di Sara Michelucci

Arriva Suggestioni, il nuovo disco de GliArchiEnsemble, orchestra d'archi siciliana che quest'anno festeggia 10 anni di attività. Suggestioni è dedicato alle scuole nazionali del nord Europa, in particolare a Sibelius, Grieg, Nielsen e Tchaikovsky. Repertorio tardo ottocentesco, questo, caro al gruppo siciliano e particolarmente adatto al suono vigoroso e “unico”, che caratterizza gli undici musicisti de GliArchiEnsemble e li avvicina alla tradizione delle orchestre da camera tedesche.

Le dieci tracce percorrono un viaggio a ritroso nel tempo attraverso le - appunto - suggestioni sonore evocate dall’Europa del Nord: l’Andante Festivo di Jean Sibelius (1938), le Two Melodies Op. 53 di Edvard Hagerup Grieg (1891), la Little Suite Op. 1 di Carl August Nielsen (1888) e il celebre sestetto Souvenir de Florence Op. 70 di Pyotr Ilyich Tchaikovsky (1892), omaggio del compositore russo a Firenze e all’Italia.

“Questi dieci anni - commenta Domenico Marco, primo violino e presidente de GliArchiEnsemble - sono stati anni di sacrifici e di rinunce, ma anche di successi e di enormi soddisfazioni artistiche, tra le quali sicuramente annoveriamo queste Suggestioni. Registrare per Stradivarius ha rappresentato un importante salto di qualità per la nostra attività artistica esecutiva e di ricerca, volta a confrontarsi spesso con repertori poco eseguiti o incisi, almeno in Italia”.

Orchestra da camera nata a Palermo dall’unione delle prime parti dell’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo e dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, GliArchiEnsemble ha negli anni ampliato il repertorio e perfezionato l’intenzione interpretativa, grazie all’esperienza maturata a livello internazionale e alla collaborazione con solisti e direttori del calibro di Boris Belkin, Günter Neuhold, George Pehlivanian, Hubert Soudant.

Sul fronte discografico, nell'aprile 2012 GliArchiEnsemble ha inciso per Foné “Il suono del '900”, registrato al teatro Persio Flacco di Volterra, con due prime assolute: la Capriol Suite per orchestra d’archi in sei movimenti / danze di Peter Warlock, la Serenata per archi op. 20 di Edward Elgar e la Serenata per Archi op. 6 di Josef Suk, tanto amata da Brahms. Il nuovo disco, dedicato alle scuole nazionali del nord Europa, uscirà a dicembre 2013 per Stradivarius.

Il gruppo sposa anche cause benefiche. Sabato 14 dicembre alle ore 21.15 nella chiesa di San Salvatore a Palermo si esibirà in un concerto a favore della ricerca contro il cancro al pancreas. Il ricavato della serata sarà interamente devoluto all’Aisp- Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas.

di Sara Michelucci

Non delude mai, Paolo Poli. Nonostante i suoi 84 anni - portati tra l’altro in maniera invidiabile - l’attore toscano regala con Aquiloni uno spaccato dell’Italia rurale del primo Novecento, colorandola di musiche, balli e costumi. Trasformista e abile conoscitore del palcoscenico, Poli trae libera ispirazione dal lavoro di Giovanni Pascoli, regalando uno spettacolo divertente e a tratti anche malinconico, di un’Italia che fu. Accanto a Paolo Poli quattro attori di valore, Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco.

Le scene sono curate da Emanuele Luzzati, i costumi sono di Santuzza Calì, le musiche di Jacqueline Perrotin e le coreografie di Claudia Lawrence. Poli canta, balla e recita. Si rivela un attore a tuttotondo, riuscendo a dare movimento e raffinatezza a quello che porta in scena, senza dimenticare quel pizzico di sagacità che da sempre lo contraddistingue.

Il suo non è un semplice omaggio a Pascoli, ma una rivisitazione di opere come Myricae e Poemetti in cui si gioca con le onomatopee, i versi degli animali, dando alla voce e ai suoni un posto di primo piano.

Poli sperimenta all’ennesima potenza il plurilinguismo pascoliano, si traveste per il poeta italiano, evocando la magia della memoria e di un’Italia passata che custodiva in sé una purezza in gran parte andata perduta.

Poli regala al Secci di Terni, due ore di poesia e divertimento, togliendo a Pascoli quella coltre un po’ polverosa di poeta che si studia solo sui banchi di scuola, per donargli un vigore del tutto nuovo.

