di Vincenzo Maddaloni

NAPOLI. L’ultima disgrazia in ordine di tempo caduta su Napoli è l'incendio alla Città della Scienza, il museo interattivo che si trova nel quartiere di Bagnoli. Un “gioiello culturale” ridotto a uno “scheletro sul mare” - ha scritto Roberto Saviano  - del quale dopo che è stata accertata l’origine dolosa del rogo non se ne parla più se non su Il Mattino, il quotidiano della città. Eppure l’ufficialità come sempre l’augurio l’ha formulato. “Napoli ce la farà”, aveva concluso il ministro della Giustizia, Paola Severino dopo aver detto che “questa cenere deve rappresentare un faro su quello che è accaduto e su quello che non deve più accadere”.

Napoli è da anni, se non da decenni, che si sente ripetere queste promesse e ora più di ieri le raccoglie con i toni smorzati e le luci fioche, quasi smarrita dall’incapacità di riuscire a mobilitare le risorse, le idee, le energie, la cultura necessarie per affrontare il degrado ambientale, le incurie, o peggio ancora, a stoppare l’elenco dei morti ammazzati.  L’incendio di Bagnoli diventa “poca cosa” a confronto, perché non c’è più quartiere o rione in cui poter essere sicuri di non finire nella traiettoria di una pallottola, o peggio ancora sotto la lama del coltello di turno.

Ed è vero: “Ultimamente i morti in agguati camorristici, o le semplici vittime dell’aggressività e dei raptus di follia sono aumentati in maniera esponenziale”, confidava una lettrice sul sito di Repubblica. Sicché a Napoli più che altrove la verifica delle capacità delle istituzioni ha un valore simbolico, di annuncio all’intero Paese. Poiché è qui, nella disastrata capitale del Sud, che si gioca la sfida più dura per il ripristino della legalità, della sicurezza, della  convivenza civile. Il suo fallimento coinvolgerebbe tutti. Riusciranno Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio col Movimento 5 Stelle, a voltar pagina? Non credo proprio. Ci vuol poco a capire che qui la sfida  è epocale, il fardello pesante perché a Napoli si  rispecchia intera l’Italia malata.

Non a caso per ritrovare l’Europa dopo una grande assenza Henry Miller rivisitò, dopo Parigi, non Milano e tanto meno Roma, bensì Napoli. Pensava che Parigi e Napoli da sole ne riassumessero l’essenziale. L’autore dei Tropici vedeva in esse pagine vive, complementari e contrastanti di quell’universo che va dall’Atlantico agli Urali. A Napoli scoprì immagini latino-slave e tracce d’Oriente extraeuropee, per dire del modo di vivere diverso da ogni abitudine di un capoluogo che più di qualsiasi altro in Italia ha diritto al nome di metropoli, nel senso di capitale universale e unica che moltiplica nelle sue prospettive l’antico, il mitico, l’esotico come una macchina teatrale.

Siamo di fronte a uno scenario nel quale Dostoevskij - perseguitato dai debiti di gioco e dalle infedeltà di Paolina Suslova - trovò conforto, poiché la dolcezza della terra e il colore delle acque del golfo nelle giornate seminuvolose e ventose gli ricordavano San Pietroburgo. Dopotutto, si può rifare a San Pietroburgo, l’ex Leningrado, la passeggiata di Raskolnikov che si recava a uccidere l’usuraia verso Piazza del Fieno, avendo la sensazione che da lì parte una lunga strada che attraversando le Russie  raggiunge l’Italia e si arresta a Napoli.

Infatti, in questo poema del nichilismo Dostoevskij descrive una società in rovina, dove i legami si sciolgono, si spappolano, si disintegrano, e ognuno diventa soltanto “un’anima”, cioè un fantasma che “si agita, si sdoppia, si batte con se stesso, ferisce, e invita a farsi ferire”. Ma che c’entra tutto questo con Napoli?

C’entra perché è una città frammentaria dove ciascuno vive del suo. La borghesia dentro le sue nostalgie, i suoi privilegi. Gli intellettuali nello sforzo di salvare il loro decoro, la loro intelligenza. Il popolo che ha smesso di sperare da quando è venuto meno il voto di scambio. La divisione è economica; è urbanistica; è antropologica; è politica; è culturale.

Ci sono tre realtà che non hanno voglia di stare insieme e di esigere qualcosa di comune perché ciascuno vuole vivere dentro la propria rassegnazione, il proprio arrangiamento. Cosicché il “nuovo” a Napoli riprende quasi sempre i suoni antichi, in sintonia con un’abitudine italiana, soltanto che qui i toni sono più forti spesso assordanti.

Per decenni Napoli è stata governata da una borghesia lazzarona che ha gestito tutte le immense risorse che lo Stato erogava, le ha intercettate e ne ha fatto un uso distorto come è emerso dalle indagini dei magistrati. Adesso i politici possono pure cambiare, ma le famiglie che si sono arricchite - per esempio i costruttori - con i miliardi del terremoto, sono rimaste a piede libero; hanno i soldi e sono tornate di nuovo governare.

