di Carlo Musilli

Dopo aver tinto di nero l’acqua del Golfo del Messico, la più famigerata fra le compagnie petrolifere del pianeta ha cambiato elemento. È passata all’aria. Purtroppo, infatti, la Bp non si limita ad estrarre petrolio. Il greggio succhiato dalle piattaforme oceaniche come la Deepwater Horizon, esplosa lo scorso 20 aprile, viene spedito sulla terraferma per essere lavorato nelle raffinerie. Una di queste si trova nella cittadina portuale di Texas City. Ed è qui che la Bp ha combinato il suo ultimo disastro.

Per 40 giorni, un guasto ad un dispositivo dello stabilimento ha causato la dispersione nell’atmosfera di 250 tonnellate di gas tossici. Compreso il benzene, altamente cancerogeno. Gli uomini della Bp erano perfettamente consapevoli di quanto stava accadendo. Irreprensibili come sempre, non hanno fatto assolutamente nulla. Interrompere i lavori della raffineria per riparare il guasto, infatti, sarebbe stato troppo costoso. Molto più conveniente la strada opposta: alzare i ritmi per cercare di bruciare il gas prima che si disperdesse. Un espediente astuto ma inefficace. Il gas era troppo. Agli ingegneri Bp capita spesso di sopravvalutarsi.

E le persone che abitano e respirano in quella zona? Né loro, né le autorità locali sono state avvisate del pericolo. L’hanno  capito da sole quando hanno iniziato a tossire. La Bp ha ammesso il guasto soltanto due settimane dopo averlo riparato. Un po’ come certi bambini che dopo la marachella fanno finta di niente e, davanti all’evidenza, ti guardano circospetti per capire quanto sei arrabbiato.

In risposta, gli abitanti di Texas City hanno presentato alla compagnia una class action da 10 miliardi di dollari. Il procuratore generale Greg Abbot ci ha messo del suo, multando la Bp per 600 mila dollari. Spiccioli per la merenda, se le tasche sono quelle di un colosso del petrolio, ma le buone intenzioni sono sempre lodevoli.

La Bp però non ci sta a recitare sempre la parte del lupo cattivo e si difende sostenendo che le sue cinque centraline per il controllo dell’aria non hanno mai segnalato un livello eccessivo d’inquinamento. Gli ambientalisti fanno notare che cinque centraline sono una miseria. E poi c’è sempre la questione dei sintomi. Escludendo piaghe bibliche e maledizioni stregonesche, i vapori tossici della Bp sembrano una spiegazione piuttosto plausibile all’impennata di malattie registrata nella cittadina texana. Tosse, dissenteria, insufficienze respiratorie. In quasi tutte le famiglie residenti nella strada più vicina alla raffineria si è ammalata almeno una persona. “Sono angosciata all’idea che un giorno i miei figli si ammalino di qualcosa che avremmo potuto prevenire se qualcuno ci avesse avvistato in tempo”, ha detto una donna del posto.

Le avventure della compagnia petrolifera più amata dagli americani non sono ancora finite. Vale la pena di ripercorrere il passato per mettere a fuoco quello che succede oggi. Il New York Times ricorda che cinque anni fa, nella stessa raffineria di Texas City, un’esplosione aveva causato la morte di 15 persone e il ferimento di altre 170. Per l’incidente, l’amministrazione federale multò la Bp per 87 milioni di dollari. La compagnia, forse spinta da quanto accaduto negli ultimi 5 mesi, si è decisa a pagare soltanto pochi giorni fa, arrivando ad un forfait (si fa per dire) di 50,6 milioni. Se questo ancora non fosse abbastanza, nel 2009 la raffineria è stata denunciata, ancora una volta, dal procuratore generale, per aver violato ben 72 volte nei cinque anni precedenti il limite di inquinamento atmosferico consentito.