La leggerezza del fanciullino - che ben si rappresenta nella corporatura leggera e sottile di Poli, ma piena di energia - viene fuori e accarezza gli spettatori che rivivono passaggi fondamentali della loro storia passata, ma con un fervore del tutto nuovo.

L’attore fiorentino strizza l’occhio anche all’avanspettacolo, con vestiti pomposi e parrucche vaporose e stacchetti musicali, utilizzando intelligenza, ma anche un pizzico di irriverenza. Due ore che lasciano il sorriso sulle labbra e la voglia di ricordare i tempi che furono.

di Rosa Ana De Santis

Poteva essere un esperimento originale e utile. Poteva essere una tv istruttiva per tutti, specialmente per le persone meno istruite e informate. Poteva, ma il bilancio delle prime due puntate lascia, va ahimè riconosciuto, l’amaro in bocca. In una battuta e in piena coerenza con lo stile della tv italiana buca lo schermo la sola Africa del dramma. Certo che attraversare i campi dei rifugiati e le città o i villaggi distrutti dalla guerra non può che raccontare storie di dolore estremo, crisi profondissime di paesi e territori, ingiustizie e abusi.

Ma se tutto questo diventasse testimonianza dei protagonisti, documentario di progetti, lavori, idee e pensieri, interviste ad associazioni e organismi internazionali, studio delle azioni di intervento e non soltanto spot da raccolta elemosina per la donazione di un euro ai volti denutriti o malati dei bimbi africani del Congo, ad esempio, sarebbe stato meglio.

E’ la filosofia dell’assistenzialismo dell’Occidente ad avere un ruolo preponderante nella costruzione della puntata ed era proprio questo il rischio da scongiurare affinché le persone, specie quelle di paesi in crisi come l’Italia, non vivessero il tema dell’immigrazione associandolo unicamente all’elemosina dovuta. Erano quasi più credibili e più adeguati i naufraghi dell’Isola di Famosi che la Barale e i Savoia, improvvisati “missionari”d’occasione, animati dal bene, lacrimevoli di fronte al dolore, fintamente stupiti del male osservato.

Laura Iucci, portavoce per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ringrazia per i 75 mila euro raccolti dalle donazioni: una cifra considerevole che certamente denota generosità e attenzione da parte delle persone che hanno seguito il docu-film. Sarebbe stato però utile, forse ancor di più che l’aspetto economico già gestito da innumerevoli associazioni e chiese, aiutare le persone a conoscere e a capire. Andare lì in veste di semplici osservatori e lasciarsi interrogare dalle storie e dai paesaggi, senza adottare clichè precostituiti: che siano le sole immagini dei bimbi, delle capanne distrutte o l’Africa degli animali pericolosi.

La trasmissione, attraverso questa contaminazione di elementi tutti tipici della tv italiana, è diventata una miscela tra un reality safari e una soap melodrammatica sull’Africa povera con qualche uomo bianco prodigo di buoni consigli e tanta generosità.  Non è detto che sia un esperimento da azzerare in toto, certo è che l’inizio delude le aspettative.

Magari non di chi a casa è abituato a sentir parlare dell’Africa come di un mondo condannato. Non si voleva certo con questo format divulgativo avere l’ambizione di parlare di traffico d’armi e governi corrotti,  o di saccheggi delle multinazionali.

Ma forse si poteva lasciar spazio alle idee di chi li vive da sempre, di chi da li ha invece scelto di fuggire. Raccontare le ricchezze del sottosuolo, la potenza della natura. Il viaggio tra deserto e mare. Lasciando ai vip il ruolo di chi intervista e ascolta e null’altro può fare, e di chi, familiare al grande pubblico, può funzionare da esca per accendere la tv su quel canale. Senza appelli trionfanti a raccogliere fondi (se non sul sito della trasmissione). E pur con tutto il dolore delle ingiustizie da  spiegare agli italiani, senza lacrime. Mission lo avremmo voluto così.

di Rosa Ana De Santis

Dopo critiche, contestazioni e ripensamenti il Direttore di Rai Uno, Giancarlo Leone, ha deciso che Mission andrà in onda. Questa testata si è già occupata del programma e della sua ideazione che ai tempi aveva visto il coinvolgimento di Laura Boldrini come portavoce di Unhcr. Il rischio, pur presente, che la tv italiana avvezza a una certa banalizzazione o spettacolarizzazione morbosa dei drammi umani potesse ridurre tutto a vetrina e a gioco è stato battuto dalla volontà di far conoscere al grande pubblico quale sia il martirio patito dai profughi e rifugiati.