Il gioco è perverso. Succede a Napoli e meno a Milano perché vi si è conservata una mentalità e una struttura feudale difesa strenuamente da uomini potentissimi. Sicché rimane valido l’avvertimento di Romano Prodi quando sosteneva che «la criminalità deriva dall’inquinamento della vita economica, del mondo degli affari, dalla violazione continua della legge».

Non per nulla Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, sostiene che la borghesia nel Meridione ha sempre dimostrato uno scarsissimo senso morale. Anzi, «non ha nessun senso morale», scriveva Croce ritenendola la responsabile di «sei secoli di anarchia e di miseria».

Naturalmente, anche adesso è ben difficile prevedere un mutamento dì tendenza perché le mobilitazioni dei sindacati, gli appelli del governo, non sono recepiti come un’idea-forza a cui riferire propositi e comportamenti; perché gli intellettuali con i loro silenzi hanno pur sempre aiutato la borghesia a saccheggiare le casse dello Stato; perché la borghesia “non si è mai mossa di un filo di capello”, nemmeno quando alcuni intellettuali coraggiosi, rompendo il silenzio ne hanno denunciato i soprusi e le malversazioni.

Sono attitudini che a Napoli hanno origini lontane. Avveniva anche ai tempi di Silvio Spaventa (anno 1876) che così spiegava: «Quando in un paese trovansi riuniti in mano di pochi cittadini mezzi così ragguardevoli di forza e di potenza, senza alcun controllo da parte dello Stato, i timori che questo nuovo feudalesimo fa nascere sono più che giustificati», perché, «è probabile che possedendo essi monopoli giganteschi, influenze formidabili, audacia senza limiti, vogliano, calpestando le leggi, giovarsi del loro potere per i loro interessi personali».

E dunque la disfatta pubblica, il disastro sociale, lo stravolgimento della città non sono stati ancora sufficienti a spingere i napoletani - meglio sarebbe dire la borghesia, gli intellettuali - a cambiar registro.

Sicché ogni cosa che vediamo di Napoli, e in genere del Sud è come una pelle ferita e mai rigenerata. Ecco perché qui, più che altrove, molto è passato per la sconfitta per la delusione e per la resa. E ora si esteso al resto dell’Italia.

Lo stesso criterio dell’assistenzialismo parla da sé: non si cura una società elargendo sussidi quasi sempre interessati, cioè strumentali e ricattatori.

Così molto è fallito. Raccontare e penetrare nei fallimenti di Napoli è impresa senza fondo. Le grandi reti infrastrutturali, il disinquinamento del golfo, lo sviluppo dell’area metropolitana, il centro Direzionale, ogni pretesto è stato inventato per succhiare il denaro allo Stato. Naturalmente, ora l’intellighentja partenopea s’interroga e si strugge.

I pomeriggi meridionali sono lunghi, vuoti d’impegni, e la presenza del testimone esterno venuto a constatare la misura dell’abbandono produce un effetto eccitante, dà la stura alle diagnosi, alle prognosi ai lamenti. Ne è un esempio recente  la Città della Scienza che prima di essere distrutta dal fuoco di  «nemici ne ha avuti, fin dal primo giorno di apertura. Nemici politici, nemici imprenditoriali, nemici pronti a mettere il bastone tra le ruote alla giovane struttura ancora in sviluppo», come ha scritto Alessandro Iacuelli . http://www.altrenotizie.org/cultura/5366-citta-della-scienza-via-coroglio-104.html

Grillo con tutti i grillini e il suo guru può continuare a promettere, a rassicurare,  ma poi “che  farà”? La gente esterna qualche giudizio equilibrato, qualche catastrofismo, molto pessimismo, molta malinconia, molti scenari cupi, alimentati da quel senso di rabbia che tutti sembrano portarsi addosso e che sarebbe piaciuto a Miller, figlio di Brooklyn e amante, come s’è detto all’inizio, delle sensazioni forti e contrastanti.

Infatti, se da una parte Napoli alloggia i più prestigiosi istituti di cultura e di ricerca d’Italia, dall’altra parte c’è Il 10 per cento dei 15.383 studenti napoletani che abbandona definitivamente gli studi. E altrettanto alto è il tasso di bocciati che riguarda almeno uno studente su cinque, ovvero il 22,6 per cento del totale.

I “desaparecidos” della scuola pubblica napoletana sono ragazzini delle medie, e soprattutto dei primi due anni della scuola secondaria di secondo grado, che nel bel mezzo dell’anno scolastico decidono che la loro carriera scolastica può considerarsi conclusa. Picchi di abbandono scolastico si registrano soprattutto nei quartieri della periferia est e nord: Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Miano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Piscinola, Marianella, Chiaiano e Scampia, sicché si capisce perché  molti di questi ragazzi diventano facile manovalanza del crimine, qui portato a forma d’impresa.

