di Vincenzo Maddaloni

Un pontificato breve (otto anni), però intenso. E’ questo papa teologo - il primo, il solo - che riesce ad infondere nell’azione diplomatica della Segreteria di Stato vaticana un sapere sottile e consapevole secondo il quale il Medio Oriente - insieme alla guerra contro il terrorismo - diventa il teatro principale della politica mondiale. Per moltissimo tempo la diplomazia della Santa Sede aveva una visione universale con alcuni obiettivi chiaramente identificati, come l’evangelizzazione dell’Africa, il sostegno alla politica degli Stati Uniti in Sud America, per citarne alcuni.

Benedetto XVI volta pagina. Dopo che gli equilibri di tutto il Medio Oriente sono stati modificati dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli eventi dell’11 settembre 2001. Non mi riferisco soltanto all’intervento militare in Afghanistan, in Iraq e all’appoggio sempre più incondizionato prestato dall’amministrazione Bush e da Obama poi alla politica dei falchi israeliani, ma al fatto che queste iniziative si inquadrano in un disegno molto più ambizioso, che ha l’obiettivo strategico di assicurarsi il controllo incondizionato delle risorse energetiche dell’Eurasia e quindi del mondo.

L’Islam è un tema sul quale, negli anni, Joseph Ratzinger ha scritto poco. Ma è un tema che gli è ben presente, tanto più da quando è divenuto Papa. Nel cinque mesi dopo la sua elezione a pontefice, nel settembre del 2005, a Castelgandolfo Benedetto XVI aveva dedicato proprio all’Islam due giornate di studio, a porte chiuse, assieme a due esperti islamologi e a un gruppo di suoi ex allievi di teologia.

Uno dei presenti, l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir, aveva rivelato che il Papa riteneva possibile l’incontro tra Islam e democrazia, ma «a condizione di una radicale reinterpretazione del Corano e della concezione stessa della rivelazione divina». Poiché «un Islam conciliato con la democrazia ne consente l’integrazione; un Islam incapace di distinguere tra Dio e Cesare mantiene i fedeli in uno stato di “alienazione”», secondo il Pontefice. E’ un concetto che riproporrà, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione. Cioè spesso.

Siccome il rischio che dalle minacce si passi a una nuova guerra ogni giorno diventa più concreto, e siccome gli Usa rimangono l’unica, incontrastata, superpotenza globale in termini militari, è in questo scenario che la politica del Vaticano di Benedetto XVI è  costretta a confrontarsi soprattutto in Medio Oriente.

Infatti, con tenacia tutta tedesca Ratzinger ha continuato a marcare la distanza dagli Stati Uniti, poiché il principio della coabitazione tra cristiani e musulmani, che guida la politica vaticana, mal si concilia con la politica del confronto che ha portato gli Stati Uniti (e, con crescente riluttanza, i loro alleati europei) a misurarsi duramente con l'Iran prima, con la Libia poi  con l´Iraq e di nuovo con l’Iran senza dimenticare la Siria. Si tenga a mente poi l’appoggio incondizionato ad Israele che rimane referente privilegiato degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Non si tratta di differenze marginali, bensì di due diverse interpretazioni dei processi socio-politici in svolgimento nei paesi arabi: una che ne privilegia gli elementi di minaccia all’identità e agli interessi economici dell’Occidente; l'altra - quella di Papa Ratzinger - che punta (in una visione di lungo periodo) sui fattori di integrazione, sulla necessità di un equilibrio economico complessivo tra il Nord e il Sud del mondo e sulla possibilità di fare del Mediterraneo il punto di incontro tra le differenti civiltà.

Non di due soltanto, bensì di tre civiltà: l'inserimento pieno della componente ebraica (e della sua organizzazione statale) nell’orizzonte della coabitazione (originariamente concepita tra cristiani e musulmani) è il risultato di un lungo e tormentato processo di riavvicinamento con cui la diplomazia vaticana è riuscita a dare consistenza (entro i limiti che definiscono le relazioni politiche) all’"utopia" ratzingheriana della riconciliazione fra le tre religioni abramitiche.

