di Sara Michelucci

Un sound coinvolgente e unico per una delle band più originali dell’attuale scena musicale britannica. Nati a Bristol, proprio da un’idea della sezione ritmica della leggendaria formazione trip-hop, Portishead, i Get The Blessing arrivano in Italia con lo spettacolo ospitato dall’auditorium Gazzoli di Terni per la rassegna musicale Visioninmusica.

La band composta da Jim Barr e Clive Deamer, rispettivamente bassista e batterista, si completa con i fiati e l’elettronica del sassofonista Jake McMurchie e del trombettista Pete Judge. Il loro disco di debutto, All is Yes (2008), ha vinto un Bbc Jazz Awards, nonostante il jazz sia solo una delle influenze della band, il cui minimo comune denominatore è la passione per il genio di Ornette Coleman, ma non solo.

Interessante e degna di nota la capacità con cui fondono le loro diverse anime, dando vita a un sound che rimane esclusivo. Grande il coinvolgimento del pubblico che è chiamato a ‘collaborare’ alla resa musicale. L’interazione con chi ascolta è predominante. Con il loro quarto album, Lope & Antilope, continuano a creare atmosfere uniche e surreali, mixando sapientemente diversi generi, sperimentando continuamente e utilizzando gli strumenti fino alle estreme conseguenze.

Il bassista Jim Barr è uno dei principali protagonisti della scena trip hop di Bristol, bassista dei Portishead e richiestissimo session man, ha registrato, tra gli altri, con Peter Gabriel.
Clive Deamer (batteria e voce) oltre a essere il batterista dei Portishead e dei Reprazent di Roni Size, è stato in tour con Radiohead. Jake McMurchie (sassofono) è un musicista di formazione jazz attivo sia come leader di suoi gruppi che come sideman. Ha registrato con Portishead e National Youth Jazz Orchestra. Pete Judge (tromba) è un compositore di colonne sonore, oltre che jazzista e cultore della musica sperimentale, fa parte del trio Three Cane Whale con Alex Vann degli Spiro e Paul Bradley dei Me.

Due ore di spettacolo puro che soddisfa e conquista.


di Sara Michelucci

Lo spettacolo nello spettacolo. Il teatro nel teatro. È questo il punto di forza di Himmelweg – La via del cielo di Juan Mayorga, per la regia di Marco Plini, con Giusto Cucchiarini, Marco Maccieri, Luca Mammoli e nel ruolo dei ragazzi gli studenti delle scuole.

Si parte dal racconto intriso di senso di colpa e pieno di verità dell’uomo inviato dalla Croce Rossa per stilare un rapporto sulle condizioni di un campo di concentramento. La costatazione di non aver colto l’inganno - compiuto dal gerarca nazista che controllava il campo e che aveva messo in atto una vera e propria pantomima in cui erano coinvolti i prigionieri ebrei - non gli dà pace e lo fa scivolare nella disperazione più assoluta.

Un’opera che rivede l’evento più tragico del novecento, la Shoah, da una prospettiva nuova e crudelmente paradossale. Un punto di vista altro da cui guardare questa immane tragedia. Un po’ come aveva fatto Benigni con La vita è bella, in cui la finzione diventa un modo per sfuggire la crudeltà del reale.

Il testo contiene una grande quantità di suggestioni sulla realtà e la sua manipolazione, ma soprattutto ha un grande valore di conservazione della memoria, che non ha nulla di patetico, ma che vuole riaccendere nella mente dei più giovani il ricordo e la conoscenza di un evento storico lontano, ma allo stesso tempo estremamente prossimo. Qualcosa che non deve diventare sepolto in un punto della storia lontano e nebuloso, ma ha bisogno di essere ricordato. Per questo il progetto coinvolge gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, che in questo modo possono avvicinarsi alla conoscenza di uno degli orrori più grandi del Novecento.

Bravi gli attori, che riescono bene a trasferire al pubblico, da un lato la disperazione degli ebrei rinchiusi, che tremano nelle loro baracche al suono di un treno che non sanno dove vada e che cosa trasporti; e dall’altro la lucida spietatezza dei loro carcerieri, che citano grandi filosofi e poeti, ma generano aberrazione e morte come se fosse qualcosa di scontato e banale. La messa in scena di un campo di concentramento dove i prigionieri sono trattati bene e addirittura sembrano essere felici stona con la realtà dei fatti. Ed è proprio in questa contrapposizione che si racchiude tutta la follia dell’Olocausto.