Dunque neppure Dostoevskij si sarebbe stupito della Napoli di oggi; ancora una volta gli avrebbe ricordato la sua Pietroburgo: il palcoscenico dì tutti i demoni, di tutti i derelitti, di tutti i Raskolnikov che avevano costituito il suo mondo. L’accostamento può sembrare forzato, impietoso. Ma basta ascoltare le voci degli uomini che vivono da vent’anni dentro la città, e la conoscono nelle rughe, nei cunicoli, nei labirinti, le voci dei volontari delle Ong che operano nella città. Spiegano che nel carcere di Poggioreale la maggior parte dei reclusi ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, una media che s’è notevolmente abbassata negli ultimi anni a testimonianza del degrado civile della metropoli.

Aggiungono anche particolari strazianti: ogni sera i dormitori pubblici accolgono decine e decine di giovani che spesso hanno un diploma, persino una laurea. «Giovani che», spiegano i volontari delle Ong, «non vogliono far ritorno a casa, nel proprio quartiere perché si vergognano di non avere un posto di lavoro». Ma non pensateli come una turba di sfaccendati, di malavitosi. C’è una generosità, uno spirito di abnegazione in questi giovani che non mancano di stupire. I centri di volontariato sono di una vivacità straordinaria.

Soltanto dove mancano le istituzioni c’è tutto che si sfalda, poiché si corrompe la moralità collettiva, si pregiudica la fiducia nello Stato. La criminalità si alimenta di questo degrado.

Conclusioni di questo tipo, sullo sfondo di cinque decenni di malgoverno partenopeo, suscitano nella gente, anche la più umile, un’ira furibonda che subito però si placa e si traduce in un atteggiamento di indifferenza e di rifiuto per qualsiasi cosa che sa di politica, M5S incluso.

Ed è questo che sgomenta, perché la disaffezione per tutto ciò che sa di politica ha in questa città le sue radici che con gli anni si sono estese al resto d’Italia. Sono, come detto, radici profonde. Grillo, che è sopraffatto dalle proprie idee, dall'urlo della polemica, non rappresenta una soluzione ai mali. E’ come nelle cartoline il pennacchio  di fumo sulla punta del Vesuvio che rammentando un pericolo  (no al governo dei partiti)  fa soltanto folclore. La crisi è molto di più.

Beninteso, governare il Paese da sempre è stato un problema. Adesso più che mai perché il mondo nel frattempo è cambiato, e attestarsi sullo status quo delle cronache logore delle schermaglie politiche romane, del sottobosco partitico, del gergo interno dei palazzi, è una follia che servirebbe soltanto a moltiplicare i consensi al M5S di Grillo.

Quasi una iattura, perché non è  in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio, che si affronta il fardello di problemi che affliggono gli italiani. Come ad esempio il futuro dei giovani, che rischiano di non avere la pensione al termine di una vita di lavoro (o meglio “di lavori” anche molto diversi) in prevalenza “flessibile” e precaria. Napoli non fa caso a sé, è l’Italia che è così.
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di Sara Michelucci

L’emigrazione vista attraverso gli occhi e le parole di un bambino di 9 anni, Nino, clandestino nella Svizzera di fine anni Cinquanta. I suoi genitori sono emigrati da un paesino della Puglia per lavorare e lo hanno portato con loro, anche se non potevano. Infatti ai cosiddetti “lavoratori stagionali”, era vietato portare in territorio svizzero i loro famigliari, ma come si fa a stare lontano dai propri figli? È quello che si chiede e ci chiede Mario Perrotta, con lo spettacolo teatrale, La Turnàta, ‘secondo atto’ dopo quello di un anno fa, Italiani Cìncali, al teatro Secci di Terni.

Se nel primo raccontava gli emigranti italiani nelle miniere del Belgio, in questo secondo appuntamento Perrotta si concentra sulla Svizzera e sulla mancanza quasi totale di diritti civili per gli italiani che vi andavano a lavorare. “Se sei emigrante la prima cosa che ti devi imparare è che nna enùta è solo nna enùta, mentre la turnàta è per sempre”, spiega Perrotta prima di iniziare lo spettacolo.

“Due termini - continua - per indicare la stessa cosa: il ritorno. Ma la differenza è fondamentale. Me l’hanno spiegata con parole semplici, ma inequivocabili. Nna enùta (una venuta) è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare…La turnàta, invece, è altra cosa...vuol dire che hai raggiunto l’obiettivo, ti sei sistemato, puoi mettere a fuoco, ricordare le facce e i luoghi perché ora stai per tornarci, definitivamente.  Ancora una volta loro parlano e io ascolto, registro cassette su cassette, raccolgo materiali, lettere, annoto sensazioni. Ma, soprattutto, cerco di tenere a mente gli sguardi, sono quelli che mi raccontano più di ogni parola, sono gli sguardi ciò che dovrò portare con me quando racconterò la loro storia. E ognuno ha il suo di sguardo, frutto di vicende personali e familiari, frutto delle diverse esperienze lavorative, del livello di integrazione raggiunto all’estero. Anche il luogo scelto per emigrare sembra avere un peso: c’è un sguardo da Belgio, uno da Germania, uno da Svizzera, ma, soprattutto, c’è uno sguardo da enùta e uno da turnàta. Chi è rimasto e chi è tornato. Due categorie distinte e di facile comprensione”.

