di Elena G. Polidori

La Chiesa non fa politica. Ma detta la linea ai politici e pretende obbedienza. Mentre un nutrito drappello di parlamentari, democristiani di ieri e teocon di oggi, planavano su Verona con volo speciale (spiccavano, dopo Romano Prodi, Rosy Bindi, Pier Ferdinando Casini, Buttiglione ed Enzo Carra ) per dimostrare ancora una volta il proprio ossequio ai diktat d’Oltretevere, in uno stadio Bentegodi stracolmo e ridondante di fischi verso Prodi e Berlusconi, Benedetto XVI cominciava a leggere le trenta cartelle del suo discorso. Che passerà alla storia come l’apoteosi dell’ipocrisia cattolica e la ferma volontà di Santa Romana Chiesa di non mollare neanche un minuto la propria pressione ed ingerenza sulla politica e nel tessuto connettivo laico del Paese. In puro stile Ratisbona, il Papa ha tenuto un'altra solenne “lezione magistrale”, stavolta senza scivolare in citazioni ambigue nei confronti dell'Islam, ma sparando con grande chiarezza contro i laici, l’amore gay e i soliti pacs: oscurantismo di una Chiesa che “non fa politica”, ma che pretende di governare, obbligando la politica all’obbedienza. E con raggelante successo.

di Agnese Licata

Privatizzare la Rai. A partire da RaiUno. E' la “palla in tribuna”, lanciata da Pier Ferdinando Casini, a proposito del futuro della televisione di Stato. Che un’idea del genere provenga da uno degli orgogliosi eredi della Dc - il partito che ha fatto della lottizzazione, del legame tra politica e servizio pubblico, la regola e il modello a cui, ancora oggi, tutti continuano a “ispirarsi”, a destra come a sinistra – è quanto meno singolare. Ma non stupisce neppure. E per due ordini di motivi, uno politico e l'altro squisitamente personale, intimamente legati tra loro. Il primo riguarda il tentativo del presidente Udc di riportare il tema della discussione intorno al servizio pubblico tv e di riproporre la privatizzazione Rai introdotta dalla Gasparri e che, invece, il governo vorrebbe accantonare – giustamente - una volta per tutte. Un modo, dunque, per mettere in difficoltà la coalizione di centrosinistra che sul tema del futuro ruolo della Rai nel panorama mediatico del Paese non è affatto coesa. Il secondo, invece, è legato al fatto che uno degli imprenditori italiani da sempre interessato ad entrare nel mercato televisivo come azionista è Gaetano Caltagirone, padre della sua attuale compagna Azzurra: e scusate se è poco.

di Sara Nicoli

“Banditi”. Era dai bei tempi della campagna elettorale che l’ex premier non indulgeva più in quell’eloquio colorito verso la sua opposizione che lo ha reso famoso all’estero più della sua politica internazionale. Ma ieri è stato un giorno davvero particolare, diverso, dal sapore antico. Il Cavaliere era a Campobasso quando è stato raggiunto da una telefonata che lo ha colpito al cuore come una stilettata a freddo: il governo aveva appena varato all’unanimità un ddl di riforma della “sua” legge Gasparri che, in un colpo solo, tagliava a Mediaset la metà degli introiti e la rendeva orfana, entro il 2009, di una delle tre reti. Il leader azzurro, per un momento, è rimasto sgomento: “Non ci posso credere”. Poi ha cominciato a realizzare che il governo Prodi aveva appena dato il primo colpo di piccone al suo storico conflitto di interessi. E che persino Di Pietro, con il suo giustizialismo spiccio ma spietato, aveva addirittura strappato in Consiglio dei Ministri la riforma dell’Auditel e il conseguente stop al controllo surrettizio degli ascolti da parte degli amici del padrone.

di Giovanna Pavani

L'organo di stampa di An, quello ufficiale, esclusi cioé tutti quelli pubblici conquistati, si avvia a chiudere. Non é il mercato, non è la perfida Albione, non é il bolscevismo: é Fini che lo chiude. Lo ha detto a chiare lettere a colonnelli, caporali ed attendenti riuniti per discutere di politica e obbligati adesso a discutere di altro. Finiti i bei tempi del ventennio, passati pure quelli del quinquennio, la politica, se non la storia, presenta il conto. La prende male Maurizio Gasparri: “Mi dispiace, ma sul “Secolo” non sono e non posso essere un osservatore distaccato. Sono entrato là come abusivo e ne sono uscito da direttore. Anzi, non ne sono uscito affatto perché sono in aspettativa”. Pur confondendo le ragioni del cuore con i contributi previdenziali, Gasparri ha incassato peggio di altri colonnelli di via della Scrofa l’intenzione del presidente di An di far sparire anche l’ultima fiammella del loro passato: chiudere Il Secolo d’Italia.

di Giovanna Pavani

Non è stato certo un fulmine a ciel sereno, ma la tempistica la dice comunque lunga sul clima che si respira dentro i Ds alla vigilia dell’assise orvietana che dovrebbe apporre il sigillo definitivo alla nascita del Partito Democratico. Ieri, insomma, mentre sferragliavano sulle agenzie di stampa le più varie dichiarazioni su una Finanziaria tutta da dimenticare, Cesare Salvi, presidente della commissione Giustizia della Camera, ha fatto cadere l’annunciato sasso nello stagno: “Ad Orvieto noi non ci saremo”. La sinistra Ds si chiama dunque ufficialmente fuori da un matrimonio, quello tra Ds e Margherita, che era sembrato stargli stretto fin dagli esordi. E che oggi, dopo il “niet” dei rutelliani più accesi al possibile ingresso del Pd nella casa socialista europea (Pse), sembra quasi un insopportabile affronto alle radici stesse della Quercia.


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