di Silvia Mari

Mancano pochi giorni alla data di chiusura, il 15 settembre,  della mostra di Sebastiao Salgado all’Ara Pacis di Roma. Per chi non avesse ancora avuto modo l’invito è di andare.  Per chi non può slegare il valore assoluto dell’estetica e del bello dalla tensione etica e filosofica, la galleria di fotografie in bianco e nero è un “santuario” imperdibile. “Genesi” questo il nome del progetto che, parallelamente a Roma, è partito a Londra, Rio de Janeiro e Toronto vuole catturare la bellezza del pianeta senza alterarla, restituendola alla sua purezza.

Animali, clima, vegetazione e uomo convivono in un equilibrio perfetto in cui i piani del dominio sono - ove ci sono - quelli della natura e della legge della vita, anche nelle sue note più crude e primitive. L’ambizione è quella di proteggere il pianeta dalle avventure di uno sviluppo distruttivo e scellerato. Antartide, Patagonia, Etiopia, Indonesia e altri luoghi remoti rappresentano i fotogrammi di un viaggio che protegge, custodisce e denuncia.

A questo proposito, come ricorda la moglie del fotografo curatrice della mostra, Lelia Wanick Salgad, da questo lavoro è nato un progetto che fa capo alla Fondazione no–profit sorta nel 1998 per il rimboschimento di circa 800 ettari di Amazzonia distrutta e ridotta a sabbia bruciata.

Le fotografie non rappresentano quindi le velleità di uno scienziato della natura, né quadri di un pittore che tende a sovrapporre il piano di un sogno o di un dramma personale. Le immagini vivono, parlano e, come Salgado dice di sé, nascono dallo sguardo di un uomo curioso che non si accontenta della contemplazione, ma cattura il cuore di uno splendore tanto perfetto quanto fragile.

L’obiettivo è quello dell’arte, ma il momento dell’opera immortalato è tutto giornalistico. Racconta, segue in movimento animali, uomini e donne in riti e tradizioni, foglie di palma e castelli di ghiaccio polare, denuncia il rischio di cose che possono finire, utilizzando il ripetersi di quadri viventi che vogliono rammentare al visitatore che tutto quello che è messo in cornice esiste davvero in punti precisi del nostro pianeta. La mostra come un lungo viaggio.

Da Parigi, la città in cui vive, Salgado non ha smesso infatti di essere un viaggiatore. Non un apolide, fatto di sola inquietudine, ma uno che ama ricordare. Da qui la promessa di restituire un po’ di foresta rubata al Brasile, tutelandola con un impegno che è anche politico ed economico, nonché ecologico.

Sono in molti a rimproverargli di aver fatto fortuna sul dolore dei drammi umani. L’arte non ha bisogno, nella sua accezione più romantica, di un fine morale per essere riconosciuta nel suo assoluto valore. Ma è certamente vero che quando il bello catturato da un artista colpisce una coscienza, l’arte è già altro da sé.

E’ il desiderio di un impegno, un pensiero, una smorfia di concentrazione o stupore rivolta a se stessi. Quella che l’occhio di Salgado, in un raffinato bianco e nero, coglierebbe senza esitazioni. Non il volto di quella donna, al termine della visita, fotografato nella sua ovale armonia, ma la ruga più nascosta che ne racconta il pensiero di quel preciso momento. La bellezza più fragile.

di Sara Michelucci

Nel 2013 cade il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013). Tante le iniziative a livello nazionale che fanno rivivere in teatro le opere del grande maestro. Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata sono i tre titoli previsti all’anfiteatro romano di Terni. La prima opera, andata in scena lo scorso 27 luglio, ha offerto al pubblico il melodramma in tre atti per la regia di Massimo Patroni Griffi, direttore Marco Gatti. Tra gli interpreti, Antonio De Palma nel ruolo del Duca di Mantova, Mauro Augustini nel ruolo di Rigoletto e Fernanda Costa nel ruolo di Gilda.

