di Alessandro Iacuelli

Tutto era cominciato anni fa, quando furono notate in pieno golfo di Napoli, nella zona dello scoglio di Rovigliano tra Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, delle chiazze rosse che le correnti in qualche caso hanno spinto fino a Capri. Così, periodicamente, il mare si arrossa, da anni. In tanti si sono chiesti il perché, in tanti hanno indagato, raggiungendo una conclusione, ampiamente diffusa dalla stampa negli anni passati: scarti di pomodoro.

Il Sarno, si sa, attraversa tutta la piana di San Marzano, patria del rinomato pomodoro, che però da qualche anno subisce un po' la crisi. Così, nella piana sarnese tutti sanno che il Sarno si arrossa perché riempito dei San Marzano non venduti. Un'idea geniale, poco allarmistica, che si limita a dare tanta tristezza per quei poveri pomodorini gettati in acqua. Peccato che poi, in tempi più recenti, qualcuno abbia provato a prelevare questi scarti rossi e ad analizzarli. Così si è scoperto che i San Marzano non c'entrano nulla, e che non sono scarti vegetali quelli arrivati fino a Capri.

Vernici delle concerie di Solofra. Ecco l'origine del rossore delle acque. Rifiuti speciali altamente velenosi, rilasciati nel Sarno, divenuto discarica per lo smaltimento a basso costo. Con buona pace per tutti i soldi pubblici spesi negli anni scorsi per bonificare il fiume, il più inquinato d'Europa. Il quartier generale traffico di rifiuti speciali era situato in un appartamento di Nocera Superiore. Appartamento abitato da qualcuno che non poteva certo allontanarsi, in quanto agli arresti domiciliari. Si tratta di Alfonso Russo, 43 anni, noto usuraio.

Uno strozzino in passato catturato, processato e condannato. Ma ai domiciliari. Così l'uomo, secondo i carabinieri del NOE, non potendo uscire di casa, aveva ideato e costruito assieme ad altre persone un servizio di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti dell'industria conciaria, con l'interessante sconto del 50 per cento. Tariffa molto conveniente per ben 17 aziende, tra cui alcune concerie di Solofra in provincia di Avellino, ma anche di altre industrie situate tra Nocera e Sarno.

L'indagine dei carabinieri del Noe, che hanno ricostruito tutta la filiera dei veleni, si è conclusa con 50 indagati, di cui 13 colpiti da misure cautelari. Alfonso Russo ha così perso i domiciliari e, con altre tre persone, va in carcere; poi due bloccati ai domiciliari, obbligo di dimora per cinque, firma in caserma per due. Questo fino al processo, poi si vedrà. Per le 17 aziende è scattato il sequestro preventivo. Sono affidate a custodi giudiziari. Le indagini proseguono per scoprire altri complici, magari nella pubblica amministrazione.

Certo, il Sarno è stato bonificato. Ci sono voluti milioni di Euro ed un commissariato straordinario per fare la bonifica. Dopo gli interventi realizzati dal commissariato straordinario, lo sversamento nel fiume era diventato più difficile, per cui i titolari delle aziende conciarie e conserviere erano ricorsi a sistemi alternativi. Russo aveva saputo cavalcare questo "bisogno" degli industriali, mentre ci stiamo chiedendo chi prenderà il suo posto già da domani, dopo l'arresto.

Le 17 aziende sequestrate dovevano smaltire scarti delle loro lavorazioni, tra cui anche i famosi San Marzano per quanto riguarda le industrie conserviere, ma anche scarti della lavorazione dei pellami. Per smaltire questi rifiuti, il costo è di poco inferiore ai 100 euro a tonnellata e se un'azienda deve smaltire centinaia, o migliaia, di tonnellate all'anno, si intuisce come il costo annuo diventi elevato. Ad aggravare la situazione, c'è anche da osservare che in Campania non c’è un impianto regolare che smaltisca questo genere di rifiuti. Pertanto, chi vuole smaltirli legalmente e regolarmente, deve inviarli in uno dei due impianti autorizzati. Uno a Bologna, l'altro nei pressi di Catania, con tutto quello che comporta sotto il profilo dei costi di trasporto.

E' in questa situazione, che di sicuro non aiuta chi vuole rispettare la legalità, che si è inserito Alfondo Russo e la sua organizzazione: 50 Euro a tonnellata ed il trasporto da pagare non è più da Solofra a Catania o a Bologna, ma fino a Nocera. In questo modo, l'usuraio si è trasformato in imprenditore e, in collaborazione con due proprietari di cave, ha creato un’industria parallela dello smaltimento dei rifiuti, naturalmente completamente clandestina.