Tutto questo aiuta a farsi un’idea di quanto la Bp si preoccupi di manutenzione, controlli e sicurezza. Ma il punto non sembra tanto l’incompetenza di tecnici e ingegneri, quanto la malafede, l’indifferenza di chi sa che un’eventuale punizione è un rischio accettabile rispetto al sicuro profitto. Di fronte a un’equazione così sbilanciata, delle regole si può fare a meno, e tutte le scelte diventano improvvisamente semplici.   
      

di Alessandro Iacuelli

Otto persone denunciate, sei container, tre furgoni e due discariche abusive poste sotto sequestro. E' il bilancio dell'operazione condotta dal Corpo Forestale in collaborazione con l'Interpol, con al centro un grande traffico di rifiuti speciali, prevalentemente componenti di elettronica ed elettrodomestici, che dalla provincia di Reggio Emilia si avviavano verso l'Africa. L'operazione ha condotto alla denuncia di alcuni africani di un italiano e di un cittadino olandese, proprietario di una ditta di import-export.

C'è voluta un'intensa attività di intelligence, condotta dal personale del Corpo forestale, su sollecitazione del Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia, per scoprire come avveniva la raccolta, il trasporto e lo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi, ma anche per arrivare al sequestro di una discarica abusiva nella quale confluivano autovetture demolite illegalmente.

Le indagini, sotto la direzione della Procura della Repubblica di Reggio Emilia, hanno portato come primo intervento al sequestro di tre furgoni, privi di targa, a Vezzano sul Crostolo. I mezzi contenevano trenta frigoriferi, computer, fotocopiatrici, stampanti destinati a Paesi come Congo, Ghana e Nigeria. Due dei tre furgoni erano posteggiati su un piazzale pubblico, mentre il terzo era custodito in un'area privata, di proprietà di un cittadino congolese, residente in Italia.

In seguito, su segnalazione di alcuni informatori, gli agenti della Forestale hanno sequestrato nel Comune di Correggio, sempre in provincia di Reggio Emilia, una discarica abusiva presso la quale un italiano conduceva in modo illegale l'attività di autodemolizione. Infine, nell'azienda di proprietà del cittadino olandese, situata nel Comune di Reggio Emilia, sono stati trovati, nascosti all'interno di sei container e di un furgone, diversi oggetti tra cui: televisori, videoregistratori, computer, fax, climatizzatori, cucine a gas, forni elettrici e cofani di autoveicoli. C'è anche un ghanese residente a Parma tra i denunciati, secondo la Procura avrebbe raccolto i rifiuti pericolosi sul territorio, contribuendo così a farli arrivare proprio nella sua terra d'origine, infatti i materiali erano destinati a Paesi come Congo, Ghana e Nigeria.

Che paesi come il Congo, la Nigeria, la Costa d'Avorio, siano i terminali ultimi dei rifiuti pericolosi europei non è purtroppo una novità, mentre che ora il Ghana stia diventando una destinazione privilegiata degli scarti più inquinanti e velenosi del nostro benessere potrebbe suonare come una sorpresa, alle orecchie di chi magari conosce l'Africa ma non gli ultimi sviluppi.

Già, il Ghana, primo Paese africano ad ottenere l'indipendenza nel 1957, è considerato oggi un modello riuscito di democrazia. Infatti, dopo un periodo caratterizzato da continui golpe militari, il Paese si è indirizzato verso la democrazia accompagnando il processo politico con una ristrutturazione economica. Infatti il Ghana, pur presentando diversi punti di forza e un sistema economico tra i più sviluppati dell'area, sta attraversando un processo di totale rifacimento di alcuni settori strategici, processo che potrebbe ulteriormente aumentarne la competitività ed attirare nuovi investimenti stranieri.

Con questa logica, l'Esecutivo ghanese ha deciso di puntare nel 2010 sulla modernizzazione del settore agricolo, impegnando maggiori risorse per i lavori pubblici e per il settore delle telecomunicazioni, investimenti per il miglioramento dell’efficienza energetica. Secondo il Ministro dell’economia, il prodotto interno lordo del Paese crescerà del 6,5% rispetto al 4,7% del 2009, con un incremento del 6,2% del settore agricolo e del 3,8 per l’industria. Cifre da Paese emergente.