Rigoletto è una delle opere più conosciute e apprezzate di Verdi, centrato sulla drammatica e originale figura di un buffone di corte. Sulla scena si alternano i temi della passione, del tradimento, dell’amore tra padre e figlia e della vendetta. Rigoletto crea una perfetta simmetria di ricchezza melodica e potenza drammatica, senza dimenticare i temi sociali e la subalterna condizione della donna.

Una rappresentazione della realtà nella quale il pubblico ottocentesco poteva rispecchiarsi. Intense le interpretazioni dei cantanti, che offrono pathos e grande talento a un’opera già di per sé impeccabile. Il Tema della maledizione, dal punto di vista musicale, si ripete in maniera costante, con la nota Do in ritmo puntato. La scena è ambientata a Mantova e dintorni nel XVI secolo.

I personaggi principali sono il duca, il buffone, Gilda (la figlia del buffone), Sparafucile e la sorella Maddalena. L’opera è composta in tre atti, dove i lirici interpretano la maledizione del Rigoletto, il buffone di corte. La prima del Rigoletto ebbe luogo l'11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia. A portare in scena le opere, grandi interpreti del canto e registi affermati, insieme al Coro lirico di Brasov e Craiova, Romania, e all’Orchestra sinfonica ‘Tchaikovsky’ della Repubblica di Udmurtia, Russia.

Il 30 luglio alle ore 21 andrà in scena ‘Il trovatore’, dramma lirico in quattro atti per la regia di Mariano Rigillo, direttore Leonardo Quadrini. Tra gli interpreti, Mauro Augustini, nei panni del Conte di Luna, Francesca Rinaldi, nei panni di Leonora e Ambra Vespasiani, nel ruolo di Azucena.

Infine, sabato 3 agosto alle ore 21 andrà in scena La traviata, melodramma in tre atti per la regia di Enrico Stinchelli, direttore Massimo Gualtieri. Tra gli interpreti, Maria Dragoni nel ruolo di Violetta Valéry, Ambra Vespasiani nel ruolo di Flora Bervoix, Francesco Malapena nel ruolo di Alfredo Germont ed Ettore Nova nel ruolo di Giorgio Germont.

La stagione lirica 2013 è stata organizzata dall’associazione Otv Terni, Orchestra del Teatro Giuseppe Verdi, a Terni, ad opera di Marco Gatti e Massimo Gualtieri, e realizzata anche grazie al contributo della Regione Umbria, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Terni e della Fondazione Carit.

di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Su quella stessa piazza di Mosca dove oggi sorge la cattedrale di Santa Caterina, duecento anni fa giunse Golovatij, il capo, l'ataman dei cosacchi Zaporoghi, col suo mantello vermiglio sulla cerkeska nera, la lunga barba e in testa il colbacco di astrakan da combattimento. Prese il sale e il pane che una fanciulla bionda gli porgeva come segno di benvenuto sulla nuova terra e sguainò la spada davanti ai suoi soldati.

Lui che aveva combattuto mille battaglie e aveva pianto la morte di Pugacev il ribelle, il condottiero che per i cosacchi era stato lo "zar della speranza"; il temerario che aveva osato sfidare Caterina la Grande  mettendo le Russie a fuoco e fiamme finché non era stato catturato e condotto davanti a San Basilio a Mosca sul Lobnoie Mesto, il cippo di marmo dove venivano eseguite le condanne. La sua testa cadde per prima con un colpo di mannaia, poi il suo corpo smembrato in quattro parti fu trascinato dai cavalli intorno alla piazza perché chi non avesse visto potesse capire quale sorte spettava a chi osava ribellarsi all'Imperatrice.

Ma oramai erano passati dall'esecuzione vent'anni e l'armata cosacca, che si era coperta di nuova gloria sul Mar Nero, nella guerra contro i turchi della Sacra Porta, aveva ricevuto le terre del Kùban, nel Nord del Caucaso, e il metropolita aveva alzato la mano per benedire l'ataman Golovatij, i suoi Zaporoghi ed Ekaterinodar, il "Dono di Caterina", cioè la terra sulla quale sarebbe sorta la città fortezza con 43 villaggi che quei figli di nomadi della steppa si apprestavano a costruire, 1792 anni dopo la nascita della Santa Rus'. E che nel 1920 sarebbe sta ribattezzata col nome di Krasnodar dato che, in russo la parola krasnij può intendersi con i tre diversi significati di rosso, di bello e di splendido dei quali ciascuno potevano andar bene nel Paese della rivoluzione rossa.