 

 

di Sara Michelucci

I testi più politici e polemici di Pier Paolo Pasolini tornano in teatro con lo spettacolo di Fabrizio Gifuni, Na specie de cadavere lunghissimo, al Secci di Terni per la regia di Giuseppe Bertolucci. Una carica emotiva molto forte, quella che Gifuni riesce a mettere in atto, in un’ora e mezza di serrato monologo che racconta e mostra l’Italia dei primi anni ‘70, attraverso la qualche si preannuncia lo stato del paese attuale.

Nella prima parte Gifuni compendia il pensiero civile e politico di Pier Paolo Pasolini con frammenti tratti da alcuni suoi scritti; poi, dopo essersi spogliato dei panni dell’intellettuale, l’attore interpreta “Il Pecora”, l’assassino di Pasolini, per raccontarne l’ultima notte e quella corsa con quella specie di cadavere lunghissimo per le strade di Ostia.

“Per Eraclito il mondo non è altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l`unità, il Dio che vi sta dietro. Continuo a trovare in queste parole qualcosa che si avvicina moltissimo a quel profondo senso di mistero che accoglie la vita, l’opera e la morte di Pier Paolo Pasolini”, dice Gifuni.

Il racconto ha una carica politica molto forte che si esprime nel corpo attoriale e in dialoghi diretti che narrano di tempi bui, tanto che la tragedia pubblica e privata del poeta diventa il minimo comune denominatore di tutto lo spettacolo. “Il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l`immoralità e la cecità del vecchio Potere che stava aprendo la strada all`avvento di un nuovo potere - di un nuovo fascismo - il più potente e totalitario che ci sia mai stato.

Ma anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella stessa catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i corpi dei suoi amati ragazzi, che sembravano trasformarsi - sotto i suoi occhi - da simpatici malandrini in spettrali assassini. I suoi amati ‘riccetti’ stavano cambiando maschera: dall’innocenza al crimine”, aggiunge l’attore.

Il monologo resta un mezzo vincente per denunciare la barbarie morale e politica, quella incapacità degli uomini di potere di fare il bene della collettività e quella amarezza che l’intellettuale vive nel suo sentirsi impotente. Il linguaggio, che volutamente abbraccia registri differenti, è protagonista assoluto, mezzo per rappresentare gli opposti e gridare la denuncia. Una scelta vincente che muove il pensiero di chi guarda e lo mette di fronte alla dualità. E la decadenza di un Paese si fa viva nella morte del grande poeta e scrittore.

di Sara Michelucci

La favola di Pinocchio è solo un pretesto, una metafora della vita di tre persone uscite dal coma. Non attori, ma persone che hanno vissuto realmente il ritorno alla vita, dopo aver sfiorato la morte. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli raccontano la loro esperienza, il loro presente in un corpo segnato e che viene messo a nudo sul palco teatrale.

Parole che commuovono, ma che allo stesso tempo fanno anche sorridere, per la capacità dei tre, coadiuvati dalla voce fuori campo di Enrico Castellani, di riuscire anche a ironizzare su quanto accaduto.

Il Pinocchio di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, prodotto da Babilonia Teatri, andato in scena al Secci di Terni, deriva da un  progetto in collaborazione con Gli Amici di Luca, il laboratorio teatrale presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia.

Lo spettacolo, che ha il coraggio di raccontare cosa sia il risveglio dal coma, come possa cambiare la vita di tre persone che non sono più quelle di “ieri”, il cui passato non li lascia mai soli, ma il cui futuro è più che mai difficile, si è aggiudicato il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013.

Ma perché proprio Pinocchio? “Abbiamo incontrato quel mondo che sempre vogliamo fotografare, raccontare e restituire - dicono gli autori - un’umanità da ascoltare e amplificare senza pietismo, paternalismo né razzismo. Pinocchio è la loro umanità. Le loro e le nostre debolezze e incoerenze. L’eterno contrasto tra innocenza e consapevolezza: assunzione o fuga dalle responsabilità. Pinocchio è una scelta di campo. Ascoltare il grillo parlante o il gatto e la volpe, andare a scuola o entrare nel teatro di mangiafuoco, seguire lucignolo o chiedere consiglio alla fata, ubbidire al padre o fare di testa propria. Pinocchio è le nostre tentazioni. Le nostre contraddizioni. Le nostre bugie”.