Accade mentre il crescente risentimento dei musulmani verso gli Stati Uniti e l'Europa, ai quali si imputa di volere mantenere il Medio Oriente in uno stato di inferiorità per poterlo sfruttare economicamente, coinvolge anche con la drammaticità dei fatti di sangue le Chiese cristiane, identificate a torto o a ragione con l'Occidente. E’ questa escalation che il Papa in questi otto anni cerca di stoppare, poiché egli teme che la lotta al terrorismo finisca con l’alterare l'ordine giuridico internazionale sostituendo alla "forza del diritto" il "diritto della forza".

Pertanto le critiche alla teoria dell’attacco preventivo utilizzata per giustificare gli interventi militari statunitensi in Medio Oriente, l'insistenza sul ruolo indispensabile delle Nazioni Unite, la condanna della violazione delle norme di diritto internazionale nel trattamento dei detenuti sospettati di terrorismo, diventano - leggendo i suoi messaggi - le principali manifestazioni di questa preoccupazione.

Si aggiunga poi che la Chiesa di Roma considera pericolosa la dissociazione della repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale, poiché essa trascura le ragioni profonde che stanno all’origine delle azioni terroristiche.

Sottolineare esclusivamente il lato criminale del terrorismo senza analizzarne le motivazioni e agire di conseguenza, non basta per dare una soluzione definitiva al problema, soprattutto in situazioni - come quella palestinese - dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella frustrazione di genti che non vedono prospettive per il proprio futuro.

Dopotutto l’integralismo islamico non è nato oggi e la disfatta araba del 1967 ne rappresenta uno dei culmini. L’Occidente non ha mai percepito l’intensità di quella umiliazione. Da allora i musulmani hanno la conferma che l’Occidente sarà sempre al fianco di Israele.

Di fronte al fallimento del nazionalismo progressista, del nasserismo, del baathismo, i musulmani militanti, eredi del risveglio arabo, capiscono che la loro ora è venuta e sostengono che « invece di modernizzare l’Islam, bisogna islamizzare la modernità ».

E’ esattamente ciò che sta accadendo e che dimostra che non ci sono guerre da vincere, ci sono invece guerriglie che possono mettere al tappeto eserciti invincibili con i morti che seppelliscono i morti in un inferno senza mai fine.

Sicché non c’è da stupirsi se fin dai primi giorni del suo pontificato Benedetto XVI ha ribadito l’indisponibilità della Chiesa a teologizzare la guerra, facendo intendere che questo rifiuto non andava letto come un imperativo religioso, poiché sotto il No della Chiesa alla teologizzazione (crociata) della guerra, c’è un tessuto robusto e fitto di teologia e di pratica pastorale condivisa di pratica condivisa dall’assemblea mondiale dei vescovi. Così ripeteva il Papa.

E’ un tema che ripropone anche il primo gennaio scorso, nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, quando esorta a superare i tecnicismi che affollano la politica: «Il mondo attuale, in particolare quello politico, necessita del supporto di un nuovo pensiero, di una nuova sintesi culturale, per superare tecnicismi ed armonizzare le molteplici tendenze politiche in vista del bene comune».

Malauguratamente tanto impegno nella presa delle distanze dalle politiche statunitensi e dei suoi alleati europei mal si concilia con quanto accade negli Stati Uniti dal 2001 in poi attorno agli abusi sessuali commessi dal clero cattolico nei confronti di minori. Da allora il sex abuse scandal continua a offrire in maniera impressionante i clichés anticattolici pubblicati nella stampa e nella pamphlettistica razzista ottocentesca, in cui il clero cattolico, conventi e monasteri erano dipinti come luoghi di indicibili perversioni sessuali.

Sebbene i tempi siano cambiati e negli Stati Uniti la chiesa cattolica sia la più grande e la più rilevante socialmente e politicamente, lo scandalo degli abusi sessuali, riletto alla luce della propaganda anticattolica ottocentesca, ha radicato negli americani la certezza che il cattolicesimo sia ancora la sentina di tutte le perversioni. Naturalmente, in questo scenario ogni considerazione di Papa Joseph Ratzinger di fronte a una platea importante come quella americana, si stempera perdendo ogni efficacia.