Ma dovettero trascorrere settant'anni e passa prima che potessero ricomparire (giugno 1992) nella piazza di Krasnodar i cosacchi. Per primo vi giunse Aleksandr Gavrilovich Martynov, quarantenne piccolo e tarchiato, direttore dell'autorimessa n. 14 di Mosca, assieme ai capi dei cosacchi del Don e del Kùban, della Siberia e dell'Ussuri, del Dnepr e degli Urali. Si erano ritrovati per celebrare  la rifondazione degli Zaporoghi del Kùban, dopo che il primo presidente del periodo post sovietico Boris Eltsin con un decreto  li aveva riabilitati considerandoli "vittime della repressione sovietica".

E così rifondandosi in gran pompa, con una certa alterigia e un ostentato vigore, da allora i cosacchi sono tornati ad essere la reincarnazione della fede-nazione, della russificazione storica e patriottica dei particolarismi etnici che agitano l'immenso Paese dentro i suoi confini. Il loro compito è diffondere tra le genti russe quel coraggio necessario per rinsaldare la rete degli interessi comuni capace di frenare le spinte centrifughe.

Così li vuole Putin, perciò li incoraggia e li sostiene. Essi gli servono. Fino a ieri li aveva usati solo nella guerra vera, durante l' invasione del territorio georgiano nel 2009, inviando battaglioni cosacchi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso li utilizza per  incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso l' abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere.

Infatti,  a Mosca capita spesso di  vederli aggirarsi pure nelle ore notturne, come ronde di quartiere in uniforme storica, pronti a dare una lezione a qualche ubriaco un po' troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamente alla polizia eventuali «comportamenti immorali» sui marciapiedi di periferia. Marziali e spavaldi. Forgiati nelle loro nuove accademie, centri di addestramento, scuole religioso-militari protette, benedette, e gestite dal Patriarca ortodosso in persona, il quale non vuole perderne la tutela dal momento che persino Tolstoj ebbe ad affermare che «furono i cosacchi a creare la Russia».

In fondo, questo inizio di Ventunesimo secolo è agitato dalla stessa ansia del Diciottesimo, che portò Caterina a rimettere ordine nell'impero con molte ingiustizie e contraddizioni, poiché anche allora, come ricorda l'acuto cronista dell'epoca Vinskij, «il problema sta soprattutto nella mancanza di personale competente». A Vladimir Putin gli uomini con i pantaloni blu dalle bande rosse che un tempo indicavano l'esenzione dalle tasse, gli vanno benissimo, sebbene i cosacchi non siano proprio una garanzia di fedeltà assoluta allo Stato, come constatarono nei secoli molti zar preoccupati dalla turbolenta e intermittente obbedienza dei loro migliori cavalieri.

Ma a Putin, ansioso di "bonificare" le difficili aree del Caucaso islamico e separatista, e impegnato a tenere sotto controllo le piazze, essi gli diventano indispensabili. Sono per lui un efficiente spauracchio da ostentare  anche durante le recenti manifestazioni che hanno agitato le piazze di 28 città della Russia in seguito alla condanna del giovane blogger Navalnyj e al tentativo di Putin di chiudere per sempre la bocca al dissenso.

Dopotutto da secoli, come si legge sui libri di storia, ogni qualvolta è arrivato in Russia il vento del cambiamento, i cosacchi, in sintonia con la loro natura ribelle, non sono mai stati dalla parte del nuovo, e meno ancora del dissenso. Hanno sempre difeso e con tenacia la conservazione, anche se da sempre nell'organizzazione dei clan applicano una sorta di socialismo con la proprietà collettiva nelle stanitze, cioè i villaggi; e una democrazia rappresentativa con l'elezione dell'ataman, il loro capo, a suffragio universale. Non vanno oltre.

