di Michele Paris

Dopo mesi di trattative e negoziazioni serrate, la tanto annunciata riforma del sistema sanitario americano sembra finalmente giunta alla stretta finale. In una serie di apparizioni pubbliche, il presidente Obama sta cercando di convincere il Congresso a votare una nuova legge prima della pausa estiva. I parlamentari repubblicani più moderati ed una buona parte di quelli democratici chiedono però più tempo per trovare una soluzione maggiormente condivisa dai due schieramenti e che possa influire il meno possibile su un deficit federale già di proporzioni enormi. Nel frattempo, le industrie farmaceutiche e delle assicurazioni sanitarie, anche se all’apparenza meno agguerrite nei confronti del nuovo piano di ristrutturazione del sistema rispetto a quello di Clinton fallito nel 1993, continuano a riversare milioni di dollari in attività di lobby per ostacolare l’iter legislativo della riforma o, quanto meno, per piegarla ai propri desideri.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Nikoo e Iraj sono due ricercatori iraniani, sono sposati e lavorano in due università americane dell'East Coast. Non forniremo altri dettagli su di loro, perché diventerebbero un facile bersaglio della rappresaglia del regime iraniano e dell'immigrazione americana (ottenere un visto di lavoro in America è diventato un'impresa epica per loro). Non tornano spesso in Iran, tantomeno ora che lo stato di polizia ha mostrato la sua faccia più feroce: per il solo fatto di lavorare al soldo del nemico numero uno del regime, finirebbero direttamente in carcere al loro arrivo. Li incontriamo dopo l'attesissimo discorso dell'ayatollah Rafsanjani alla preghiera del venerdì, che rappresenta il primo segnale di speranza per il movimento dal terribile giorno delle elezioni. Iraj porta una barba lunga di un mese, se l'è fatta crescere il giorno delle elezioni, come segno di protesta; sua moglie Nikoo tutti i giorni indossa qualche capo d'abbigliamento di colore verde. Questi due cambiamenti esteriori sono uno dei codici usato dagli attivisti iraniani per mostrare ai propri connazionali la loro indignazione per la situazione in patria.

di Michele Paris

La pena capitale negli USA è un argomento che Barack Obama ha preso in considerazione solo alla lontana nel corso della sua campagna elettorale dello scorso anno. Una volta approdato alla Casa Bianca, la questione è poi completamente sparita dall’agenda di un presidente già oberato da problemi enormi e ben attento a non esporsi troppo su un argomento così delicato nei primi mesi del suo mandato. I poteri conferiti al presidente negli Stati Uniti in merito alla sorte dei condannati a morte nel circuito federale e i casi pendenti di sei detenuti nel braccio della morte che potrebbero finire presto sul suo tavolo promettono tuttavia un coinvolgimento di Obama nei prossimi mesi, quando sarà probabilmente costretto a chiarire la sue posizioni, a tratti contraddittorie, sulla pena di morte.

di Carlo Benedetti

Parte il “Nabucco”. Il già tanto progettato gasdotto è in pista. L’accordo, raggiunto ad Ankara dinanzi al presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, vede come firmatari Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. Tutti paesi che saranno attraversati per portare il gas del Mar Caspio in Europa senza passare dalla Russia. Comincia così una nuova pagina di geoeconomia. Eppure questo sospirato accordo intergovernativo non dissipa i forti dubbi di esperti, economisti e politici sulla sostenibilità finanziaria del costosissimo megagasdotto (almeno 7,9 miliardi di euro per 3.300 chilometri di tubi destinati a convogliare in Europa a partire dal 2015 fino a 31 miliardi di metri cubi l'anno) destinato a determinare il corso dei nuovi processi economici. Il progetto dovrebbe entrare in servizio nel 2014 con un costo stimato di 7,9 miliardi di euro, sostenuto dalla Commissione Ue, dagli Stati Uniti e, soprattutto, da diversi Paesi dell'est Europa, ansiosi di diminuire la loro dipendenza dal gas russo e dalle vie russe di approvvigionamento di gas naturale, rivelatesi negli ultimi anni a tratti incerte. E di conseguenza si avvia un processo di disgregazione economica.

di Giuseppe Zaccagni

Quella leggendaria di Mao Tze Tung cominciò nell’ottobre del 1934. Per 10mila chilometri le forze rivoluzionarie cinesi si spostarono dal Kiangsi alla regione dello Shaanxi settentrionale. Qui, una volta arrivati, i comunisti si stabilirono nella città di Yen-an, dove Mao fissò il suo quartier generale dando vita ad una nuova repubblica comunista. Ora a muoversi, invece, saranno gli uiguri (un’agguerrita minoranza di musulmani sui circa 20 milioni esistenti in tutta la Cina) che rifiutano il potere di Pechino. E questo vuol dire che, dopo i tibetani, si apre un nuovo banco di prova per Hu Jintao. Siamo nella regione autonoma dello Xinijang, dove un’avanguardia di circa 200 uiguri (l'etnia musulmana maggioritaria nella regione) forte dei suoi legami con l’estero, protesta nel quartiere musulmano d’Urumqi contro la polizia cinese, posta in difesa di un quartiere dove risiede la popolazione d’etnia Han (maggioritaria). I manifestanti hanno armi improvvisate, come pugnali legati a bastoni, tubi e pietre con cui si trovano a fronteggiare cordoni di polizia e militari. Si registrano scontri quotidiani e in questa lotta emerge sempre più un leader degli uiguri. E’ una donna e si chiama Rebiya Kadeer ed è la presidente del Consiglio mondiale degli uiguri (Cmo).


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