L’avventura di Nino e dei suoi parenti inizia quando il nonno, che da anni lavora in Svizzera, muore. I genitori del bambino, allora, decidono di riportarlo in Salento. E così inizia il loro viaggio.

Un tragitto fatto di paura e speranza di non essere scoperti. Ma anche di eccitazione, perché finalmente si può rivedere la propria terra natia, i colori della Puglia e gli odori di una terra tanto bella, ma con mille difficoltà. Fatto di canzoni popolari che ricordano il Bel Paese e di racconti che segnano un’epoca e un periodo, dove l’infrangersi del sogno comunista, e quindi di un’uguaglianza di classe, la fa da sottofondo.

E così, con una Giulia 1300, la famiglia accompagnata dall’amico Tano, sindacalista che in Svizzera si è sempre battuto per i diritti dei lavoratori, parte per l’Italia. C’è la frontiera da superare, così Nino, che viaggia da clandestino, è costretto a nascondersi nel portabagagli, vincendo la paura del buio e dell’asfissia. Poi si arrivare sino a Bologna dove finisce l’autostrada e finalmente in Salento dove, a finire, è invece l’asfalto.

Arrivare a casa, finalmente, per mostrare ai ‘compagni’ che tutto è andato per il meglio e che ti sei sistemato. Anche se non è così, perché in realtà non ci si è affatto sistemati, ma si è solo stati sfruttati. Ma per i genitori di Nino, come per lui, tornare significa riconquistare una libertà perduta negli anni lontano dal proprio paese.


di Emanuela Pessina

BERLINO. “Con Berlino ho un rapporto straordinario: ogni volta che ci torno, anziché aver l’esigenza di allontanarmi, ne vengo catturato”. Così si presenta Max Gazzè al primo appuntamento della sua tournée europea, che, partendo dalla Kulturbrauerei della capitale tedesca, ha toccato tutte le capitali del Vecchio continente per continuare poi in Italia. Gazzè presenta Sotto casa, attualmente uno degli album più scaricati da iTunes e uno tra i più ascoltati su Spotify: un innegabile, grande successo che arriva dopo tre anni di silenzio. E che la prima tappa di questa serie di concerti sia stata proprio Berlino, chi lo sa, potrebbe essere un’interessante coincidenza.

Oltre ad aver conquistato il pubblico, il nuovo album di Gazzè ha incontrato anche il favore della critica, che ci ha visto un gran bel ritorno al passato. “È stata una scelta consapevole”, ammette Gazzè. Il singolo Sotto casa ricorda come sonorità Una musica può fare [singolo del 1999, n.d.r], ma si tratta più che altro di una somiglianza di approccio compositivo, spiega il musicista. Perché a contraddistinguere Sotto casa è la sperimentazione, la voglia di adattare la musica alla poesia dei testi, così come l’ironia dei significati: “Sotto casa è come un quadro che ha un bell’equilibrio, tanti colori per una perfetta alchimia di fondo”. Ed è forse in quest’alchimia d’insieme che i critici rivedono un ritorno al passato.

Soddisfatto del suo lavoro e del successo, Gazzè rimane sempre e comunque con i piedi per terra. Reduce dall’edizione 2013 di Sanremo, il musicista cerca di spiegarci la sua filosofia di fare musica. “Sono un musicista e conosco le dinamiche dello sport della musica, fatto di ascese e discese, perché quando finisce l’onda, allora si torna a nuotare”. Ed è per questo che Max porta avanti diversi “percorsi paralleli”: suona con orchestre sinfoniche, collabora con musicisti jazz, partecipa a tournée europee in veste di bassista, pronto ad affrontare poi l’apparizione al grande pubblico in occasione di nuovi lavori. Per Max, il Festival della musica italiana non è che uno dei tanti modi di “comunicare il suo nuovo lavoro”, così come il tour che lo segue. Non ha vinto Sanremo, ma il suo disco è tra i primi tre album italiani più venduti al momento: la realtà delle cose sembra appoggiare questa sua filosofia di apparizioni e sparizioni.