E non c'è solo agricoltura: il Ghana è il secondo produttore africano di oro. Nella zona orientale è in programma la ricostituzione della Ghana Diamonds Company (RSC), una compagnia statale, pur con la presenza di capitali provenienti da imprese straniere, che ha come obiettivo il rafforzamento delle capacità dei minatori artigianali e delle imprese minerarie di migliorare. La compagnia, permettendo ai minatori di piccola scala di continuare ad operare sulle sue concessioni, aiuta a creare nuovi posti di lavoro. E i guadagni derivanti dall'oro, quando sono guadagni di imprese straniere, vengono tassati in un modo insufficiente. La politica fiscale verso gli imprenditori esteri è però da riformare con urgenza: nel 2007 il Ghana ha prodotto 83,6 tonnellate di oro ma soltanto il 10% del gettito fiscale totale locale proveniva dall’industria mineraria e le sue attività contribuivano soltanto al 5% del PIL.

E' allora evidente che sono troppi i vantaggi fiscali concessi a chi sfrutta l'oro, come nella maggior parte dei Paesi africani. Ad esempio, le società minerarie, quasi tutte europee, sono esenti da dazi sul carburante e l’importazione di macchine, pagano una percentuale fiscale inferiore e possono ridurre la base imponibile mediante deduzioni speciali. Tutto questo sta per essere modificato dall'attuale governo. E allora, se c'è l'oro, che bisogno c'è di importare rifiuti pericolosi per pochi spiccoli?

Nonostante le convenzioni internazionali vietino l’esportazione di rifiuti pericolosi nei Paesi in via di sviluppo (di solito del tutto privi delle infrastrutture adatte a smaltire, almeno secondo i parametri internazionali sulla difesa ambientale e della salute) ogni mese arrivano dall'Europa e dal Nord America - di solito nel porto di Tema - circa 600 container che scaricano le loro apparecchiature obsolete e le scorie degli idrocarburi.

E un tipo di affare che il Ghana, come gli altri Paesi del Golfo di Guinea, non possono permettersi. Tra i rifiuti elettronici e gli idrocarburi, materiali altamente velenosi, fin troppo spesso si sono annidati altri pericoli ambientali ancora più velenosi: tutto il marcio della società occidentale, marcio del quale le nostre beneamate industrie vogliono liberarsi a basso costo. Purtroppo, solo ora il Paese sta studiando l’inserimento di una clausola di trasparenza contrattuale che regoli l’attività petrolifera. Clausola che ancora non c'è. E' questo il punto focale, sul quale si gioca il futuro del Ghana.

La trasparenza dei contratti è l'unico modo per poter realizzare una gestione responsabile delle risorse naturali. Solo l'eliminazione delle clausole di riservatezza sui contratti stipulati tra le compagnie private e il Governo può ridurre il rischio di corruzione, la rinegoziazione dei contratti stessi e l'ingresso nel Paese di materiali pericolosi. Solo la trasparenza obbligatoria può fungere da deterrente alle operazioni illegali. Prova ne sia il fatto che noi, in Italia, stiamo sacrificando la trasparenza proprio nel nome delle gestioni commissariali emergenziali,  dai rifiuti in Campania, al terremoto aquilano, perfino per i mondiali di ciclismo a Varese.

Senza quella trasparenza, si troverà sempre un ghanese disposto a raccogliere i rifiuti tossici di Reggio Emilia per mandarli in Ghana, si troverà sempre un mafioso casertano disposto a raccogliere altri rifiuti tossici e spedirli in Campania. Costa poco e rende molto.

di Emanuela Pessina

Cresce l'indignazione tra i consumatori di tutta Europa dopo la recente scoperta di Food Standard Agency (FSA) in merito alla clonazione di bovini. L'ente britannico di vigilanza sugli alimenti ha parlato di due tori clonati immessi sul mercato inglese la cui carne, secondo quanto ha ammesso un portavoce, "verrà, in un futuro prossimo, mangiata”. Si tratta della prima prova tangibile dell’esistenza di un mercato di animali clonati in Europa: un mercato di cui si è sempre sospettata l’esistenza, ma che i politici del Vecchio continente spacciano per “vietato”. E per cui i consumatori non hanno ancora dato i l loro consenso.

