte colombiani non è cosa nuova o isolata. Nel 2007, ad esempio, Chiquita Brands International accettò di versare 25 milioni di dollari nell’ambito di un procedimento che la vedeva accusata di aver effettuato versamenti di denaro al gruppo paramilitare AUC tra il 1997 e il 2004. La stessa famosa compagnia produttrice e distributrice di banane è tuttora coinvolta presso il tribunale distrettuale di Miami in un nuovo processo, avviato dai parenti di altre vittime dell’AUC. “Questo genere di comportamenti da parte delle corporation che fanno affari in Colombia non è purtroppo inusuale”, ha affermato uno degli avvocati dell’accusa in aula. “I gruppi paramilitari collusi con esse hanno agito nella totale impunità e in assenza di qualsiasi intervento governativo”.
A fare le spese delle violenze in Colombia sono soprattutto i membri dei sindacati. Questo paese ha infatti il primato mondiale di omicidi di sindacalisti. A partire dal 1986, ne sono stati assassinati ben 2.694, mentre 4.200 sono state le minacce di morte documentate. Quel che è peggio poi, è che la tendenza risulta in crescita. Nel 2008, gli omicidi sono passati a 49, dai 39 nel 2007. Il tutto senza praticamente che nessun colpevole venga assicurato alla giustizia. La percentuale di assassini di sindacalisti rimasti impuniti è addirittura del 96%. Questa è insomma la realtà di un paese con il quale gli Stati Uniti del presidente Obama, come di Bush in precedenza, continuano a mantenere strettissimi rapporti economici, politici e militari.