Non poteva mancare una domanda irriverente e curiosa sul pezzo E tu vai via, un testo bellissimo, maturo e malinconico, in cui Max racconta una separazione importante. Venti anni con una persona e tre figli, poi questa persona va via: un’esperienza di famiglia che è sicuramente un successo, ammette Gazzè, ma con la separazione arriva l’amarezza. “E tu vai via contiene una lieve sofferenza, ma è una sofferenza elaborata, che svanisce nell’accettazione”, spiega il musicista, intendendo l’accettazione del cambiamento. “La libertà è non resistere ai cambiamenti perché questi sono sinonimo di vita”. E lasciare fluire i cambiamenti anziché contrastarli, chiarisce il musicista, evita di soffrire.

Anche per quel che riguarda la recente scelta politica degli italiani, Max Gazzè si dice ottimista. “Grillo è una novità felice, c’è incertezza, ma è meglio questa incertezza di un altro Governo Berlusconi”. Per quel che riguarda le parole antieuropee di Grillo, uno dei dettagli della campagna elettorale che più hanno spaventato l’Europa, Gazzè non ha timori: “Anche con il Movimento 5 Stelle non possiamo prescindere dall’Europa. Ci sono delle normative europee da rispettare per chiunque, solo sono differenti le strade da prendere per arrivarci”. E Grillo, Gazzè ne è sicuro, saprà gestire tutto: è una “novità che saprà allinearsi all’Europa senza perdere la sovranità”. Monti? “Monti andrebbe bene a rappresentare l’Italia come ministro degli Esteri, viene da un percorso europeo, più in particolare dagli organismi di controllo della comunità, tra cui la Commissione trilaterale, e durante il suo Governo ha garantito il controllo della situazione Italia dall’Europa.”

Anche Gazzè, in realtà, viene da un suo percorso personale tutto europeo: ha studiato a una Scuola europea, dove i meccanismi della Comunità europea stessa sono materia di studio quotidiano, ha vissuto dieci anni a Bruxelles, tre anni a Parigi e tre a Londra, oltre ad aver partecipato a diversi importanti progetti musicali con cantanti del calibro di Stephan Eicher e Herbert Groenemeyer, con cui ha scritto anche un brano. Ed è proprio dall’Europa che Gazzè comincia il suo tour, più in particolare da Berlino, dove il cantante non ha mai vissuto, ma con cui ha un rapporto straordinario. Rispetto alle altre città, rivela Gazzè con aria intrigata, “l’atmosfera che dà Berlino è qualcosa di meno interpretabile, legata a una percezione che ho della città.

Il pensiero suggerito di Berlino non è sufficiente a cambiare la mia percezione di Berlino stessa e vorrei tornare per restarci qualche mese e comporre musica”. La tournée che accompagna il grande successo di Sotto casa è cominciata proprio qui, nella capitale tedesca: se tra qualche tempo vedremo Max Gazzè girare per le strade di Kreuzberg e Mitte, allora, in quel caso, potremo dire che non si è trattata di una semplice coincidenza.



di Vincenzo Maddaloni

Anche in quell’estate del 1978 ci fu la mano dello Spirito Santo e lo dissero in entrambe le occasioni. Me ne ricordo ancora, perché in quell’anno ne dovetti scrivere e “saltai” la vacanza al mare. Infatti, il conclave si aprì il 10 di agosto e il 26 agosto fu nominato papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, il quale col nome di Giovanni Paolo I  fu sovrano dello Stato Vaticano per trentatré giorni soltanto, poiché morì il 28 di settembre durando meno di una stagione estiva. Su quella morte inaspettata come lo sono state le dimissioni di Benedetto XVI, molto s’era detto e scritto, ma il portavoce Vaticano che al tempo era il numerario dell’Opus Dei,  Joaquín Navarro-Valls, rispondeva sempre che ogni azione è guidata dallo Spirito Santo. Sicché l’unica cosa certa su Giovanni Paolo I è che - a tutt’oggi - è l’ultimo papa di nazionalità italiana.

Del resto si annuncia denso di misteri anche questo conclave da poco inaugurato. Sarà breve o sarà lungo? Alcuno può saperlo. E’ annunciato come difficile, ma non è escluso che gli Eminentissimi Padri siano entrati nei locali della Sistina probabilmente con una soluzione già grosso modo presa  nei quattro giorni di lavoro delle varie Congregazioni Generali dei cardinali. Nell’occasione si erano esaminati i principali problemi della Chiesa e si era stabilito che il conclave avesse inizio martedì 12 marzo, con la messa Pro eligendo pontifice al mattino e l’ingresso nella Cappella Sistina, tradizionale sede dei lavori, nel pomeriggio.

Naturalmente quasi a smentire il “toto papa” che da giorni impazza su tutti i media o quasi, il portavoce vaticano, padre Lombardi non ha mancato occasione per ricordare come al momento del voto, la mano dei porporati sia sempre guidata dallo Spirito Santo. Sicché per allontanare ogni sorta di dubbio Angelo Scola, l’arcivescovo di Milano, papabile numero uno dei cardinali italiani ha invitato i fedeli a pregare «perché lo Spirito Santo offra alla sua chiesa l’uomo che possa condurla sulle orme segnate dai grandi pontefici degli ultimi centocinquanta  anni». Lo ha detto in chiusura della messa celebrata nella basilica dei Santi Apostoli a Roma, domenica scorsa. Insomma lo Spirito Santo pare sia l’unica ineluttabile certezza a sopravvivere ancora in mezzo ad un mare di incognite e di misteri sui quali naviga il primo conclave del Terzo millennio.