In particolare, la FSA ha parlato ufficialmente di otto embrioni nati in provetta grazie al materiale genetico di una mucca statunitense e venduti poi a grossisti europei: si tratta di bestie di razza Holstein, una tra le tipologie di bovino da latte più diffuse in tutto il mondo. Secondo le informazioni dell'ente britannico, uno degli animali è morto alla nascita, mentre agli altri è toccato il destino dei bovini tradizionali: alcune bestie sono state macellate, altre vivono tuttora nelle mandrie comuni. E tra queste, appunto, ci sarebbero i due tori in questione. Che fine abbia fatto il latte proveniente dagli altri bovini, invece, rimane incerto.

Holstein UK, la società responsabile della registrazione dei pedigree dei bovini nelle aziende agricole in Gran Bretagna, ha smentito categoricamente la presenza di carne o prodotti clonati sul mercato e ha da subito cercato di ridurre la preoccupazione di consumatori ed enti di controllo. In commercio ci sarebbero sì due tori clonati, ha ammesso Holstein, e questi avrebbero generato circa 200 vitellini: la loro carne, tuttavia, non risulta essere mai stata venduta. In precedenza, Holstein aveva parlato di un solo toro clonato immesso sul mercato: la confusione è tanta, e non solo tra i consumatori, a quanto sembra.

Rimane oscuro il motivo per cui gli allevatori europei avrebbero comprato gli embrioni clonati. Food Standard Agency, da parte sua, non si è espressa in proposito, mentre Holstein ha tentato di giustificare la mossa con l'interesse del tutto estetico di alcuni fattori del Vecchio Continente. "La mucca originaria ha vinto nel 2002 un concorso molto rinomato negli Stati Uniti- ha spiegato Simon Gee, portavoce della Holstein, al quotidiano berlinese Tageszeitung- e un allevatore desiderava avere delle bestie altrettanto belle tra i suoi esemplari". Da qui sarebbe nata la questione: la compravendita di embrioni clonati è da ricondurre, secondo Gee di Holstein, a una "pura questione estetica". Sembra che, nel secolo della chirurgia plastica, abbia acquistato importanza anche lo status estetico delle vacche.

Inutile aggiungere che la spiegazione, tanto naive da sembrare una barzelletta, è poco credibile e lascia aperte parecchie incertezze. Ogni singolo embrione costa diverse migliaia di euro: cifre così elevate non si spendono per avere una mucca particolarmente bella a pascolo. Secondo i più esperti, gli allevatori avrebbero investito il loro denaro negli embrioni per approfittare di un esemplare particolarmente produttivo anche oltre la sua morte. Oltre che bella, la mucca statunitense replicata era probabilmente anche molto produttiva: grazie alla clonazione, l’esemplare potrà essere riprodotto diverse volte e a tempo illimitato.

Il processo di clonazione prevede l'impianto del patrimonio genetico di un animale prescelto- come la mucca in questione- in un ovulo non fecondato, così da permettere la riproduzione dell'esemplare stesso, cioè di un nuovo animale con lo stesso set di geni del primo. È una pratica già diffusa e accettata ufficialmente negli Stati Uniti, dove gli animali clonati, insieme ai prodotti da loro derivati, sono ormai entrati a far parte della catena alimentare umana.

E ora, la scoperta della FSA britannica offre la prova concreta dell'esistenza di un mercato di animali clonati anche in Europa dove, secondo gli esperti inglesi, i commercianti hanno le stesse possibilità che negli USA. Nel Vecchio Continente, infatti, il controllo legale arriva solo al primo anello della clonazione, alla vendita cioè degli animali direttamente clonati, e non si occupa della loro progenie e dei prodotti da questi derivati. FSA, in particolare, accusa la mancanza di un ordinamento comunitario chiaro e attento in questa direzione.