I rifiuti era trasportati di notte per evitare controlli e sversati direttamente nel fiume Sarno o nelle cave. Secondo i militari che hanno effettuato le indagini, il guadagno, che è ancora da quantificare, è di decine di milioni di Euro all'anno. Con buona pace anche per un altro prezzo, che non pagano certo gli industriali che vogliono risparmiare sullo smaltimento dei rifiuti: il divieto di balneazione nel golfo di Napoli, i divieti di pesca, la salute di tutti i cittadini.

Così nel Sarno, di recente bonificato, sono finiti scarti della lavorazione del cuoio conciato, cascami, polveri di lucidature, che contengono un bel po' di cromo, ma anche miscugli o scorie di cemento, mattoni, mattonelle e ceramiche, scarti della separazione meccanica nella produzione di carta e cartone. Tutto grazie ad un professionista dell'inquinamento. Che ora deve lasciare il campo ai "colleghi" che già premono per mettere la mani sull’affare, pronti ad offrire ai signori industriali nuovi sconti sullo smaltimento dei rifiuti speciali, per aiutarli ad uscire dalla crisi.

Come risolvere il problema? Intanto, sono tredici gli imprenditori e industriali arrestati dai carabinieri del Noe. Tutti regolarmente iscritti alla loro organizzazione di categoria, Confindustria. Ci aspetteremmo quindi da parte dell'organizzazione una bella presa di posizione, piuttosto che il semplice fornire assistenza ai propri iscritti. Ci sarà?

 

di Alessandro Iacuelli

Il Consiglio dei Ministri ha appena esaminato una bozza di decreto legge, naturalmente d'urgenza, che prevede la sospensione, fino al 31 dicembre 2011, di tutte le ordinanze di demolizione degli immobili abusivi della provincia di Napoli. In particolare quelli dell'isola di Ischia, di cui ci siamo già occupati altre volte, su Altrenotizie, in occasione di sciagure ambientali e per le frane, con vittime, in un territorio dissestato proprio dall'abusivismo. Ovviamente il problema non ha un forte impatto solo su Ischia, basta pensare che solo in Campania, nell'arco di 10 anni, sono state scoperte 60.000 case abusive, con 64 clan camorristici che gestiscono un business del cemento fin troppo lucroso.

Per rendersi conto della dimensione dell'affare, sempre se la matematica non è un'opinione, 60.000 case abusive scoperte in 10 anni, quindi al netto del tanto "sommerso" non ancora individuato, significa una media di 6000 all'anno, che a sua volta significa 500 al mese, cioè 16 al giorno. E’ come se ogni giorno sorgessero 16 nuovi edifici, senza alcuna autorizzazione, spesso in zone non edificabili, dall'elevato valore naturalistico, idrogeologicamente dissestate, con rischio di frane, sopra discariche abusive, o senza fondamenta.

C'è chiaramente qualcosa che non quadra. A seguito dell'ultima frana ischitana, il governo ha inviato il Sottosegretario a capo della Protezione Civile, Bertolaso. La mancanza del rispetto dei piani regolatori era stata individuata come una delle cause del dissesto, e tanti lettori ricorderanno Bertolaso dire in tv, a nome del governo, quel "Mai più." A fargli eco il ministro delle Infrastrutture, Matteoli, che da Roma aveva dichiarato: "Non ci saranno mai più condoni edilizi, ma solo abbattimenti." Il decreto d'urgenza in esame, è stato proposto proprio da Matteoli. L'ennesima contraddizione di un governo che si autoproclama "dei fatti"? O altro?

Partiamo dallo scenario campano. Sono ben 32.176 le ordinanze di demolizioni emesse dai comuni della Campania, ma solo 669 quelle eseguite. Questo significa che in queste province solo il 2% delle ordinanze emesse dagli enti locali contro le costruzioni abusive hanno avuto concreta attuazione. E' un dato che fa riflettere, un forte indicatore della disattenzione generale verso il problema. Poi, nel 1985 e nel 1994, arrivarono i grandi condoni, seguiti da quello del 2003, che presentano numeri da brivido.

Complessivamente sono state presentate ben 183.436 domande di condono, di cui 106.878 relative ai condoni del 1985 e 1994, e 76.558 per quello del 2003. Non per una finestra in più o per una veranda. In certi casi, la richiesta di condono é per ville di tre piani. Le domande respinte sono state 16.622, cioè l'8% del totale. Non bisogna però pensare che il resto siano le domande accolte. Infatti l'89% delle richieste di condono - 160.000 domande - risultano ancora in "fase di accertamento". Dal 1885.