E’ questa realtà che l’avrà incoraggiato a lasciare il sacro soglio? Oppure  è l’ingravescentem aetatem, l’età avanzata? Io me lo ricordo quand’era ancora il prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, cioè dell'ex Sant'Uffizio. Ci incrociavamo ogni mattina a Roma in Borgo Pio, la strada che collega via di Porta Castello e via di Porta Angelica. Lui con la talare nera del semplice prete e senza nessun distinzione cardinalizia si avviava verso il suo ufficio in Vaticano, io verso l’ufficio (di molto più modesto) di capo della redazione romana di Famiglia Cristiana. Mi rispondeva col sorriso al mio cenno di capo di saluto, avanzando silenzioso come una piuma nel vento. Era la primavera del 1994, se non vado errato.



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di Rosa Ana De Santis

E’ morta in poche ore nella sua casa di Roma, nel pomeriggio di quest’ultima domenica  agli sgoccioli del 2012. Scienziata insignita del premio Nobel, donna di passioni civili e di forte impegno politico per la libertà e la democrazia: tutto questo erano i 103 anni di Rita Levi Montalcini,  la cui mancanza sembra già un torto irreparabile al patrimonio delle eccellenze culturali e scientifiche del Paese.

Commossa la reazione del Presidente Napolitano che incoraggia la Fondazione scientifica, fondata dalla stessa scienziata, ad andare avanti nel mantenere alto quell’orgoglio e quel prestigio che la Montalcini aveva conferito all’Italia grazie alla sua scoperta, avvenuta fin dagli inizi degli anni 50, del fattore di crescita delle cellule nervose, ancora oggi foriero di nuovi sviluppi e applicazioni nell’ambito delle scienze neuronali e non solo.

Considerava il suo autentico merito l’impegno, l’ottimismo e lo studio - e non la sua intelligenza,  a suo dire mediocre - tutto ciò che l’ha accompagnata, come ricorda la nipote Piera,  durante la sua vita fino agli ultimi giorni. Del resto tutta la sua esistenza ne è stata una continua prova. Rita si iscrive all’università contro il volere del padre, inizia gli studi in cattività e allestisce un laboratorio in casa per sfuggire alle leggi razziali, una volta espulsa dall’ateneo, fino a dover lasciare l’Italia per proseguire la ricerca negli Stati Uniti.

E’ una donna che ama la scienza ed è ebrea, doppiamente scomoda per i tempi cupi che la vedono giovane, impegnata notte e giorno davanti al microscopio. E’ la forza della sua volontà e tenacia a consentirle non solo di arrivare alla scoperta del celebre fattore Ngf, ma di tracciare un esempio politico e civile che parla di emancipazione, di eguaglianza di genere, di quel potere immenso di libertà che è intrinseco allo studio e all’istruzione.

Nel 2001 viene nominata senatrice a vita e l’incontro con il Parlamento Italiano non le risparmia gli insulti di chi come l’onorevole Bossi dichiarò di preferire a quella scienziata Scilipoti, o di Castelli che definì uno spreco i finanziamenti all’European Brain Research Institute, meglio darli al Ponte sullo Stretto secondo lui. Ed infine di Storace che nei giorni delle votazioni per approvare la Finanziaria del governo Prodi si domandava se dovesse portare le “stampelle a casa” alla senatrice. Magari quelle del regime, come gli rispose la stessa Montalcini.

Leghisti e fascisti, la solita accozzaglia immonda; tutti personaggi che la senatrice del Nobel, come dichiarò alla rivista Science, “non stava nemmeno a sentire”, ma tutti quelli che sarà bene tenere a mente perché i consueti riti del cordoglio non cancellino la memoria delle differenze e di certe bassezze,  tipiche delle nostre aule istituzionali.

