Imprenditore e leader politico, al servizio del suo personale successo e della sua personale ricchezza ma sempre sostenuto da mani amiche e politicamente interessate al suo affermarsi, Silvio Berlusconi è stato un autentico terremoto nella vita politica italiana. A seguito della scomparsa della Democrazia Cristiana, azzerata da mani Pulite e seppellita da un fax del suo ultimo segretario nazionale, Mino Martinazzoli, in vista della dipartita del fu Partito Socialista, ridotto dal craxismo a organizzazione delinquenziale, i poteri forti di ispirazione atlantista decidono di tentare la carta dell’outsider, di operare un tentativo importante per evitare che la sinistra arrivi al governo del Paese.

Berlusconi appare l’unico in grado di portare a termine la missione, per difficile che sia, data la sua indubbia qualità di imbonitore con una rete nazionale mediatica a disposizione ed una struttura aziendale in grado di offrire supporto operativo.

Dopo aver invitato ai giovani ad andare a lavorare nei campi e a non stare sui divani, proprio lui, il ministro Lollobrigida, a cui doveva essere intestato il dicastero della famiglia per meriti acquisiti sul campo, si è prodotto in un diluvio di suprematismo che persino il sito del governo italiano di cui fa parte castiga con termini severi. Lui non poteva saperlo, per conoscere dovrebbe leggere e, per tradizione di famiglia, chi legge non parla e chi parla non legge.

Le cialtronate verbali di Lollobrigida non sono solo una sottolineatura dell’ignoranza crassa di cui il soggetto gode, caratteristica universalmente riconosciutagli. Fanno seguito alle infamie uscite dalla bocca di La Russa e alle castronerie di Rampelli, tutte inseribili nel solco aperto dalla premier per mancanza di voti.

Il governo Meloni continua a rendere lampante uno dei principali problemi del pensiero di destra: la tendenza ad affrontare problemi complessi con risposte semplici, elementari e quindi insufficienti. In pochi mesi abbiamo già avuto diversi esempi: era accaduto con il decreto Rave, poi con il decreto Carburanti e adesso – last but not least – con il decreto sui bonus edilizi. In tutti questi casi il governo ha prima emanato un provvedimento d’urgenza, immediatamente operativo; poi si è reso conto che il testo – formulato in modo rozzo, superficiale – creava problemi inizialmente imprevisti; infine, a poche ore dall’emanazione del decreto stesso, l’esecutivo si è detto disponibile modificare il pacchetto di misure. Senza alcun timore di risultare ridicolo, il governo ha annunciato per oggi un incontro con le associazioni di categoria interessate dal decreto sui bonus edilizi. Peccato che sia tardi: la fase del confronto e del dialogo, lo capisce anche un bambino, dovrebbe venire prima dell’emanazione del provvedimento, non dopo.

Abbiamo scoperto che i fratelli d’Italia, in realtà, non sono davvero tutti fratelli. Ci sono anche i cugini, i cugini di secondo grado e i parenti alla lontana che non senti nemmeno a Natale. È questa la morale della legge sull’autonomia differenziata cui la settimana scorsa il Consiglio dei ministri ha dato il via libera. Il progetto, partorito dalle meningi di Roberto Calderoli, punta a creare 21 Regioni a statuto speciale, cancellando ogni possibilità di colmare le differenze economiche e sociali che fratturano il Paese. Non solo: questa legge stabilisce in via definitiva che la sperequazione Nord/Sud è giusta e va mantenuta così com’è, perché - in fondo - i ricchi settentrionali sono più meritevoli, e quindi hanno diritto a godere di servizi migliori rispetto ai poveri meridionali.

Dopo i pastrocchi su Pos e accise, è già chiaro quali saranno le prossime tre mine sul percorso del governo: autonomia differenziata, ratifica del Mes e concessioni balneari. Il primo è un tema divisivo all’interno del centrodestra, perché, in sintesi, la Lega vuole abbandonare il Sud al proprio destino, mentre Forza Italia e meloniani continuano ad avere interessi elettorali e clientelari da coltivare anche nel Mezzogiorno. Il secondo e il terzo tema rischiano invece di creare fratture fra maggioranza parlamentare e governo, perché minacciano di avere ripercussioni sui (già difficili) rapporti fra Palazzo Chigi e Bruxelles.


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