Ci si sarebbe aspettati un pressione, da parte dello Stato, per accelerare gli accertamenti, per accelerare gli abbattimenti di interi quartieri abusivi, invece è successo qualcosa, nel frattempo. E' successo che in Campania è cambiato il vento, e a prendere in mano il timone della Regione è stato Caldoro, dopo il misero fallimento del progetto di far diventare governatore una diretta espressione del clan dei casalesi. Ma Caldoro ha un problema in questo suo inizio dell'era post-bassoliniana: deve mantenere le promesse fatte in campagna elettorale e lui è stato il portabandiera del cosiddetto "abusivismo di necessità", frutto secondo lui del malgoverno del territorio, del clientelismo, della speculazione. Pertanto, lo stesso Caldoro si è trovato costretto a fare pressioni sul governo, sul suo partito, per ottenere qualche favore da dare agli abusivisti, ai suoi sostenitori elettorali.

Anche perché gli abusivi in Campania di certo non si nascondono, anzi. Sono gli abusivi che fanno i cortei di protesta contro le demolizioni, reclamando i loro "diritti". E' successo a Ischia, a Torre del Greco. Succederà ancora. Ecco allora arrivare il ministero delle Infrastrutture, retto dal paladino del "mai più condoni", a proporre una bozza di decreto, naturalmente urgentissimo perché deve arrivare prima delle ruspe, che fa il primo grande regalo alla camorra dell'era post-bassoliniana. Al momento è ancora in discussione, perché alcuni tecnici del ministero dell'Ambiente e del ministero dell'Interno hanno fatto notare che il decreto, così com’è scritto ora, rischia di far annullare gli effetti delle condanne penali inflitte ai costruttori abusivi.

Così, il governo italiano, mentre lancia proclami contro chi parla troppo di mafia, annebbiando "l'immagine del Paese", in un mondo dove l'apparire è più importante dell'essere, si piega e dà la sua benedizione agli affaristi del cemento, ma anche, come dichiara Michele Buonomo di Legambiente Campania, "un pessimo messaggio per il territorio e la sicurezza dei cittadini."

Chi si è arricchito a danno di chi ha rispettato il territorio, viene premiato. Non solo, si coglie l'occasione per un intervento esplicitamente rivolto a indebolire le norme per la repressione dell'abusivismo edilizio. La scusa? Ovviamente l'emergenza, l'urgenza. Il governo dice di avere la consapevolezza che l'attuazione del piano di demolizioni costringerebbe a trovare, in tempi stretti, una soluzione abitativa per migliaia di famiglie.

Un'emergenza grave, vista la carenza di abitazioni nel Napoletano. Caldoro applaude, e calca la mano ricordando che la Campania non ha usufruito di certe sanatorie del passato. Poi certo, bisognerà vedere se per fronteggiare l'emergenza abitativa c'è davvero bisogno delle migliaia di case a Ischia, vuote d'inverno e affittate a peso d'oro ai turisti d'estate, delle villette in penisola sorrentina, o delle oltre 10.000 costruzioni nel solo comune di San Cipriano d'Aversa. Il tutto senza censire le case sfitte, senza intervenire per frenare i canoni d'affitto selvaggi.

Il partito del cemento incassa subito un provvedimento su misura per nascondere, dietro situazioni di necessità, nuove speculazioni e degrado ambientale. Viene il serio sospetto che si tratti di un "decreto di ringraziamento".

 

 

di Alessandro Iacuelli

Sono 20 gli accordi, su nucleare, ferrovie, difesa e immigrazione, quelli siglati il nove aprile al vertice bilaterale tra Italia e Francia tenutosi a Parigi. E' "il segno chiaro della collaborazione concreta tra i due Paesi", come ha dichiarato Silvio Berlusconi nella conferenza stampa tenuta alla fine del vertice assieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. Nel campo nucleare, in particolare, sono 11 gli accordi firmati per il rientro dell'Italia nel nucleare, ma non in un nucleare qualsiasi, ma in quello francese. Infatti gli accordi sono a livello di industria, formazione e sicurezza, con l'uniformazione del sistema industriale italiano a quello transalpino.

Infatti, durante il vertice, il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo e il suo collega francese, Jean-Louis Borloo, hanno firmato un protocollo d'intesa che istituisce fra i due Paesi un "regolare sistema di scambio di informazioni e di esperti in materia di sicurezza nucleare, facilitando la collaborazione fra le due agenzie nazionali competenti in materia", l'Ispra e l'Asn. Le due agenzie hanno sottoscritto un accordo di collaborazione finalizzato allo scambio d’informazioni nelle questioni relative alla scelta dei siti, alla costruzione, la messa in opera e la dismissione di impianti nucleari, il ciclo del combustibile, la gestione dei rifiuti radioattivi,

Si tratta di quattro sezioni articolate in 15 articoli, per quanto riguarda il protocollo. Infatti è questo il punto principale dell’accordo tra i due organismi tecnici; si parte dalla premessa del "reciproco interesse allo scambio d'informazioni relative alle materie normative e agli standard richiesti o raccomandati dalle rispettive organizzazioni per la regolamentazione della sicurezza nucleare e dell’impatto ambientale delle installazioni e delle attività nucleari, inclusi gli impianti futuri, della gestione e il deposito finale del combustibile irraggiato e dei rifiuti nucleari nonché per la regolamentazione della radioprotezione".