Accanto al rigore della ricerca scientifica, quello che dal caos delle cellule le aveva permesso di individuare un potenziale miracoloso di accrescimento, c’erano anche fantasia ed estro. Quello con cui amava accompagnare i suoi lavori scientifici con eleganti illustrazioni o disegnare i suoi stessi vestiti, traendo spunti dall’eredità di una madre pittrice ed artista. Scienza e umanità in questa minuta e sottile donna camminavano insieme.

A chi, negli ultimi anni, la invitava a dare un commento sulle recenti derive della politica e del costume morale del paese, la Montalcini rispondeva con pungenti frasi diventate ormai celebri. Di quelle che finiscono sempre,  prima o poi, sulle t- shirt di qualche studente. Quelle sulle donne e la loro vera emancipazione (“Io credo nelle donne, ma non nei movimenti femministi”), sulla democrazia (“Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella "zona grigia" in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva,  bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”) e sul valore della laicità.

Ed infine, proprio nel giorno della sua morte sembra più attuale e vera che mai quella che la consacrò davanti a tutti, nonostante quel corpo magrissimo e fragile, come un gigante. Un gigante che non ha conosciuto stanchezza, senilità, veti frutto della malvagità ed ignoranza umana, né limiti della fisica e della morte. Perché, come disse lei stessa,  “Il corpo faccia ciò che vuole, io sono la mente”. E questa mente, per nostra fortuna, sopravviverà.

di Sara Michelucci

Il giovane Giacomo Leopardi ha appena scritto l’Infinito, ma si trova improvvisamente catapultato nel 2012, nella casa di uno svogliato diciannovenne che deve sostenere il giorno dopo l’esame di Stato e sta studiando le sue poesie. L’Infinito di Tiziano Scarpa, in teatro (al Secci di Terni), per la regia di Arturo Cirillo, sceglie un nuovo e, sicuramente originale, modo per raccontare uno dei più conosciuti poeti della storia italiana.

Il ventunenne Leopardi (Cirillo) fa un salto in avanti di due secoli e si ritrova a confrontarsi con un ragazzo dei nostri tempi, Andrea (Andrea Menin). Sono praticamente coetanei, ma la loro formazione e il loro vissuto, nonché il loro linguaggio, sono totalmente lontani.

Eppure a poco a poco familiarizzano, scherzano, fanno amicizia. Andrea lo sbalordisce aggiornandolo sulla storia contemporanea, sul progresso tecnologico, lo fa navigare su Internet e lo fa incontrare con la fidanzata Cristina (Margherita Mannino). Una ragazza, decisamente maliziosa, che farà perdere la testa al giovane poeta. Le loro vite cambieranno totalmente e prenderanno una piega sorprendente.

Attraverso l’opera più importante di Leopardi, lo spettatore è portato a guardare e a giudicare il mondo di oggi, dove i giovani faticano ad avere una posizione sicura, dove i valori sono totalmente calpestati e cambiano rispetto a quelli del passato. Il concetto stesso di famiglia è messo a dura prova ed è uno degli elementi di confronto tra i due giovani.

Se Andrea è una sorta di ‘orfano contemporaneo’, con genitori vivi, ma del tutto assenti, con un padre che ha una compagna della stessa età del figlio e una madre che non lo vede mai; il giovane Leopardi vive il peso di una figura paterna severa e rigida, che non gli permette quella libertà che vorrebbe. Nel primo caso, insomma, il nucleo familiare è completamente disgregato, nel secondo è troppo oppressivo e non lascia spazio per fare delle scelte autonome.

Problemi diversi, ma che riescono a trovare una congiunzione nelle confidenze che questi due personaggi si scambiano e nei dialoghi che pur pescando nei toni della commedia, riescono allo stesso tempo ad affrontare alcune tematiche molto attuali.

“Un’idea, quella di Scarpa su Leopardi - afferma il regista - che rivela passione e conoscenza, basti pensare a quel tentativo di lettura di un testo che è dialogo tra un ragazzo qualsiasi di oggi che sta cercando di prepararsi all’esame di maturità e il poeta sul significato della sua lirica (L’Infinito, appunto), su come essa nasce e su cosa realmente, direi fisicamente, significhi, su qual è insomma l’esperienza che la sottende.