Infatti la storia li dipinge come il braccio armato dello zar. Sono loro che sopprimono le rivolte, e sono ancora loro che combattono i bolscevichi, e l'ultima cavalleria, le ultime cariche dei "bianchi" sono proprio quelle dei cosacchi.

E quando nel 1944 l'ataman del Don, l'ex generale zarista Piotr Nikolaevic' Krassnov, dal suo esilio in Francia lancia l'appello, riecco alcuni reggimenti con le famiglie e i carriaggi, le armi e i cavalli, schierarsi in Bielorussia a fianco dei tedeschi per combattere una guerra che li porterà dopo la ritirata dalla Russia di Stalin, nel Kosakenland Nord Italien, come la Carnia era stata ribattezzata dalle autorità hitleriane.

Le quali avevano imposto ai «residenti degli agglomerati italiani - considerati politicamente ostili - di lasciare le case delle quali fruiranno i cosacchi, in particolare quelli del Don». Vi soggiorneranno dieci mesi. Poi, molti moriranno durante la ritirata, in una disperata fuga attraverso il fiume Drava, incalzati dalle truppe scozzesi che consegneranno poi i superstiti ai sovietici che li interneranno.

Dopo sessantanove anni i russi, che li guardano ogni qualvolta sfilano splendenti di alamari e di medaglie sull'uniforme da parata, non si pongono affatto problemi di ricorsi storici. Il pubblico russo sembra gradire, quasi gustare questo "risveglio di guerrieri" che non poteva essere più inaspettato, più repentino e più totale.

Sono tutti giovani che non chiedono scusa alla Storia, non sono guerrafondai, né "signori della guerra" come i loro antenati, sanno di rappresentare la tradizione russa che è sopravvissuta a tutti i regimi del loro tormentato Paese. «Noi vogliamo la rinascita dello spirito della Santa Rus', siamo schierati a fianco dell'Ortodossia. Non crediamo alle promesse dei governanti, ma a quelle del Sacro Sinodo. Nei nostri villaggi abbiamo aperto le scuole di catechesi: i nostri figli devono sapere dov'è la verità», come mi diceva con un lampo negli occhi Nikolai Liasenko, agronomo del villaggio Zelenciukskaia di Krasnodar e ora ufficiale in servizio permanente dei cosacchi a Mosca. La divisa - confida - gli assicura nella Mosca dei pochissimi ricchi e dei tantissimi poveri, una vita dignitosa all'ombra della bandiera verde, rossa e azzurra, dove il verde sta a indicare i cosacchi delle Repubbliche asiatiche, l'azzurro quelli dell'Ucraina e il rosso al centro quelli della Russia.

Ogni domenica i pope benedicono la coda dei “guerrieri” che entrano e baciano tre volte l'immagine di Gesù nella cattedrale di Santa Caterina a Mosca, poi chinano la fronte sul vetro della teca segnandosi tre volte. Benedicono la bandiera che s'ammaina sotto le volte dipinte in onore e in ricordo del dono dell'imperatrice e indicano il vessillo alla folla, quasi a voler significare con quell' aspersione benedetta che attorno ad essa è raccolta una forza capace di infondere nuove energie morali in un Paese ormai simile alla Spagna di Filippo IV e all'Inghilterra di fine Ottocento, imperi insieme formidabili, ma fradici all'interno.

Eppure come non provare timore e inquietudine per questo sistema di fede testimoniato dalla tradizione più che dal desiderio di rinnovamento, conservato nei segni antichi di una fedeltà religiosa che, nonostante tutto, continua a tramandarsi da più di quattro secoli, cioè da quando gli Zaporoghi ne fecero l'insegna nella guerra contro i cattolici-polacchi.

«La difficoltà maggiore sta nel fatto che in settant'anni il potere comunista ha cercato con tutti i mezzi di cancellarci e nel contempo di screditarci agli occhi del popolo», ha scritto Nikolai Ozerov, docente di Storia, e capitano dei cosacchi del Don. «Non a caso dal 1992 ci siamo imposti il motto "Rinascita", poiché siamo come un albero che è stato sradicato. Se non avessimo avuto la religione non avremmo avuto di che nutrire le nostre radici. L'Ortodossia rimane il nostro sostegno, senza di essa non saremmo rinati».