L’articolo 6 dell'accordo tra Autorità di sicurezza francese e Ispra prevede inoltre una cooperazione più ampia nel campo della sicurezza nucleare, con lo scambio di informazioni sulla "legislazione, regolamentazione, guide di sicurezza e criteri tecnici in materia di normativa sulla sicurezza nucleare riguardante la localizzazione, il progetto, la costruzione, l’esercizio, la disattivazione degli impianti nucleari, la gestione dei rifiuti radioattivi e l’impatto ambientale". Previsto dall’accordo, anche lo scambio d’informazioni sulle procedure di autorizzazione, ispezione e di garanzia dell’esecuzione, di regolamentazione e metodologie di valutazione relative alla sicurezza nucleare, alla radioprotezione, alla garanzia di qualità, alla gestione dei rifiuti radioattivi, al trasporto, alla pianificazione dell’emergenza, alla valutazione d’impatto ambientale degli impianti nucleari.

L'accordo è valido per cinque anni. Ma l'Italia è fuori dal nucleare, a livello statale, dal 1987, per cui questo scambio d’informazioni appare essere a senso unico: non solo gli italiani hanno da imparare dai francesi, ma devono anche adeguare i loro impianti per diventare lo sbocco commerciale e industriale del nucleare francese, con buona pace per tutti bei discorsi circa l'indipendenza energetica dall'estero.

Sempre in conferenza stampa, il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha dato un po' di spettacolo, con dichiarazioni entusiaste e trionfalistiche: "Da oggi parte il sistema industriale nucleare italo-francese". Soprattutto, con dieci accordi che rappresentano in tutto e per tutto l'invasione francese nel mercato energetico italiano, l'esportazione di tecnologie, di capacità, e anche di comproprietà delle nostre future bollette elettriche, Scajola è stato tanto coraggioso da dichiarare che non si tratta di "un'operazione di colonizzazione da parte delle imprese transalpine, ma impegno per valorizzare le eccellenze industriali nostrane nella nascente filiera dell'atomo, impegnandosi nella realizzazione delle prime centrali Epr in terra italiana". Eccellenze industriali che, rispetto ai colossi francesi EDF e Areva, non ci sono. Pertanto saranno i francesi a ricostruire ex novo la filiera nucleare italiana.

In materia di sicurezza, Scajola ha generato anche un buona dose di sana ilarità presso la stampa presente in conferenza, con la sua dichiarazione: "Io, se potessi scegliere dove mettere una centrale, me la metterei nel giardino di casa, per un semplice motivo: che in tutto il mondo, dove è stata costruita una centrale nucleare, è cresciuta l’economia del territorio e c’è stata una grande salvaguardia dell’ambiente, perché non ci sono emissioni."

Certamente il ministro ha voluto fare una battuta, per carità, ma una battuta che segue di poche ore un'altra dichiarazione, fatta stavolta da qualcuno che di fisica dell'atomo ne capisce certamente di più di Scajola. E’ il premio Nobel Carlo Rubbia, che riguardo il ritorno delle centrali nucleari in Italia ha dichiarato: "Si sa dove costruire gli impianti? Come smaltire le scorie? Si è consapevoli del fatto che per realizzare una centrale occorrono almeno dieci anni? Ci si rende conto che quattro o otto centrali sono come una rondine in primavera e non risolvono il problema, perché la Francia per esempio va avanti con più di cinquanta impianti? E che gli stessi francesi stanno rivedendo i loro programmi sulla tecnologia delle centrali Epr, tanto che si preferisce ristrutturare i reattori vecchi piuttosto che costruirne di nuovi? Se non c’è risposta a queste domande, diventa difficile anche solo discutere del nucleare italiano."

Già, i francesi rivedono i loro programmi sull'Epr, ma l'Epr muove l'industria, e si tratta di industria pesante con migliaia di lavoratori impiegati. Pertanto, ridurre i programmi per l'Epr significherebbe mandare in crisi l'industria nucleare d'oltralpe. Quale migliore soluzione, allora, del mantenimento dello stesso livello economico ed occupazionale, semplicemente esportando la tecnologia Epr in Italia?