Il tutto attraverso l’accostamento di linguaggi diversissimi, quello colto e ricercato di Leopardi e quello di un ragazzo di oggi, ignorante e in fondo disperato, e forse proprio per questo capace più di altri di poter sentire e comprendere ciò che Leopardi voleva dire, al di là, o magari prima, di tutte le colte e dotte spiegazioni”. 

 

 

di Carlo Musilli

Di solito non sono mai d'accordo su niente, ma stavolta si sono prodotti in una votazione alla bulgara. Nel Congresso degli Stati Uniti, Democratici e Repubblicani hanno votato all'unanimità contro il progetto di affidare alle Nazioni Unite il controllo di internet. La Camera (repubblicana) si è espressa con 397 voti contrari e nessuno favorevole. Un verdetto analogo era arrivato a settembre dal Senato (democratico).

Che i due rami del Congresso raggiungano un accordo di proporzioni simili è davvero un evento prodigioso, soprattutto perché in questi giorni Washington è paralizzata da una delle crisi politiche più gravi degli ultimi anni (quella sul "fiscal cliff", il precipizio fiscale, che rischia di mandare in rosso il Pil americano del 2013).

Quale straordinario evento può aver mai prodotto un simile livello di concordia? In realtà il verdetto della politica americana ha essenzialmente un valore simbolico e politico, dato che le stesse Nazioni Unite riconoscono di non poter imporre unilateralmente ai singoli Paesi regole o procedure sull'uso di internet. Prima del voto, tuttavia, il repubblicano Greg Walden ha ribadito la "necessità d'inviare un segnale forte del Congresso sull’impegno americano per un web non regolamentato", contro gli interessi di Paesi come Russia e Cina, che "cercano di manipolare il controllo della rete".

La questione però è spinosa, perché chiama in causa interessi contrastanti. I fronti sono almeno tre: gli utenti del web, che hanno diritto a navigare nel modo più libero possibile; i mastini delle corporation telematiche, che vedono qualsiasi regolamentazione del mercato come un possibile ostacolo alla loro capacità di produrre utili; i paesi (più o meno) autoritari, interessati a favorire accordi che consentano un maggior controllo sulle attività della rete.

La proposta bocciata dagli Stati Uniti prevedeva di affidare la gestione del web all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell'acronimo inglese), ovvero l’agenzia dell’Onu che si occupa di tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non è un caso che proprio negli ultimi giorni sia andato in scena a Dubai un gigantesco summit dell'Itu, che per la prima volta doveva aggiornare il trattato internazionale sulle regole in materia di telecomunicazioni (testo siglato ormai nella preistoria del 1988).

Erano presenti i delegati di tutti i 193 Stati membri dell'Onu (un conteggio da cui rimane esclusa la Palestina, da poco assurta allo status di "osservatore"). Per tenere sotto controllo la situazione, gli americani avevano inviato anche rappresentanti del Congresso e della Federal Communications Commission. Non poteva mancare, naturalmente, un avamposto di Google e degli altri colossi internettiani, compresi alcuni padri della rete come Vinton Cerf e Bob Kahn.

In sostanza, la contrapposizione fondamentale è fra due schieramenti: da una parte chi si oppone a qualsiasi regolamentazione nel nome della libertà assoluta; dall'altra i Paesi favorevoli alla centralizzazione della gestione, la quale, pur facilitando la prevenzione di abusi e malfunzionamenti, favorisce inevitabilmente anche chi punta al controllo delle comunicazioni. Com'è ovvio, Hamadoun Toure, direttore dell'Itu, ha negato che ad essere in discussione fosse il principio di libertà che da sempre caratterizza la rete.