Anche perché ancora non sono chiari gli eventuali effetti dei prodotti clonati sulla salute dell'uomo: e i consumatori vorrebbero essere liberi di decidere se fare da cavie in questo senso oppure no. Secondo Christoph Then, dell'associazione Testbiotech, la carne clonata può causare all'uomo più malattie di quella naturale. L'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), da parte sua, non ha riscontrato nessun rischio per l’uomo, così come la sua partner statunitense, la Food and Drug Administration (FDA). I due enti, tuttavia, sono molto vicini al mondo delle potenti multinazionali chimiche, che vedono nella clonazione un ulteriore ampliamento del loro potere in campo alimentare.

A questo proposito, Then ha ricordato che “nessuno degli studi condotti finora sulla sicurezza degli alimenti clonati può essere considerato indipendente". Anche gli enti che si occupano della sicurezza del consumatore hanno degli interessi economici da difendere: e, anche in questo caso, il consumatore non può che indignarsi e riconoscersi negli interessi economici di Qualcun Altro.

 

di Michele Paris

Il governo di Rafael Correa e il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) hanno annunciato il raggiungimento di uno storico accordo che stabilisce un approccio inedito alla questione dello sfruttamento delle risorse naturali in aree ecologicamente sensibili. Grazie a questa iniziativa, l’Ecuador verrà pagato per lasciare intatto il Parco Nazionale Yasuní, al di sotto del quale si trovano giacimenti petroliferi che potrebbero generare centinaia di milioni di barili di greggio.

A ufficializzare il progetto, alla presenza di esponenti del governo di Quito e di vari gruppi ambientalisti, è stata l’amministratrice dell’UNDP, l’ex vice-presidente della Costa Rica Rebeca Grynspan. Nei prossimi anni verrà creato un fondo nel quale dovrebbero finire 3,6 miliardi di dollari, in cambio dei quali l’Ecuador si impegnerà a non intervenire nella riserva della giungla amazzonica per almeno dieci anni. Nei tre giacimenti di Ishpingo, Tambococha e Tiputini risultano esserci ben 846 milioni di barili di petrolio, pari a circa il venti per cento delle riserve complessive del paese sudamericano.

L’istituzione del fondo fiduciario è stata definita dalla numero uno dell’agenzia dell’ONU “storica, non solo per l’Ecuador ma per l’intero pianeta”. Il fondo riceverà già nel prossimo anno e mezzo un minimo di cento milioni di dollari e tra i donatori ci saranno governi esteri, organizzazioni non-governative, filantropi e compagnie private. Il totale delle entrate previste dovrebbe alla fine ammontare alla metà dei profitti che l’Ecuador si assicurerebbe in caso di sfruttamento delle riserve presente nel sottosuolo del Parco Nazionale di Yasuní.

La gestione del progetto sarà affidata alla stessa UNDP, al governo ecuadoriano, ai rappresentanti della società civile e a quelli dei donatori. Il fondo rimarrà intatto e servirà come garanzia nel caso l’Ecuador decida di procedere all’estrazione del petrolio in futuro. Tra i paesi che hanno già manifestato interesse nell’iniziativa ci sono la Spagna, il Belgio e soprattutto la Germania, che dovrebbe contribuire a breve con 50 milioni di euro. Una delle negoziatrici dell’accordo, intanto, sta per iniziare un tour dei paesi arabi per raccogliere ulteriori donazioni.

Studiata dalle associazioni ambientaliste da almeno un decennio, la proposta di ricevere denaro in cambio della rinuncia allo sfruttamento del petrolio sul proprio territorio era stata ufficialmente avanzata all’assemblea delle Nazioni Unite nel settembre di tre anni fa dal presidente Correa. Sebbene avesse immediatamente incontrato il favore di gran parte della comunità internazionale, il piano ha dovuto fronteggiare diversi ostacoli e più di una volta era sembrato sull’orlo del collasso.