Dal canto suo, Sarkozy non ha mancato di elogiare apertamente l'Italia, che gli toglie la spina nel fianco di una possibile crisi industriale. "Rendo omaggio alla decisione storica del governo italiano e di Berlusconi sul nucleare", ha dichiarato il presidente francese alla fine del vertice, aggiungendo che "la scelta avvicina Francia e Italia". D'altronde, dopo aver perso un preziosissimo contratto da ben 20 miliardi di dollari ad Abu Dhabi, la Francia vede nel nostro paese uno sbocco importante per la sua industria nucleare, per cui non destano meraviglia dichiarazioni del tipo: "La nostra volontà è di lavorare mano nella mano con le aziende italiane. La Francia e le sue imprese sono veramente decise a investire nel lavoro con gli italiani". Nessun dubbio: la costruzione di quattro centrali entro il 2030 certamente arricchirà le commesse dell'industria transalpina.

Certo, in Italia ci sono due problemi da risolvere ancora: un'opinione pubblica non del tutto favorevole ed i veti avanzati da molte regioni circa la possibilità di ospitare impianti nucleari. Sul primo problema, Berlusconi, da esperto pubblicitario e capace anchor man, ha già la soluzione: "Abbiamo la necessità di convincere i cittadini delle zone dove verranno costruite le centrali che sono sicure. Pensiamo di fare una preparazione attraverso una collaborazione con la tv francese per intervistare i cittadini che vivono vicino alle centrali nucleari". Ed ha concluso: "Per convincere gli italiani che il nucleare è sicuro useremo la televisione".

Quindi, nei prossimi mesi, dovremo aspettarci un massiccio bombardamento mediatico fatto di spot e "pubblicità progresso", volto a fare un nuovo lavaggio del cervello agli italiani, fino a plagiarne il pensiero e renderli pro-nucleare. L'idea di mandare in onda degli spot televisivi di "informazione" è stata raccontata da Berlusconi stesso, al termine dell’incontro bilaterale di Parigi. Ancora una volta, sarà di sicuro una sola campana quella a invadere gli spazi dei teleschermi. Certo, non si chiamano operazioni di lavaggio del cervello; infatti, secondo il presidente del Consiglio, "abbiamo di fronte, in attesa che si aprano effettivamente i cantieri, un periodo di maturazione dell'opinione pubblica italiana".

Per quanto riguarda il veto delle Regioni, Berlusconi si dice pronto a "convincere tutti", anche se finora non è riuscito a convincere proprio i governatori delle regioni; la maggior parte si è opposta, e ben undici su venti si sono rivolti alla Corte Costituzionale. Sul fronte del “No” sono schierati diversi governatori di centrosinistra: Vendola in Puglia, Errani in Emilia Romagna, Rossi in Toscana, De Filippo in Basilicata. Ma anche dal centrodestra, Cappellacci in Sardegna, Iorio in Molise, Lombardo in Sicilia, Tondo in Friuli Venezia Giulia, non hanno mai mostrato disponibilità. Per quanto riguarda quei governatori più vicini al governo centrale, anche il neoeletto Zaia non ha mostrato grandi aperture, liquidando la possibilità di una centrale nucleare in Veneto con un "la vedo dura". Non aiuta neanche Formigoni, che non esita a raccontare che "in Lombardia il nucleare non serve perché la regione è autosufficiente sul piano energetico". Una posizione analoga a quella espressa in Lazio dalla Polverini. Per ora l'unico possibilista è stato il governatore del Piemonte, Cota.

 

 

di Michele Paris

Con un annuncio a sorpresa durante un discorso tenuto presso una base dell’aeronautica militare in Maryland, Barack Obama ha manifestato l’intenzione di aprire vaste aree costiere degli Stati Uniti alle trivellazioni private per la ricerca di petrolio e gas naturale. La decisione del presidente americano rappresenta un clamoroso voltafaccia rispetto a quanto aveva strenuamente sostenuto nel corso della campagna elettorale per la Casa Bianca nel 2008, quando la questione aveva fatto irruzione nel dibattito politico in seguito alle punte record toccate dal prezzo del petrolio.

Immediata e durissima è stata la reazione degli ambientalisti, ma anche di molti parlamentari democratici, preoccupati per una scelta di politica energetica che rischia di mettere a repentaglio gli sforzi finora compiuti per passare ad un sistema produttivo finalmente fondato su un’energia pulita.