Dopotutto è la dottrina cattolica a stabilire che le decisioni del conclave sono protette dal dogma dell’infallibilità perché è lo Spirito Santo a guidare la scelta degli Eminentissimi Padri. Poi, lo Spirito Santo interviene soltanto negli altri due casi d’infallibilità dogmaticamente proclamata: quella del papa quando parla ex cathedra Petri e quella della canonizzazione dei santi.

Don Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano in provincia dell’Aquila sembra non sia d’accordo, Spirito Santo a parte. Scrive nel suo blog sull’ Huffington Post: «La “città posta sul monte”, perché sia visibile a tutti e a tutti faccia luce, diventa un bunker sotterraneo più adatto ai topi che a persone libere e risorte. I “Pastori” che dovrebbero guidare il popolo in un cammino di crescita e di responsabilità vengono rinchiusi, chiavi stellati (“cum-clave” da cui la parola “Conclave”),  come scolaretti indisciplinati e incapaci, da tenere a bada». E ancora: «Oggi questa stessa struttura invece che assicurare libertà al collegio cardinalizio, tiene i cardinali sotto tutela, come fossero degli incapaci; li tiene prigionieri».

Noto come “Prete scomodo e Prete Rosso” don Antonelli che ha sempre destato attenzione dibattendo i temi scomodi come l’asservimento della religione alla politica del potere, non dice se lo Spirito Santo è nel “cum-clave” o se invece se ne sta in altro luogo appollaiato. Insomma non si pronuncia venendo così meno all’incoraggiamento alla schiettezza che il  Maestro predica: «Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5,37). Ma in questo caso la prudenza è d’obbligo anche per un prete di “frontiera” come don Antonelli.

Si tenga a mente che per i cristiani cattolici lo Spirito Santo è la Terza Persona della Trinità. Un riconoscimento teologico che si è sviluppato nei secoli più recenti; per questa ragione le diversità tra le varie confessioni cristiane - con  le Chiese orientali ad esempio - in questo campo sono maggiori. E quindi, «lo Spirito Santo assiste la Chiesa di Roma». Non aveva dubbi Pio  XII quando - discorso Di gran cuore del 14 settembre 1956 - parlando della storia della Chiesa disse: «Si sono avvicendate vittoria e sconfitta, ascesa e discesa, eroica confessione con sacrificio dei beni e della vita, ma anche in alcuni suoi membri, caduta, tradimento e scissione. Una testimonianza della storia è univocamente chiara: portae inferi non praevalebunt (Matteo. 16, 18)».

Insomma la Chiesa – si sostiene tra i teologi - non si regge sul governo di un Santo Padre coadiuvato nell’opera dei Padri Eminentissimi, bensì sulla sua corrispondenza alla divina assistenza allo Spirito Santo. Che, beninteso agisce anche nella quotidianità, sicché  è sempre lo Spirito Santo  che ha infallibilmente illuminato Benedetto XVI, suggerendogli il “supremo sacrificio della rinunzia” al pontificato per salvare la Chiesa, come hanno spiegato tra i più autorevoli esponenti del clero.

Ma è dal quel 14 ottobre del 1978, il giorno in cui i 111 cardinali si riuniscono in conclave per eleggere il successore di Giovanni Paolo I che la Terza Persona della Trinità ha come una sorta di  rilancio. Infatti, comincia ad essere nominata anche sui giornali con una presenza a dir poco costante. Accade all’ottavo scrutinio del secondo giorno quando è fumata bianca, e il cardinale protodiacono Pericle Felici si affaccia per annunciare «Habemus papam», e  pronunciare il nome del neoeletto, il polacco Karol Wojtyla. Dopo una qualche mezz’ora di grande sorpresa sono in molti a pensare, e a scriverlo anche sui giornali dichiarati  laici,  che la sua nomina è opera dello  Spirito Santo. Molto vi aveva influito  il fatto che era il primo papa non italiano dopo 455 anni, cioè dai tempi di Adriano VI (1522 – 1523) e che del cardinale polacco Wojtyla poco si sapeva vivendo egli di là “della cortina di ferro”, che segnava a quel tempo il confine col mondo del socialismo reale.