Lo stesso governo di Quito aveva lanciato segnali contraddittori nel corso dei negoziati. Tuttavia, la società civile ecuadoriana e, in particolare, le popolazioni indigene che vivono nell’area protetta, hanno aumentato le pressioni, contribuendo a far crescere la popolarità del progetto a livello internazionale. Un’intraprendenza, quella degli indios, sancita dalla stessa nuova Costituzione dell’Ecuador e che rappresenta il motore della resistenza ad una logica di sfruttamento indiscriminato delle risorse del sottosuolo.

In un’area di quasi 10 mila chilometri quadrati nella foresta amazzonica ecuadoriana - dichiarata Riserva della Biosfera dall’UNESCO nel 1989 - vivono in un isolamento volontario poche migliaia di indigeni Huaorani e Taromenane. Qui si riscontra la presenza d’innumerevoli specie animali e vegetali; una eccezionale bio-diversità, sostengono i biologi, determinata dall’assenza di glaciazioni che ha permesso ad animali e piante di sopravvivere, mentre era impossibile farlo altrove. Oltre a conservare intatto il parco Yasuní, la mancata estrazione del petrolio eviterà l’immissione in atmosfera di qualcosa come 410 milioni di tonnellate di C02.

Gli interessi generati dal fondo saranno investiti per la conservazione del parco stesso e per quella di una quarantina di altre aree naturali in territorio ecuadoriano. A beneficiare dell’iniziativa saranno però anche programmi sociali ed energetici alternativi. La priorità verrà assegnata proprio alla promozione della salute e dell’educazione degli indigeni della foresta amazzonica, duramente colpiti dalle conseguenze dello sfruttamento petrolifero degli ultimi decenni.

L’accordo, nei programmi del governo centrale, dovrebbe inoltre contribuire a porre fine, quantomeno nel lungo periodo, alla dipendenza dell’Ecuador dal petrolio. Il Paese, membro dell’OPEC, esporta quotidianamente poco meno di mezzo milione di barili di petrolio, proveniente principalmente da giacimenti situati nella regione amazzonica orientale e trasportati sulla costa del Pacifico da due oleodotti.

Nel frattempo, il caso del Parco Nazionale Yasuní sancisce un nuovo possibile modello di sviluppo, auspicabilmente esportabile in altre realtà. Una soluzione condivisa tra le diverse componenti di una società democratica che fornisce una chiara alternativa ai meccanismi di mercato fissati dal Protocollo di Kyoto - e dal trattato che lo dovrebbe sostituire nel prossimo futuro - per il contenimento delle emissioni inquinanti nell’atmosfera.

di Carlo Musilli

Finché la catastrofe resta lontana migliaia di chilometri ci si può permettere una partecipazione, un interesse di circostanza. Quando il pericolo arriva vicino casa, è il momento di farsi prendere dalla preoccupazione reale. Entro un paio di settimane la British Petroleum, la compagnia petrolifera che ha massacrato l’ecosistema dell’Atlantico centrale e le economie dei paesi vicini, inizierà a scavare un pozzo per l’estrazione di petrolio e gas nel Mediterraneo. A 560 km dalla Sicilia, 591 da Lampedusa.

Per la precisione nel golfo libico di Sirte, lo stesso su cui Gheddafi nei primi anni ’80 ha affermato la sua suprema autorità e dove per tutta risposta nel 1986 una spedizione americana, inviata da Reagan, ha affondato due navi libiche, uccidendo più di 30 persone. Il nuovo pozzo sarà a 1.700 metri di profondità, 200 in più rispetto a quello nel Golfo del Messico.

I sospetti sull’origine di questa nuova fatica della Bp non mancano: pare sia legata alla liberazione di Abdel al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie. Facciamo un passo indietro. Il 21 dicembre 1988, sulla cittadina scozzese di Lockerbie, si schiantano i resti del volo PA 103 della Pan Am, esploso in cielo per la detonazione di un ordigno nascosto nella stiva. Muoiono 270 persone (fra cui 189 americani). Abdel Basset al-Megrahi, ex agente dei servizi segreti libici, viene giudicato colpevole dell’attentato e condannato all’ergastolo nel 2001. Secondo la legge britannica dovrebbe passare in carcere almeno 27 anni, invece il 20 agosto 2009 viene liberato “per ragioni umanitarie”.