Nel corso di una conferenza stampa in Florida da candidato alla presidenza, Obama due anni fa aveva risposto molto duramente alla campagna orchestrata dal Partito Repubblicano per aumentare la produzione interna di petrolio. Aprire le zone costiere alle esplorazioni avrebbe prodotto gravi “conseguenze a lungo termine ma nessun beneficio a breve scadenza”, dal momento che sarebbero stati necessari “almeno dieci anni per ricavare quantità significative di petrolio”. Inoltre, sempre secondo l’allora senatore dell’Illinois, “le trivellazioni off-shore non contribuirebbero a ridurre il prezzo della benzina né oggi, né domani, né quest’anno, né tra cinque anni”. Una volta conquistata la presidenza, infine, la promessa solenne era quella di “mantenere la moratoria sulle trivellazioni sia in Florida sia nel resto del paese, per impedire alle compagnie petrolifere di sfruttare i giacimenti esistenti al largo delle coste americane”.

Nonostante le mire decennali delle multinazionali del petrolio su queste aree costiere, il Congresso USA nel 1981 aveva approvato una moratoria che riguardava le aree al largo della costa atlantica e di quella del Pacifico, così come la Bristol Bay in Alaska sud-occidentale, una regione dall’ecosistema estremamente fragile. Il divieto era stato successivamente prorogato dai presidenti George H. W. Bush e Bill Clinton, per poi finire nel mirino del predecessore di Obama sul finire del suo mandato nel 2008. Alla rimozione della moratoria voluta da Bush jr. erano però seguite numerose cause legali, tanto che i progetti di nuove trivellazioni erano stati accantonati dalla nuova amministrazione ad inizio 2009. Ora, invece, la nuova accelerazione promossa dallo stesso Obama.

Alcune delle zone coinvolte dal progetto di esplorazione saranno aperte alle trivellazioni per la prima volta in assoluto. Le aree interessate coprono una superficie marina di quasi 700 mila chilometri quadrati, più altri 520 mila chilometri quadrati in Alaska. Le valutazioni della Casa Bianca e del Dipartimento degli Interni - il cui responsabile, l’ex senatore del Colorado Ken Salazar, è molto vicino alle compagnie petrolifere - hanno risposto a criteri non solo geologici ma anche e soprattutto di carattere politico. La motivazione principale che sta dietro a questa decisione di Obama appare infatti legata alla necessità di raccogliere consensi bipartisan attorno alla legge sul contenimento delle emissioni in atmosfera approvata l’anno scorso dalla Camera dei Rappresentanti e ferma da mesi al Senato.

Dal momento che sia la nuova legge sia la questione delle trivellazioni off-shore risultano però molto controverse, è stato necessario districarsi tra veti e pressioni varie del mondo politico ed imprenditoriale americano. Ad esempio, significative sono le aree costiere escluse dai progetti di esplorazione. Esse comprendono la costa del Pacifico, dove le riserve petrolifere sono modeste e l’opposizione a eventuali trivellazioni quasi unanime; la costa atlantica che va dal New Jersey verso nord fino al confine con il Canada, dove ugualmente i politici locali hanno espresso forti riserve; alcune aree cuscinetto al largo della costa orientale della Florida, per le quali un senatore democratico si era detto molto preoccupato, trattandosi di spazi dove si svolgono regolarmente esercitazioni miliari.

Un’altra regione aperta ai sondaggi sarà poi la porzione orientale del Golfo del Messico, dove è stimata la presenza di circa 4 miliardi di barili di petrolio e quasi 2 mila miliardi di metri cubi di gas naturale. Anche qui però l’attività estrattiva non è vista di buon occhio, soprattutto in Alabama e Florida. Come altrove, i timori riguardano possibili danni alle coste, alla pesca, alla fauna marina e alla stessa industria turistica. Il Dipartimento degli Interni da parte sua ha provato a rassicurare le autorità dei vari stati interessati, assicurando che le trivellazioni saranno consentite solo ad una distanza di oltre 300 chilometri dalle coste, rendendole perciò invisibili dalla terraferma.

Se il regalo di Obama alle compagnie petrolifere comporterà ingenti profitti per queste ultime nel breve periodo, tutt’altro che certo appare l’obiettivo di svincolare l’approvvigionamento energetico statunitense dalle forniture estere. Secondo le stime dello stesso Dipartimento degli Interni, anche se in alcuni casi basate su rilevazione vecchie di trent’anni, le riserve presenti al largo delle coste sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno americano di petrolio pari a tre anni. Poco più di due anni invece per quanto riguarda il gas naturale, ovviamente al ritmo dei consumi attuali.

La prima asta per l’aggiudicazione dei diritti di esplorazione potrebbe giungere già il prossimo anno e riguarderà un’area al largo della Virginia – i cui due senatori democratici sono entrambi entusiasti sostenitori delle trivellazioni – che aveva già ricevuto l’approvazione governativa per l’inizio dei lavori. Altrove, invece, bisognerà attendere alcuni anni prima che il Dipartimento degli Interni porti a termine i propri studi geologici e ambientali. Per i tratti di costa che verranno valutati idonei alle esplorazioni, si procederà con le dovute aste, non prima del 2012 secondo fonti ufficiali.