Da allora comunque si continuò a scrivere e a dire della presenza costante dello Spirito Santo in quelle stanze, e questo servì a spiegare anche perché papa Wojty?a beatificò e canonizzò molte più persone di ogni altro pontefice. Infatti le persone da lui beatificate furono 1338 e quelle canonizzate 482, mentre i predecessori nell’arco dei quattro secoli precedenti avevano proclamato soltanto 300 santi. Si disse e si scrisse che senza la sua invocazione allo Spirito Santo i movimenti anticomunisti come il sindacato polacco Solidarnosc di Lech Walesa, nel 1980 non sarebbe mai nato. Fu quella invece una “guerra di religione” che non ha uguali nella Storia del ventesimo secolo, nemmeno con quella scoppiata un anno prima in Iran ad opera dell’ayatollah Ruhollah Mustafa Mosavi Khomeyni, e che non fu anch’essa cosa da poco. Michail Gorbacëv  dirà un decennio dopo che il crollo della Cortina di ferro sarebbe stato impossibile senza Giovanni Paolo II.

Ma negli anni Ottanta il nervosismo era grande. A Mosca ricordo i colleghi della Tass o della Novosti che a volte si lasciavano andare a qualche battuta masticata tra i denti secondo la quale Wojtyla era stato imposto da Cia, e a codicillo spiegavano che se nel mondo c’era in giro quella voce voleva dire che “una parte di verità c’è”. Ma quando incontrai qualche anno dopo per la prima volta e unico giornalista occidentale, il direttore dell’Istituto sovietico dell’ateismo scientifico, Víctor  Ivanovich  Gorodash già il clima era mutato. «La rivoluzione tecnico-scientifica ha formulato delle promesse obbligando a scegliere tra materialismo e spiritualità.

Ma se le promesse non si concretizzano, si creano degli stati di avvilimento che si traducono in pentimento per la scelta compiuta, e c’ è come reazione immediata il ritorno alla sfera spirituale. Ma direi di più: nella gente è cresciuta la coscienza storica: mentre cerca di immaginarsi il futuro cerca di ricordarsi il passato. Se noi pensiamo al passato, alla nostra storia passata, non possiamo non pensare alla chiesa e alla funzione svolta dalla chiesa nel corso dei secoli», ammise  Gorodash.

L’intervista, considerata l’autorevolezza del personaggio, definito all’epoca il “Ratzinger rosso”, fu ripresa da tutti i giornali del mondo. Per la prima volta la massima autorità per “la dottrina dell’ateismo”, denunciava l’esistenza di un problema religioso nelle Russie dei soviet, usando un approccio nuovo.

Due anni dopo (anno 1988) il cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli, grande elettore di Wojtyla, sbarcava a Mosca invitato dal Patriarcato che quell’anno celebrava i mille anni della Conversione della Rus’ di Kiev dopo che il principe Vladimir I accettò il battesimo.

Sicuramente in quell’occasione - lo si seppe dopo - si parlò dello Spirito Santo, poiché la fede ortodossa riconoscendo soltanto Dio Padre e Dio Figlio, sostiene che lo Spirito Santo non è altro che è una “derivazione” del Dio Padre. Sottigliezze per noi profani, ma per gli “addetti ai lavori” non di poco conto.  Infatti il cardinale non ne discusse con i giornalisti durante la conferenza stampa.

Agostino Casaroli passerà alla Storia come l’uomo del dialogo, l’inventore del “filo sottile dell’ Ostpolitik vaticana”. Per dire di un personaggio improntato a un’efficacia nella discrezione. Completamente all’opposto del Segretario di Stato Tarcisio Bertone  il cardinale più potente e controverso che rimarrà in carica fino alla fine del conclave, nonostante gli siano state attribuite grandi responsabilità nei fallimenti, nelle storie di corvi e delle lobby del Vaticano.

E dunque, alla vigilia di un conclave storico, con la comunità ecclesiastica in crisi, divisa tra gli scandali e una cattolicità sempre più multiforme, ecco però che rispunta lo Spirito Santo. Non a caso. Poiché nel Conclave spiega il cardinale Charles Journet,  «l’assistenza dello Spirito Santo significa che se anche l’elezione fosse il risultato di una cattiva scelta, si ha la certezza che lo Spirito Santo, che assiste la Chiesa volgendo al bene anche il male, permette che ciò avvenga per fini superiori e misteriosi».

Sicché poco vale scervellarsi con il “toto papa”, e tanto meno approfondire una domanda seria come quella che don Aldo Antonelli si pone: dal conclave uscirà «una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità», oppure «preoccupata di curare le vesti che porta addosso»? Infatti comunque vada la risposta c’è. E’ quella che Journet (Ginevra, 26 gennaio 1891 - Friburgo, 15 aprile 1975) aveva indicato nel suo trattato sulla Chiesa che tanto piacque a Paolo VI da nominarlo cardinale.

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di Alessandro Iacuelli

Una volta occorreva andare alla "Villette" di Parigi, e i più fortunati all'"Exploratorium di San Francisco, quello voluto da Frank Oppenheimer in persona. Erano pochi, infatti, i musei della scienza che fossero "vivi", che fossero degli "science center".