Il terrorista - a quanto dicono - è malato terminale di cancro alla prostata, vivrà al massimo altri tre mesi. Seif al-Islam, figlio di Gheddafi, lo va a prendere con l’aereo personale di papà. In patria, al-Megrahi è accolto come l’eroe il cui sacrificio ha permesso la revoca dell’embargo. Peccato che il terrorista non avesse nessuna intenzione di morire entro tre mesi. Non solo è ancora serenamente fra noi, ma lo scorso quattro luglio lo stesso medico che gli aveva pronosticato una morte imminente ha ammesso che potrebbe vivere tranquillamente altri dieci anni.

Veniamo alla Bp. Nel 2007 Tony Hayward, grande capo della compagnia, firma con Tripoli un contratto da 900 milioni di dollari per iniziare l’esplorazione dei fondali libici. Ma il via alle operazioni viene dato, guarda caso, soltanto due anni dopo. Quando al-Megrahi è tornato finalmente a casa.

Il Senato americano ha chiesto a Hayward di presentarsi giovedì davanti alla Commissione per le relazioni internazionali. Gli chiederanno quali pressioni la Bp abbia esercitato sul governo britannico. Le indagini sono partite su richiesta di Frank Lautenberg, senatore democratico del New Jersey. A lui si sono associati altri tre senatori, fra cui Bob Mendez, secondo cui “ci sono evidenti ragioni di credere che questo terrorista sia stato rilasciato sulla base di false informazioni circa la sua salute”.

La Bp ha già negato ogni coinvolgimento. Andrew Gowers, portavoce della multinazionale, ha dichiarato che la compagnia “era consapevole che un rinvio (dell’accordo con la Libia per il trasferimento di prigionieri, ndr) avrebbe potuto avere conseguenze negative per gli interessi commerciali britannici, inclusa la ratifica del contratto della Bp per l’avvio delle esplorazioni, (…) ma non ha mai espresso un parere specifico sulla forma di accordo da prendere”.

Non ci sono prove né che la Bp abbia spinto per il rilascio del terrorista, né che il governo britannico abbia preso quella decisione a tutela di un mero interesse economico. In ogni caso il fatto in sé, per quanto privo di moralità - ed è questa la cosa più sconvolgente - non sarebbe illegale, a meno che non si riesca a dimostrare un effettivo atto di corruzione. Solo la volgare mazzetta farebbe la differenza fra un’azione politica sporca ma abituale e un reato effettivamente perseguibile, fra realpolitik e crimine.

Per dare un’idea del livello di raffinatezza raggiunto dalla diplomazia del capitalismo, è interessante ricordare che all’inizio di luglio il più importante dirigente libico del petrolio ha auspicato che il suo paese investisse nella Bp per avvantaggiarsi del calo dei prezzi dovuto ai “problemi” della compagnia. Non male come investimento quando 900 milioni sono già in cassa.

Nel frattempo Italia, Grecia e Malta non hanno commentato il progetto del nuovo pozzo, mentre schiere di ambientalisti di tutto il mondo temono che si cominci a trivellare davanti alla Libia prima che si concludano le inchieste su quello che è accaduto nel Golfo del Messico. Il Mediterraneo è già uno dei mari al mondo più inquinati dal petrolio ed è chiuso quasi come un lago: il ricambio delle acque superficiali attraverso lo stretto di Gibilterra si completa ogni 90 anni. Anche un piccolo incidente potrebbe avere conseguenze irreversibili.

Per tutta risposta, gli uomini della Bp hanno fatto sapere che “procederanno con grande cautela” e che “faranno tesoro della lezione imparata” nel Golfo del Messico. Davvero rassicurante, detto da una società che per dare di sé un’immagine laboriosa ha diffuso fotografie del suo “Centro crisi” di Huston malamente ritoccate con Photoshop.

 

 


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