L’iniziativa di Obama sulle trivellazioni off-shore non rappresenta purtroppo un caso isolato nel suo singolare sforzo di trasformare gli Stati Uniti dal maggiore inquinatore dell’ambiente globale ad un paese che rispetti i limiti di emissione auspicati dalla comunità ambientalista internazionale. Così come era accaduto solo poche settimane fa con il rilancio del nucleare civile, il presidente americano ha infatti giustificato quest’ultimo progetto di espansione delle attività petrolifere come un passo importante verso l’efficienza energetica del suo paese.

Per raccogliere consensi su un provvedimento che intende tagliare le emissioni in atmosfera, l’amministrazione Obama è disposta insomma ad espandere un’attività che rappresenta precisamente la principale fonte di inquinamento ambientale. Un’amara ironia che di certo non sfuggirà a quanti si apprestano a combattere al Congresso per l’approvazione di una legge che negli ultimi mesi ha già dovuto subire numerosi assalti da ogni parte per ridurre il più possibile le conseguenze sulle grandi aziende inquinatrici.

di Alessandro Iacuelli

Dopo l'approvazione, nel luglio 2009, della cosiddetta "Legge Sviluppo" e del decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010 , sono state ormai poste completamente le basi per il ritorno dell'Italia alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare. Certo, sono ancora solo in parte definiti i criteri e le procedure per la localizzazione, la realizzazione e la gestione degli impianti nucleari. Su questi punti, il nostro Paese è adeguato, in quanto a competenze? O decenni di lontananza dal nucleare hanno fatto perdere le necessarie conoscenze?

Per approfondire questo tema delicatissimo, il Gestore dei Servizi Energetici ha richiesto a due importanti imprese di consulenza industriale, Accenture e Safe, di condurre uno studio riguardante proprio la disciplina della generazione elettrica per via nucleare. I risultati dello studio sono stati appena presentati, con l'obiettivo di fornire una panoramica del contesto internazionale e del quadro regolatorio di quattro Paesi ritenuti rappresentativi in tema di generazione elettrica da fonte nucleare: USA, Germania, Francia e Spagna.

Dall’analisi emerge come il nuovo quadro normativo italiano per il nucleare si sia adeguato, inseguendo i modelli esteri, alle principali caratteristiche delle altre nazioni. Anche se naturalmente nazioni diverse gestiscono le cose in modo diverso. Così, il modello italiano inizia ad assomigliare ad un "ibrido" che acquisisce elementi sparsi qua e là. Ad esempio, l'idea di avere un'autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio degli impianti nucleari, previa certificazione del sito, si chiama "modello combinato", ed è adottato in particolare dagli USA, ma non dagli altri Paesi. Quel che è comune un po' a tutti è che la licenza per l’esercizio di un impianto viene data con durata temporale limitata, ma i vari Paesi presentano una variabilità elevata proprio su tale durata, tra i 10 ed i 40 anni.

Per quanto riguarda la gestione delle scorie e lo stoccaggio definitivo, questo viene ovunque affidato a enti e società statali: si preferisce tenere uno stretto controllo pubblico sui materiali radioattivi e, pertanto, nessuno sogna neanche lontanamente di "privatizzarne" la gestione. In questo campo, la comparazione evidenzia alcune differenze rispetto alle politiche per lo stoccaggio temporaneo: mentre in Germania e USA viene fatto dai diversi operatori sul mercato dell'energia, la Spagna preferisce una gestione centrale da parte degli enti nazionali. Nel caso italiano la gestione delle scorie è affidata all'operatore per la parte di stoccaggio temporaneo, mentre spetta alla Sogin sia il deposito definitivo che le attività di smantellamento delle centrali in dismissione.

"Secondo la nostra analisi - dichiara Claudio Arcudi, Managing Partner di Accenture, Responsabile del settore Utilities Italia - due sono in particolare le leve sulle quali i leader dell'industria nucleare stanno affrontando ed elaborando con successo le proprie strategie e sulle quali ispirarsi per fondare il modello italiano: l'interoperabilità tra i diversi soggetti in campo e la standardizzazione degli impianti”. L'interoperabilità ha l'obiettivo di massimizzare l'efficacia delle interazioni tra i vari attori (costruttori, operatori, autorità di sicurezza), cercando di mantenere un chiaro, trasparente e rapido flusso informativo, un elemento necessario per garantire il rispetto delle tempistiche, dei costi, ma soprattutto, si spera, della sicurezza. La standardizzazione, cioè la costruzione in serie di impianti con le stesse caratteristiche, è una strategia adottata in particolare da Francia e Usa.