Ma Pinocchio è anche la metafora di una trasformazione, di un cambiamento, da burattino a bambino. Morte e rinascita, quindi. Ma in nuove forme. È così anche per chi riesce a salvarsi da un terribile incidente stradale. Si nasce un'altra volta, ma in un corpo diverso, magari non si è più in grado di camminare o di parlare come prima, ma si è comunque ancora qui sulla Terra.

La vita continua, quindi, ma senza nessuno sconto. E sul palco nulla è edulcorato, anzi. Le emozioni sono contrastanti, si passa dalla risata alla più totale commozione e sulle note di Yesterday si evince tutta la forza che questo tipo di teatralità può offrire.

Una poetica, quella scelta da Babilonia Teatri, che affronta le sfide più ardue, tra delicatezza e audacia. I tre non attori mettono in scena la loro vita, a torso nudo mostrano le tracce di quella trasformazione che loro mal grado sono stati costretti a percorrere.  E il volo verso l’alto di Ferrarini, è una chiara metafora di quella sospensione tra il cielo e la terra vissuta da chi ha sfiorato la morte. L’emozione resta intatta, ma profondo è il turbamento di chi guarda.

di Liliana Adamo

Nel “paese delle meraviglie”, cuore pulsante dei primi nativi americani, a nord ovest del Wyoming, fra Montana e Idaho, sede dello Yellowstone National Park, perfetto wildland per orsi grizzly, lupi, mandrie di bisonti e alci, in un caldo venerdì del 2 agosto scorso, rompendo una tregua durata nove anni, il famoso Geyser Steamboat, il più grande su scala mondiale, si è risvegliato con un getto che ha raggiunto i novanta metri d’altezza. Nella stessa zona, il centro geofisico dell’University of Utah registra uno sciame sismico con un’intensità crescente. Tutto nella norma?

Il più antico parco degli Stati Uniti (1872), istituzione di fama mondiale a difesa di un ecosistema unico in aree temperate, si estende su un altipiano di 8980 chilometri quadrati e su tre caldere attive. Sebbene il termine “supervulcano” (nome attribuito durante un documentario della BBC), pare non si riferisca allo spettacolo sovradimensionato dei suoi geyser, ma alle potenzialità distruttive, dalle tre grandi eruzioni avvenute in successione 2,1 - 1,3 milioni e 640.000 anni fa, si formarono rispettivamente la caldera d’Island Park, quella di Henry’s Fork e di Yellowstone.

Dalla prima eruzione, presumibilmente la più potente in assoluto, si sviluppò il Ridge Tuff, la più grande formazione di tufo localizzata nel nord dell’America, mentre, si sa che l’eruzione più “recente” ebbe un impatto devastante sull’intera superficie, che fu investita da nembi di cenere, inversione del clima, estinzione di molte specie, cancellazione d’ogni forma di vita per migliaia di chilometri. Questi i fatti legati all’archeologia della sismogenetica, ma se veniamo alle ultime scoperte, pare che Yellowstone ci riservi un futuro altrettanto apocalittico.

Il Dipartimento di Geologia e Geofisica dell’Utah University, non si è limitato a registrare l’escalation sismica intorno al supervulcano sotterraneo, comunicando lo studio di una task force, guidata da Jamie Farrel e Bob Smith, per illustrarne i contenuti all’American Geophysical Union, che, a sua volta, li ha pubblicati sul proprio “Journal”.

Con risultati sorprendenti: nuovi strumenti di controllo hanno palesato proporzioni diverse rispetto a ciò che si credeva in precedenza; l’insieme di rocce incandescenti sotto la superficie del parco (che vanta un’estensione di tre stati, come abbiamo visto, Wyoming, Montana e Idaho), è pari a novanta chilometri di lunghezza, ventinove di larghezza e quattordici di profondità. Secondo i geofisici, la camera magmatica misurerebbe in larghezza, 480 chilometri, considerando che è stata alimentata per due milioni di anni.

In pratica, ciò equivarrebbe a un’eruzione potenziale superiore duemila volte circa, a quella di Mouth St. Helens (Washington DC), avvenuta il 18 maggio 1980, quando un potente terremoto fece collassare la parete nord del vulcano, liberando milioni di metri cubi fra gas, rocce e lapilli mentre una colonna di fumo (con un’altezza di ventiquattro chilometri nell’atmosfera), si riversava su undici stati americani. Un evento, quello del St. Helens, non solo distruttivo ma che “ridicolizzò” l’intera comunità scientifica, giacché fino allora, la stessa, l’aveva considerato “inattivo”, privo d’alcun rischio.