Mi ricordo quella domenica di giugno del 1992 a Krasnodar, dove si celebrava la prima festa della riabilitazione cosacca. Erano in tantissimi che si avviavano verso la Casa della Cultura, dove avrebbero tenuto  la loro prima assemblea pubblica.

Quei "guerrieri" che avevano dimenticato come si andava a cavallo, che avevano preso a prestito pugnali e spade dai teatri, poiché «se la polizia avesse trovato nelle nostre case una divisa o peggio ancora una lama, sarebbe stata per noi la prigione», si muovevano sicuri e padroni tra le automobili e gli autobus e puntavano al caffè della cooperativa nella ricerca vana di una bottiglia di vodka.

La gente che faceva ala al corteo li guardava mentre mangiavano le salsicce, che secondo loro erano le migliori del mondo: li osservava e forse ravvisava, nelle cartucciere cucite sul petto della cerkeska, gli involucri d'alluminio dei sigari “Avana" che un tempo si riuscivano a comperare nelle tabaccherie sovietiche al prezzo di 85 copeki e che in quel 1992, in piena perestrojka,  non si trovano più. Oppure riconosceva la pelle nera degli stivali da donna ritagliata per fare il nabor, cioè la cintura con dieci borchie trovate negli scarti della fabbrica; o magari rivedeva sulle spalline i nastri di lamé che servivano per abbellire gli abiti da sposa e che si trovavano nei magazzini a 60 copeki al metro e che in quel giugno al mercato nero non valevano meno di sei rubli.

A quel tempo non c'erano ancora negozi per questo look della nostalgia e bisognava arrangiarsi da soli, cominciando a raccattare quanto serviva per rifare l'uniforme, per essere pronti quando si annunciava il raduno. E questo far da sé dei cosacchi faceva parte della loro singolare capacità di star fuori e dentro la società sovietica, uscendone - dopo che gli fu loro permesso - quando volevano: bastava mettersi in testa il papacha e allacciarsi la sciabola. Cosa che accade anche ora  nella Russia di Putin.

Mi ricordo Pantelei Ivanovich (non chiedetemi dopo vent'anni il cognome nda) che scuoteva la testa e diceva che i cosacchi della nuova generazione che non sapevano andare a cavallo non gli infondevano fiducia. Lui abitava nella stanitza Pash- kovskaia che il pittore Ilia Rèpin scelse come fondale per la sua famosa tela “I cosacchi scrissero una lettera  al sultano ottomano”. Abitava in una casina di legno con la moglie Aleksandra Semionovna, il nipote Igor, due cavalli bai e molti topi che gli avevano rosicchiato il vecchio album con le fotografie.

Ma i ricordi di Pantelei Ivanovich rimanevano vivissimi e così singolari che facevano tornare in mente quelli dei cosacchi del romanzo di Babel, perciò li conservai nel taccuino degli appunti. Raccontò: «Quando partii per il fronte mio padre mi disse di ritornare col petto coperto di medaglie, altrimenti era meglio che mi facessi tagliare la testa dietro un cespuglio. Combattei nel "Reggimento Sterminio", il cui compito era di fiaccare i tedeschi in ritirata. Ci lanciavamo alla carica dopo l'intervento dell'aviazione, nel fragore di sessantamila zoccoli e nel luccichio di quindicimila spade. Allora che ero ben saldo nelle gambe e avevo molta forza nelle braccia con un colpo solo di sciabola riuscivo a fare di un cristiano due metà. Avevo una cavalla, Ciaika, cioè gabbiano, l'avevo chiamata così tant'era agile, benché fosse nera come la notte sulla steppa cosacca».