In pratica, nulla dovrebbe essere lasciato al caso, e soprattutto le scelte non andrebbero fatte con leggerezza, come fatto fino ad ora dalla politica italiana. Lo sottolinea Raffaele Chiulli, Presidente di Safe: "Si sente forte l’esigenza di assicurare che le scelte sul nucleare vengano fatte in base ad informazioni chiare, obiettive ed oneste calandosi nel contesto sociale, economico e ambientale del Sistema Paese", e la strada si fa in salita, soprattutto quando un governo inizia a "mettere fretta" su un passaggio delicato come quello nucleare. Sottolinea ancora lo stesso Chiulli: "Non bisogna trascurare le concrete difficoltà che il nostro Paese si troverà ad affrontare perché, rimettere in piedi un settore che ancora non si è finito di smantellare, ripristinare i livelli di esperienza tecnica, le dimensioni e le competenze industriali necessarie non sarà né facile né gratuito.

Intanto, sul fronte industriale, procedono febbrilmente le attività: durante il fine settimana scorso, è stata conclusa un'intesa strategica e di partnership tra i francesi di Areva e Ansaldo Nucleare: l'accordo è stato raggiunto non senza difficoltà e manca ancora il via libera politico che sarebbe dovuto avvenire a Parigi con un incontro tra il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, quello francese dell'Ecologia, Jean-Louis Borloo e i vertici delle quattro società coinvolte, Edf, Enel, Areva e Ansaldo Nucleare. Ma il tutto è stato rinviato al 9 aprile, nell'ambito della conferenza bilaterale Italia-Francia. L'accordo, spiega l'amministratore delegato di Enel Fulvio Conti, è "molto delicato", perché deve prevedere "una separazione della ricerca netta essendo Ansaldo da anni partner di Westinghouse, il colosso Usa ora controllato da Toshiba, detentore di una tecnologia nucleare differente e in concorrenza con quella di Areva".

Mentre il Gestore dei Servizi Energetici e l'industria vanno avanti lungo la strada tracciata forzatamente dal governo, il resto del Paese si preoccupa, e non poco. Il decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010 è quello che indica in maniera dettagliata i siti dove saranno ubicate le future centrali nucleari e subito, anzi ancor prima della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, presidenti di Regioni e candidati presidenti di Regioni si sono affrettati a pronunciare i loro "no" decisi alla possibilità di ospitare impianti nucleari nel proprio territorio. D'altronde, era facile immaginarlo: l'ubicazione delle centrali nucleari è uno dei temi al centro della campagna elettorale per le regionali di domenica.

A tale proposito. il WWF Italia ha collezionato su e giù per la Penisola le dichiarazioni e le prese di posizione di tutti i candidati. Il risultato è per certi versi sorprendente, poiché anche molti candidati della stessa coalizione che ha la maggioranza in Parlamento hanno dichiarato che a casa loro non vogliono le centrali. Certo, per far presa sull'elettorato e guadagnare qualche voto in più sul filo di lana, si è pronti a smentire anche i propri mentori e padrini politici, anche questo si sa. Nonostante questo voler apparire di colpo anti-nuclearisti (posizione poco credibile e poco in linea con il proprio stesso partito) sarà opportuno prendere nota di queste dichiarazioni, magari giusto per ricordarle quando, dopo le elezioni, parecchi cambieranno idea.

A tale proposito è interessante notare che ben 5 dei 12 candidati del Pdl alla presidenza delle Regioni, non vogliono centrali o comunque siti nucleari nel proprio territorio: Pagliuca (Basilicata), Formigoni (Lombardia), Polverini (Lazio), Palese (Puglia), Zaia (Veneto). Contrari alla scelta nucleare tutti i candidati alla presidenza sostenuti dal Pd. La posizione dei candidati Udc è un po' più variabile. Da un lato, la scelta antinucleare prevale nettamente all'interno del partito, che in 6 Regioni (Basilicata, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia e Veneto) si esprime per il no anche quando i suoi candidati corrono da soli. Dall'altro, l'Udc dice invece sì al nucleare in Calabria e Campania, in apparentamento con il Pdl.

Chissà quante di queste posizioni cambieranno radicalmente, in linea con i propri partiti di appartenenza, dal 30 marzo in poi. Di sicuro, la battaglia sul territorio è appena al principio e si svolgerà in tutta Italia. Un po' assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel Paese del sole, del mare, del vento. Ma con questa classe politica, è il minimo che possa succedere...

 


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