Il problema è che l'Unione non ha il potere di centrare il vero obiettivo della questione. Non è infatti internet in quanto tale ad aver bisogno di nuove regole, ma il mercato multimiliardario che su di lei si è generato. Se davvero la comunità internazionale avesse a cuore la libertà degli utenti, cercherebbe di arginare il potere assoluto dei pochi giganti che dominano il campo da gioco.

Si potrebbe iniziare stabilendo delle regole per evitare i cartelli e gli abusi di posizione dominante, per poi passare a una regolamentazione della pubblicità. In particolar modo di quella "personalizzata", che si fonda su una sistematica e impunita violazione della privacy di milioni di utenti, la cui attività in rete viene tracciata ogni giorno a loro insaputa.

L'Itu invece ha approvato un nuovo standard unico e vincolante per la Dpi, ossia la Deep Packet Inspection (ispezione profonda dei pacchetti), una tecnica per analizzare nel dettaglio il traffico in circolazione.

L'obiettivo ufficiale è di migliorare la gestione e quindi i servizi offerti agli utenti. Lodevole proposito. Peccato che da oggi i magnati delle telecomunicazioni potranno usare la Dpi per suddividere il traffico e imporre prezzi variabili a proprio piacimento.

Secondo il Center For Democracy and Technology, inoltre, l’impiego diffuso della Dpi consentirà d'ispezionare qualsiasi genere d'informazioni, il tutto senza che nessuno si sia preoccupato di accompagnare a questa innovazione una più stringente politica sulla privacy. E indovinate un po' da chi è partita l'idea? Nemmeno a dirlo, da Pechino.

 
 
 

 

di Sara Michelucci

Una scenografia-giocattolo che, all’occorrenza, fa spuntare il sole, sbocciare i fiori o far comparire un gatto sornione. Due attori che vestono i panni di una coppia di senzatetto, che ammirano i piccoli uccellini che fanno compagnia alle loro giornate. A partire da Cipì, un passerotto che nasce sotto i tetti, affronta le difficoltà della natura, della città, la paura degli animali più grandi, conoscerà la prigionia, la fame e scoprirà la libertà in un mondo che va tutto capito e conquistato.

Piccolo Piccolissimo, Grande Grandissimo (Cipì) è il nuovo spettacolo, per la regia di Gabriele Ciaccia, portato in diversi teatri italiani e offerto al pubblico dei più piccoli. “Perché il teatro è cultura ed educazione e va preservato e consegnato alle persone, a partire dai più piccini”, afferma il regista.

Il testo teatrale è tratto dal racconto di Mario Lodi, Cipì, che è stato scritto dallo scrittore insieme ai suoi alunni e rappresenta uno dei classici della letteratura per l’infanzia italiana. Sul palcoscenico, il Teatro dei Colori di Avezzano ripropone le avventure di questo coraggioso uccellino che affronta il vento, il sole, il temporale, vincendo ogni prova.

Lo spettacolo si costruisce intorno a due attori-narratori (Gabriele Ciaccia e Monica Di Bernardo) che giocano con piccoli elementi di luce, pupazzi, oggetti ingranditi dalle ombre, trasformando così lo spazio scenico in un grande luogo immaginario. Quasi un teatro dei burattini, dove ogni elemento ha uno scopo ben preciso, tutto è costruito e congegnato al dettaglio, per offrire un racconto che è immagine e parola allo stesso tempo.

Insieme a Cipì, fanno la loro comparsa tanti altri personaggi, suoi simili, con cui volare e raggiungere le nuvole, per diventare sempre più uniti e stare fermi a guardare due stelle scese dal cielo che raccontano della notte incantevole. La storia descrive gli avvenimenti scoperti nella natura, dove emergono esperienze che vivono parallelamente a quelle dei bambini. In questo processo di identificazione si scopre un po’ della vita e lo si fa anche con il teatro.

Il tema della libertà, come quello della crescita e della difficoltà di conquistarsi una posto nel mondo sono centrali in questo spettacolo, che regala in 55 minuti un’immersione totale nel mondo della natura e delle sue bellezze, creando una sensibilità nuova a misura di bambino, per costruire una visione diversa del mondo.


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