Non so se Pantelei sia ancora vivo, se lo fosse avrebbe quasi novant'anni. Quello che so, avendolo letto sulla rete, è che Aleksandr Gavrilovich Martynov (classe 1942) è ancora l'ataman di Krasnodar. «Noi contiamo molto sullo sviluppo delle cooperative cosacche, cercheremo di fare in modo di portare un nuovo benessere, sviluppando i commerci, poiché il dinamismo e lo spirito d'avventura sono le nostre doti naturali», così diceva Martynov.

Se egli ha conservato il “posto” significa che qualcosa è riuscito in questi vent'anni a realizzare per la sua comunità. Impresa ardua in una Russia collassata dal disagio sociale, con un processo di accumulazione selvaggia da parte di una ristretta minoranza che è riuscita ad approfittare della disgregazione dell' Unione sovietica per arricchirsi a dismisura. Si aggiunga poi la frustrazione dell’esercito che si considera imbattuto sul campo di battaglia, le diaspore, i tumulti, le repressioni poliziesche, le manifestazioni di piazza contro il potere. E’ in questo scenario che i cosacchi - con la devozione totale alla Madonna del Don loro protettrice e con una lista di nemici che mette i brividi: musulmani, ebrei, atei e sobillatori dell' ordine costituito - si sono riappropriati degli antichi fasti. Tra i pochi eletti a godere sulle macerie del postcomunismo.

www.vincenzomaddaloni.it






di Luca Mazzucato

Ci lascia a novantun anni Margherita Hack, matriarca dell'astronomia italiana, punto di riferimento della sinistra italiana e delle battaglie per i diritti civili, senz'altro la più amata tra i cittadini triestini. Con la sua forza instancabile, la schiena dritta e l'inconfondibile accento fiorentino, le sue crociate per la laicità dello Stato e l'accesso ai saperi hanno acceso l'entusiasmo di generazioni dopo generazioni di scienziati, attivisti e compagni in tutto il Paese.

Dopo essere andata in pensione dalla cattedra di Astronomia dell'Università di Trieste, a metà degli anni Novanta, invece di ritirarsi a vita privata, decise di dedicarsi anima e corpo all'attività politica e alla divulgazione scientifica, per lei due facce della stessa medaglia.

Per un caso del destino, fummo vicini di casa per alcuni anni a metà del decennio scorso, durante gli anni in cui conseguivo un dottorato in Fisica a Trieste. Tutte le mattine, mentre io accendevo la vespa per andare a Miramare, puntuale come un orologio, l'ottuagenaria Margherita Hack inforcava la bicicletta e affrontava le colline di Trieste, decana del club di ciclismo triestino. E affrontava la vita come se ogni momento fosse una volata. Fino agli ultimi giorni, “Rallentare il ritmo?” confessava in un'intervista, “Sì che ci avevo pensato. Ma quando sono andata in pensione, la mia attività è diventata frenetica.”

Nel dicembre del 2012, in un'intervista a Il Piccolo, il quotidiano di Trieste, l'astronoma aveva lasciato nero su bianco una sorta di testamento biologico: “La morte non mi fa paura, la perdita dell'autosufficienza sì.” All'indomani della diagnosi di un grave problema cardiaco, decise di non farsi operare: “L'idea mi è venuta di notte, semplicemente. Mi sono resa conto che in ospedale mi mancavano la mia attività, mio marito, i miei animali, privacy compresa. Una vita a metà. Qui a casa vivo. Magari al rallentatore, ma faccio le cose normali. E allora, ho pensato: un’operazione a rischio, un’altra degenza e poi una lunga convalescenza? No: come va, va... Meglio campare poco ma bene che male per anni.”

Fino alla fine, Margherita Hack ha continuato a battersi instancabilmente per l'accesso pubblico ai saperi, per l'educazione scientifica della cittadinanza come pilastro della convivenza civile. Nella sua ultima intervista, rilasciata l'Aprile scorso, si batteva per la riapertura dell'Osservatorio solare “Urania Carsica” di Basovizza, la cui costruzione fu una delle sue prime opere da direttrice dell'Osservatorio di Trieste nel 1964, che, come prima direttrice donna in Italia, elevò a rinomanza internazionale.