Non musei nel senso classico, con tanti pezzi "antichi" esposti e ben descritti, ma luoghi pieni di apparati funzionanti, che la gente potesse usare, ed osservare con i propri occhi i fenomeni naturali, anche quelli più curiosi, luoghi dove il visitatore potesse sperimentare di persona, divertirsi, e magari imparare un po' di fisica.

C'era Parigi, c'era San Francisco. Poi quel giorno dell'ottobre 1996 comparve Napoli, e quel "via Coroglio, 104" si fece strada tra gli indirizzi più noti. Prima di una città, poi di una regione, poi di una Nazione, poi a livello internazionale.

Chi scrive era lì, a lavorarci e non come visitatore, il giorno dell'inaugurazione, ci è rimasto fisicamente per cinque anni, e con il cuore anche dopo, perché certe esperienze non si dimenticano. Esperienze umane, professionali, di quelle che fanno crescere.

Abbiamo inventato tanto, in quei primi anni, un capitale di idee e progetti che è stato poi raccolto con successo da quelli venuti dopo di noi, che lì non siamo rimasti per sempre. Abbiamo inventato modi di raccontare la scienza divertenti, racconti astronomici che erano spettacoli, performance di tutti i tipi. Con allegria, ma con rigore scientifico.

La città apprezzò il nostro lavoro. Ce ne accorgemmo d'estate, quando eravamo aperti di notte, e la gente veniva lì a guardare le stelle chiedendo dove si tenesse "lo spettacolo", non le osservazioni al telescopio. Il mondo della scuola apprezzò e apprezza, le visite al museo, le attività didattiche. La prova di questo apprezzamento a 360 gradi sta nei 350.000 visitatori paganti all'anno, con buona pace per chi dice che la cultura non genera economia e ricchezza.

Un punto di riferimento sulla scena della cultura scientifica italiana e internazionale. Questa era Città della Scienza, la perla del litorale di Coroglio, il ritorno alla vita di uno stabilimento industriale tra i più antichi, risalente alla metà dell'800.

Dopo di noi della "prima generazione", sono arrivati altri preparati almeno quanto noi, se non anche di più, ed hanno migliorato ulteriormente l'importanza culturale di quella via Coroglio 104. Alla fine, dopo 17 anni, Città della Scienza è diventata, grazie ad un lavoro collettivo fatto per passione prima ancora che per soldi (che sono sempre stati pochi), un riferimento ineludibile per chi visita Napoli, un luogo da non perdere. Diciassette lunghi anni di divulgazione scientifica, cancellati in mezza nottata.

Che l'origine fosse dolosa, l'avevamo pensato tutti, in tutta Italia, già dalla prima colonna di fumo. Nessuno si beve la storia del mozzicone acceso, in un lunedì, giorno di chiusura dello science center.

Tuttavia, apprendere dalla relazione dei Vigili del fuoco che si è trattato di sei punti di innesco, quattro con benzina più due con altre sostanze chimiche da analizzare ancora, disposti a cerchio, fa rabbrividire e impaurire: Città della Scienza ha subìto, mentre era indifesa, un attacco militare in grande stile, arrivato dal mare. I nemici della cultura, della scienza, di via Coroglio 104, alla fine sono riusciti a colpire.

Perché via Coroglio 104 di nemici ne ha avuti, fin dal primo giorno di apertura. Nemici politici, nemici imprenditoriali, nemici pronti a mettere il bastone tra le ruote alla giovane struttura ancora in sviluppo. Nemici che hanno sempre desiderato una diversa destinazione d'uso per il litorale di Bagnoli e di Coroglio. Già perché da noi in Italia si è ancora convinti che l'unico sviluppo possibile per un territorio sia massacrarlo sotto tonnellate di cemento, sotto immense cubature di edilizia.

Così, c'é chi avrebbe voluto abbattere la vecchia fabbrica dell'800, monumento eccezionale di archeologia industriale, perché reputa migliore per la città fare un nuovo quartiere residenziale di villette per ricchi; chi invece l'avrebbe voluta abbattere perché pensa che Napoli debba competere con Olbia e Golfo Aranci in quanto a ospitalità per yacht per ricchi; chi avrebbe voluto fermare Città della Scienza solo per invidia, politica o imprenditoriale o sociale. Non ci sono riusciti.

Contro Città della Scienza hanno mandato denunce alle Procure, avvisi di garanzia al Presidente, hanno fermato i bonifici dei fondi (il 2001 fu un'annata infernale), il tutto per chiudere Città della Scienza. Non ci sono riusciti. Nel tempo, via Coroglio 104 si è consolidata, è diventata la realtà culturale importante che era fino a due giorni fa. Inutile attaccarla, ora che era diventata forte. Non ci sarebbero riusciti.

La fine di via Coroglio 104 fa piangere la scienza, fa piangere la cultura, ma anche la città, il Paese, anche noi stessi. Ma fa anche arrabbiare. Per questo non ci sarebbero riusciti mai. Per riuscirci, c'era una sola via. Incenerirla.


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