A questo servono i vip come Paola Barale. Non a gestire la scena dell’ennesimo reality nelle isole o nelle case, tra trame sentimentali e competizioni atletiche, ma a rappresentare il signore e la signora qualunque che attraverso le spiegazioni di operatori da Unhcr e Intersos conosceranno un mondo del tutto lontano dall’informazione corrente.

Il vip è quindi uno strumento di garanzia per la diffusione della conoscenza, nella consapevolezza che il programma di approfondimento e il giornalismo serio sul tema non siano alla portata di tutti. Un ritratto certamente impietoso del pubblico italiano che però fa il paio con lo share dei programmi più seguiti e amati che non premia certamente Tg Mediterraneo e dintorni, ma galà di ballo e gare tra aspiranti ballerine televisive.

Si aspettano quindi tra i due e i tre milioni di spettatori per quello che dovrebbe essere un docu-film di informazione e sensibilizzazione pensato per tutti e per entrare nelle case degli italiani. Forse visto il dramma di Lampedusa, visto la marea umana che anche per ragioni geografiche investe la nostra penisola, vista la voce fioca dell’Italia in Europa un’opera di conoscenza che prepari le persone e che le informi rappresenta se non un passaggio importante per la gestione del problema, un sicuro vademecum per evitare ulteriori e insidiose tensioni sociali già fin troppo forti.

Se è vero che la tv ha abdicato al ruolo di educatore che ha avuto fin dai suoi inizi, forse questo è un modo per tornare ad esserlo con adattamento ai gusti e alle abitudini degli italiani. Se Mission sconvolge, non può sconvolgere di meno la quantità di format a ripetizione basati sull’alleanza del vip con lo sconosciuto a caccia di tresche, competizioni di dubbia validità artistica, esibizione come valore assoluto e intrinseco.

Se per una volta tutto questo viene prestato ad una causa e se questo è il linguaggio più efficace per un popolo dopato dalla tv allora forse bisogna saperne vedere l’utilità. Insieme certamente all’amarezza di una società che non legge i giornali, non vede e non sente le notizie, ma ama il gossip e la celebrità come fine a se stessa. Il rischio di banalizzare è alto, ma quello che quasi nessuno conosca sul serio l’odissea che muove i barconi non è meno grave. Per la salute della democrazia e anche per la coscienza di tutti, che in fondo alla democrazia autentica serve tanto quanto il grimaldello della legge.

di Vincenzo Maddaloni

A distanza di giorni non è stato ancora spiegato perché domenica 24 novembre l’Italia non era con Francia, Inghilterra e Germania al tavolo di Ginevra nel quale Ue, Usa, Cina e Russia hanno firmato lo storico accordo sul nucleare iraniano. Eppure bastava ripercorrerne il percorso ricordando, che il negoziato con Teheran appena concluso si aprì nel  2003.

All’epoca - l’Italia era alla guida del semestre di presidenza della Ue - le potenze europee chiesero a Silvio Berlusconi - capo del governo allora in carica - di firmare assieme a loro la lettera a Teheran che dava appunto inizio al negoziato. La risposta italiana fu: “No grazie, non ci interessa”, benché per gli scambi economici - pari a 3,8 miliardi di euro - l’Italia fosse il secondo partner commerciale dell'Iran in seno all'Unione europea.

Questi silenzi mediatici  in Italia si susseguono da quando i grandi media hanno iniziato a girare intorno ai problemi come gattini ciechi: per scelta mirata o per pigrizia. Eppure l’Iran non è un problema di poca importanza. Se così non fosse il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non si sarebbe affannato - nella notte di domenica 24 - a telefonare al premier israeliano Benjamin Netanyahu, per aggiornarlo e rassicurarlo sull’accordo raggiunto con l’Iran e sul programma nucleare di Teheran.

Le cronache raccontano anche che il mattino seguente la firma del trattato, dopo la  telefonata di Obama la Borsa di Israele è schizzata in alto, prevedendo pace, stabilità e buoni affari. E non poteva essere diversamente, benché il premier Netanyahu avesse espresso la sua contrarietà all’intesa raggiunta con il 5+1 definendola un «errore storico».