Dalle colline sopra Trieste, per quasi cinquant'anni la specola ha sorvegliato l'attività radio della nostra stella e attirato migliaia di curiosi, studenti, astronomi dilettanti con la sua vigorosa missione divulgativa, ma fu chiuso tre anni fa per mancanza di fondi. Dopo aver assunto la carica di direttrice, Margherita Hack trasformò l'Istituto di Astronomia in un Dipartimento di Astronomia. Grazie a lei, la scuola triestina è diventata un polo d'avanguardia internazionale nella ricerca in Astrofisica e Cosmologia. Il ruolo centrale che l'Italia oggi detiene nelle missioni satellitari dell'ESA e della NASA è senz'altro figlio della sua visione, che la comunità astrofisica ha voluto riconoscere battezzando l'asteroide 8558Hack in suo nome.

Ma il suo impegno pubblico non era certo confinato alla scienza e alla responsabilità civile dello scienziato. Margherita Hack rivendicò sempre con coraggio la sua fede comunista, atea e anticapitalista. Le sue lotte per i diritti civili, a favore dell'eutanasia, contro la legge 130 sulla procreazione assistita, la superstizione religiosa e l'ingerenza del Vaticano nella politica italiana si intensificarono ancor di più dopo il suo pensionamento.

Dopo aver compiuto ottant'anni si candidò con i Comunisti Italiani, con la Federazione della Sinistra e altre liste di sinistra. Fu eletta tre volte alle elezioni politiche e regionali, ma rinunciò sempre al suo seggio, per tornare a dedicarsi a tempo pieno all'astronomia e alle sue battaglie politiche sul campo, le due passioni di una vita. “La vita è nostra e dobbiamo essere liberi di scegliere, nel momento in cui diventa un peso insopportabile, se vogliamo davvero continuarla. Essere laici significa lasciare a ciascuno le proprie credenze e rispettarle senza voler imporre le proprie.”

di Sara Michelucci

La vita è un punto di vista e, di conseguenza, la realtà delle cose dipende dallo sguardo di chi la osserva, anche se si decide di scrutarla analiticamente, appuntando su un diario tutti gli avvenimenti che accadono. E da questo concetto che parte Reality, spettacolo teatrale ideato da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini a partire dal reportage del giornalista polacco, Mariusz Szczygiel.

Reality ha chiuso, venerdì scorso, il ciclo di kermesse di teatro contemporaneo al Secci di Terni, all’interno della Stagione di Prosa 2012/2013. I due attori (Deflorian e Tagliarini) mettono in scena la storia di Janina Turek, donna polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato minuziosamente i dati della sua vita. Dal bere un caffè nero, alle domeniche passate a casa a guardare la televisione, dalla rottura del telecomando alla descrizione dei pasti.

È un elenco di cose, numeri e azioni che la donna ha voluto mettere nero su bianco per catalogare la realtà, la sua esistenza, quasi a volersi spiare. Ogni cosa, però, appartiene sempre ad un punto di vista che rende la realtà qualcosa di soggettivo. Il reality che va in scena al Secci è lontano da quei programmi televisivi a cui, ormai, siamo fin troppo assuefatti.

È uno spettacolo, quello di Janina, senza pubblico, solitario, dove la quotidianità della propria esistenza la fa da padrona, dove qualsiasi cosa può essere speciale o banale allo stesso tempo.

Una casalinga di Cracovia che dai 20 agli 80 anni ha deciso di mettere la sua vita in un diario, ma senza scrivere le emozioni, ma solo elencando i fatti, applicandosi così a registrare la realtà senza interruzioni.

Una vita dove le domeniche sembrano tutte uguali, dove si sogna anche un noioso pranzo di famiglia, pur di non restare soli. E dove c’è sempre quel nodo alla gola che certe mattine non le permette nemmeno di mandare giù un caffè.

Mariusz Szczygiel scrive nel reportage: «Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino traccia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le nostre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma per necessità.

Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quotidiano affaccendarsi viene consegnata all’oblio. Janina Turek aveva scelto come oggetto delle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertanto passa inosservato».


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