Come cultori di una civiltà tecnocratica e liberista, siamo abituati a considerare gli eventi legati alla fenomenologia naturale, situazioni in qualche modo controllabili o manipolabili grazie ai mezzi coercitivi cui disponiamo. Ciò nonostante, nel caso che il supervulcano Yellowstone dovesse esplodere oggi, si può soltanto pensare a contenere i danni. Limitatamente. Le conseguenze colpirebbero il mondo intero, con un impatto devastante sulle sorti del clima (l’offuscamento della luce solare produrrebbe un repentino abbassamento delle temperature terresti fino a -20°).

Yellowstone (come le Hawaii), domina una vasta area che la moderna geofisica definisce Punto Caldo stazionario del pianeta (Hot Spot), sopra il quale scorre la placca nordamericana. Strati rocciosi liquefatti sotto la crosta terrestre, spingono e tendono a uscire in superficie, in modo del tutto simile a un’attività vulcanica (vedi i Campi Flegrei in Campania). Dalla fuoriuscita di lava basaltica attraverso ciclopiche colate incandescenti, si è formato in diciassette milioni di anni, il maestoso canyon dello Snake River Plain, tra gli stati del Wyoming, Idaho, Oregon e Nevada. Tutte le caldere, dalla più antica, a cavallo tra Mc Dermitt, in Nevada e l’Oregon, fino alle formazioni più recenti, si congiungono all’enorme Plateau dello Yellowstone, in una sorta di cerchio di fuoco.

Gli studiosi presumono che se ci fosse un rush su larga scala, il nordovest degli Stati Uniti sarebbe completamente distrutto, lo Yellowstone annienterebbe ogni cosa nel raggio di 160 chilometri da subito. Come abbiamo detto, l’eruzione arrecherebbe un brusco raffreddamento del pianeta con scenari davvero imprevedibili.

Speculazioni pseudo scientifiche esercitate da un manipolo di ricercatori universitari in cerca di notorietà? Difficile pensarlo, visto che anche la serissima rivista Nature, sembra avvalorare le tesi del team Farrel/Smith, così come il Centro di Ricerche di Londra ipotizza una sorta “d’inverno nucleare” calcolando la prossima eruzione in un arco temporale tra il 2012 e il 2074.

Proprio la rivista scientifica Nature (nel febbraio del 2012), è stata la prima a divulgare una ricerca francese, (coadiuvata da Timoty Druitt per l’Università Blaise Pascal a Clermont-Ferrand), che penetra nel motore dei supervulcani, con l’obiettivo d’individuare segnali di previsioni per imminenti, disastrose attività esplosive. Lo studio calcola i tempi con cui si è ricaricato il serbatoio di magma sull’isola vulcanica di Santorini, che non appartiene alla categoria dei supervulcani, ma fu artefice, nel 1600 a.C. di una catastrofica eruzione, simile alle capacità di queste particolarissime strutture, in grado di sprigionare in un solo colpo, tutta l’energia accumulata, migliaia di chilometri cubi di materie incandescenti miste a gas.

I test, molto complicati, rivelano come il serbatoio di Santorini avrebbe iniziato a ricaricarsi cento anni prima e quindi, sostanziali cambiamenti nella composizione magmatica, potrebbero avvenire in tempi brevi, in prossimità di un’imminente eruzione. Monitorare le riserve laviche in caldere molto grandi e potenzialmente pericolose, potrebbe dunque aiutare a individuare eventuali cambiamenti e prevedere, appunto, un’incombente eruzione con quel che ne consegue.

C’è da osservare che le zone vicine al Plateau rosa (così chiamato per il colore delle sue rocce e dei geyser), si sollevano in modo continuo (fino a trenta centimetri), si riscontrano cambiamenti del clima e disordini deformativi del suolo. Dal 2004 si sono verificati circa 3000 terremoti l’anno. Una nuova ondata di terremoti è iniziata il 10 settembre del 2013 e prosegue tuttora. Nasa e Us Navy hanno chiuso i battenti e, senza un motivo apparente, hanno abbandonato il luogo. Qualcuno sostiene nientemeno che i Fema (fantomatici campi di detenzione originati trent’anni fa, utilizzati per fronteggiare stati d’emergenza, catastrofi naturali o guerre) si preparerebbero come se, da un momento all’altro, dovesse sopraggiungere un cataclisma continentale…



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