La Borsa sale perché con la firma a Ginevra dell’intesa la Storia dovrebbe voltare pagina: ce ne sono le premesse. Tra  gli Stati Uniti e la Repubblica islamica dell’Iran si sono riaperti degli spiragli prima inimmaginabili, poiché tra le due nazioni non corre buon sangue fin dal colpo di Stato del 1953 per mano dei servizi segreti americani contro il governo democraticamente eletto di Mossadegh (moderato riformista e giurista di alto profilo formatosi a Parigi).

Di conseguenza, dopo la caduta dello Scià, la rivoluzione di Khomeni del febbraio 1979, e dopo che i rapporti diplomatici si erano interrotti con l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran (4 novembre 1979) ai tempi dell’amministrazione Carter, gli Stati Uniti sono rimasti fuori dall’area  strategica dell’altopiano iranico che ora Obama si ripropone di ridisegnare.

È per questa ragione che l’amministrazione Bush aveva inserito l’Iran tra i Paesi dell’asse del male e cercava i pretesti per scatenare l’ennesimo intervento militare. Dopotutto le guerre in Afghanistan e in Iraq e la presenza militare in Turkmenistan e in Azerbaijan rimangono manifestazioni eloquenti dell’ansia degli Stati Uniti di controllare quest’area strategica e di riconquistarne il cuore strappandolo agli ayatollah (ayat Allah, “segno di Dio”).

Va poi osservato che l’importanza dell’altopiano iranico è cresciuta in seguito ai cambiamenti strutturali avvenuti nell’uso e nel consumo dell’energia: una crescita esponenziale tale da rendere l’Iran determinante negli equilibri geopolitici globali. Il Paese si trova tra le risorse tradizionali del Golfo Persico e quelle nuove del Mar Caspio. Anche le aree adiacenti all’altopiano hanno una larga presenza di giacimenti e sono ricche culturalmente.

Infatti, Il territorio che si estende dalla Mongolia interna fino all’Ungheria, popolato da genti di origine turco-altaica, era abitato anticamente dai popoli iranici nomadi come i saka, i daha, i cimerri e rappresenta per gli studiosi “l’Iran esterno”, nomade, parente e antagonista “dell’Iran interno” racchiuso nei confini storici e di indole sedentaria. Naturalmente poco se ne vuol sapere della storia della Persia, dell’Iran, benché si viva nell’èra del copia-incolla e del web dove tutto dovrebbe costare meno fatica.

Sicuramente anche il copia-incolla ne costa, poiché l’immaginario collettivo privilegia ancora oggi lo scenario d’Oriente descritto nel 1937 da Robert Byron nell’opera La via per l’Oxiana. Uomo colto e dotato di spirito, Byron viaggiò negli anni Trenta alla ricerca delle testimonianze del passato, attraversò i luoghi dell’arte e della memoria tra la Persia e l’Afghanistan con la lena dei grandi esploratori dell’Ottocento e la grazia disinvolta dell’acquerellista alla ricerca di scorci da ritrarre sia quando parlava dell’arte moghul sia quando commentava, con stile puramente britannico, le bizzarrie esterofile dello scià Reza Pahlavi.

Un viaggio avventuroso lungo un itinerario che comprende le testimonianze di uno dei periodi più floridi per l’Asia centrale: il Rinascimento timuride, Tamerlano, Shah Rukh, Goar Shad Begum, uomini e donne innamorati del piacere di vivere - i “Medici d’Oriente” li definì l’autore - che seppero conciliare, sia pure per un breve periodo, il consolidamento di un potere basato sulla fede islamica con un vero e proprio umanesimo e un raffinato mecenatismo.

D’altra parte l’interesse di Byron non si limitava all’architettura del XV secolo, ma percorreva le tracce di tutte le diverse dominazioni: dall’impero achemenide con le vestigia di Persepoli, alla dinastia sassanide le cui testimonianze archeologiche, all’epoca di Byron scarsamente conosciute, “documentano un oscuro periodo della storia alla congiunzione tra il mondo antico e quello moderno”.

Furono lo stile british e gli scorci ad acquarello a incantare Bruce Chatwin che definì il libro un “capolavoro” e disse: “La mia copia personale, ormai priva della rilegatura e tutta macchiata dopo quattro viaggi nell’Asia centrale, mi accompagna da quando avevo quindici anni”. Poi diede un esempio di tanta considerazione: “Dopo aver letto La via per l’Oxiana si ha l’impressione che l’altopiano iranico sia un “ventre molle” che lusinga la megalomania dei suoi governanti senza dar loro il genio necessario per sostenerla”. Dimenticava però che l’Iran è un Paese antico, con oltre 2500 anni di storia, con una società - e questa è un’altra sua caratteristica peculiare - dotata di un profondo senso della propria cultura e della propria identità nazionale.

Per questa ragione anche oggi ciò che rende l’Iran così interessante e al tempo stesso così paradossale è il fatto di avere un regime teocratico coercitivo e insieme una cultura vibrante. Il paradosso si è creato perché esiste una società più avanzata del gruppo dirigente che la governa. Se si osserva la storia recente dell’Iran si nota che la lotta per la democrazia è iniziata nella metà del XIX secolo, molto prima che Chatwin scrivesse nel 1980 il saggio introduttivo all’edizione Penguin di La via per l’Oxiana.

E dunque, se  l’Iran è soprattutto la culla millenaria della civiltà indo-iranica dove si incontrano la civiltà iranico-islamica (a partire dal VII secolo) e quella iranico-europea (a partire dal XVII secolo), l’essere presenti sul territorio iraniano significa avere la possibilità operativa su uno scacchiere che va dal Pacifico al Mediterraneo, comprese le aree limitrofe. Pertanto l’intesa di Ginevra giova ad Obama più che a chiunque altro, poiché apre attese cariche di speranza alla disastrata economia americana. Ecco perché la Borsa israeliana sale, ci vuole poco a capirlo.

Questo accade benché molti repubblicani del Congresso americano, ma anche influenti esponenti democratici, abbiano espresso il loro scetticismo riguardo all’accordo firmato a Ginevra con l’Iran. E la preoccupazione riguarda al fatto che l’accordo preveda - sostengono - il congelamento dell’arricchimento dell’uranio, ma non la riduzione della capacità nucleare di Teheran. «L’accordo provvisorio continua ad essere visto con un sano scetticismo» ha affermato lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che ha sottolineato come l’Iran in passato abbia più volte svicolato dalla richieste di verifica e controllo delle proprie attività. Preoccupazioni di non poco conto, ma che non incidono più di tanto sul pragmatismo delle Borse.

Non è un mistero che Barack Obama è stato mosso da ragioni, pressanti, di casa. La débâcle estiva sulla Siria e la riforma sanitaria, la popolarità al 40 per cento, lo smarrimento della sua Amministrazione andavano fermati con un successo, e l’accordo con l’Iran lo è. Anche i repubblicani lo sanno: borbottano, ma se ne rallegrano poiché ad ogni americano - per prima cosa - stanno a cuore, come usa dire, le sorti della nazione.

Pare che in Italia valga la regola contraria, perché non credo che un governo Letta si sarebbe comportato tanto diversamente da quello Berlusconi del 2003, dal momento che non c’è stato cenno sulla vicenda di quella mancata firma se non in una dichiarazione del ministro Bonino al Corriere: «Non fu un’idea provvidenziale, nel 2003, quella di tenersi fuori dal dossier iraniano: tornare in gioco non è mai semplice».

Eppure è scritto su tutti i libri di storia che, nell'antichità, già i Sassanidi (e prima ancora i Parti) mantenevano con Roma e Bisanzio intensissime, seppur non sempre pacifiche, relazioni politiche che durarono per diversi secoli, fino alla conquista islamica della Persia. Naturalmente non potevano mancare Marco Polo che attraversò la Persia nel suo cammino verso la Cina alla fine del XIII secolo e Papa Innocenzo IV che inviò missionari religiosi e diplomatici in Iran nel tentativo di convertire la classe regnate dell'Ilkhanato.

Si racconta sempre sui libri di storia che anche molti ambasciatori della Serenissima Repubblica di Venezia visitarono le corti di Aq Qoyunlu, aumentando la frequenza dei viaggi durante il periodo safavide. Come dire che le relazioni economiche con la penisola italiana datano da lontano, più lontano di qualunque altro Paese.

Comunque sia il risultato di quel “no grazie,non ci interessa” lo si vede dieci anni dopo. L’altro giorno al tavolo di Ginevra tra le grandi potenze europee l’Italia non c’era. In tempi di crisi economica chi invece a Ginevra c’era, di questa assenza non se n’è potuto che rallegrare.







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