- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Emanuele Vandac
Prima dell’incontro con i colleghi francese e lussemburghese, il Primo Ministro belga Yves Leterme ha ostentato sicurezza, dichiarando ieri alla televisione belga che era a portata di mano una soluzione politica capace di scongiurare il fallimento di Dexia senza penalizzare troppo il merito di credito del Paese, già appesantito di un debito pubblico pari al PIL. A stare al comunicato stampa rilasciato domenica dalla segreteria di Leterme, effettivamente i governi dei tre Paesi avrebbero trovato un accordo su un piano finalizzato a neutralizzare la prima mina innescata dalla “crisi greca”.
Eppure la conferenza stampa congiunta di ieri con cui Sarkozy e la Merkel hanno tentato di dimostrare unità di vedute, non è molto rassicurante: al di là delle trite litanie sulla determinazione comune “a fare tutto il necessario per assicurare la ricapitalizzazione delle banche europee”, non vi sono indicazioni univoche su come l’Europa intenda affrontare il mostro bicipite dell’ondata speculativa anti-euro e della insufficiente capitalizzazione (e/o liquidità) di alcune banche europee.
La conferenza stampa dei due leader non poteva che trasmettere un deleterio senso d’indeterminatezza, vista l’inconciliabilità delle visioni dei due. Secondo Sarkozy, infatti, le banche in difficoltà dovrebbero poter accedere immediatamente al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria; la Merkel invece continua a considerare quello strumento come l’ultima carta da giocare, una volta che siano eventualmente falliti il ricorso ai mercati finanziari e quello al governo del Paese della banca in difficoltà.
E’ comprensibile la preoccupazione di Sarkozy, dal momento che, se il governo francese dovesse essere chiamato a effettuare anche altri salvataggi bancari, il suo merito di credito a tripla A potrebbe essere declassato. Il Belgio, con un rapporto debito / PIL del 97%, è in una situazione molto più preoccupante. Non tanto per l’esborso di 4 miliardi (circa l’1% del suo debito) con cui il governo comprerà gli sportelli Dexia in Belgio, quanto piuttosto a causa delle garanzie che sarà chiamato a prestare.
Il piano di salvataggio prevede infatti che, mentre tutti gli asset di qualità di Dexia verranno rapidamente ceduti (certamente la controllata turca Denibank, l’italiana CrediOp, quando e se si troverà un compratore), tutte le attività problematiche saranno conferite in una bad bank, una bara carica di circa 95 miliardi di euro di titoli fortemente svalutati (quelli greci valgono la metà del valore facciale), di cui circa 12 emessi da Spagna, Italia e Portogallo. Secondo un calcolo di Reuters, i governi francese e belga potrebbero essere chiamati a garantire attività per un totale di 200 miliardi di euro: il Belgio dovrà farsi carico del 60% e la Francia di quasi tutta la parte rimanente.
Non c’è da meravigliarsi dunque se i costi di approvvigionamento fondi sui mercati per il Belgio siano saliti. Contrastanti le reazioni delle agenzie di rating: mentre Moody’s già venerdì ha minacciato il declassamento del merito di credito del Paese, a quanto riferisce Reuters, Standards & Poors’, ha stranamente confermato i rating di Francia e Belgio anche dopo l’annuncio del salvataggio Dexia.
Il ministro delle finanze francese Francois Baroin, dal canto suo, tenta maldestramente di gettare acqua sul fuoco, dichiarando alle agenzie internazionali che il salvataggio di Dexia è “un caso particolare, non generale”; secondo Baroin, le uniche banche che hanno bisogno di rafforzare la propria struttura patrimoniale sono quelle che non hanno superato lo stress-test (un’analisi condotta dall’Autorità Bancaria Europea, o EBA, assieme ad altre istituzioni nazionali ed europee, su 90 istituti europei in 21 Paesi, finalizzata a “stimare la capacità del sistema bancario europeo a resistere a shock estremi e a valutare la solvibilità specifica delle singole istituzioni finanziarie”).
Sono solo otto le banche bocciate dallo stress test (cinque spagnole, due greche ed una austriaca), e certamente non vi sono né Société Générale né Credit Agricole (le banche più chiacchierate in questi giorni), secondo il Ministro tutto è sotto controllo. Se però egli nutre davvero una fiducia incondizionata in questo tipo di misurazione, dovrebbe spiegare, restando serio, per quale ragione lo scorso 15 luglio Dexia ha passato a pieni voti il suo stress test: a seguito della simulazione di catastrofe, la banca franco-belga aveva mantenuto infatti un coefficiente di patrimonializzazione tier-one molto elevato, pari al 10,4%.
E’ dunque evidente che lo stress test, che per sua stessa natura non considera l’ipotesi di default di uno stato dell’Eurozona, né esprime alcuna valutazione sul rischio di liquidità (quello che ha spacciato Dexia), è tutto fuorché il discrimen rerum per comprendere se una banca sopravviverà nello scenario più terrificante possibile, o se invece fallirà dando del filo da torcere a uno o più Paesi europei. La comprensibile preoccupazione dei governanti, in conclusione, non dovrebbe costituire un alibi per dare a cittadini e mercati informazioni errate. E per inciso, verrebbe naturale domandarsi quale sia lo scopo di una misurazione che non serve assolutamente a niente.
Infine stupisce, e non poco, il silenzio delle istituzioni sulla qualità del management di Dexia. Se una banca, già salvata a forza di miliardi di soldi pubblici nel 2008 si trova di nuovo sull’orlo del fallimento, è evidente qualcosa che non va nel modo in cui è gestita: come minimo, infatti, si può dire che esiste una correlazione non efficiente tra la durata del suo passivo (troppo a breve) e quella del suo attivo (troppo a lungo). A livello più generale, sembra proprio che l’Europa stia sparando tutte le sue cartucce per salvare le sue banche, mentre sarebbe molto più saggio salvare velocemente la Grecia.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Emanuele Vandac
Le due iniziative politiche parallele della Cancelliera tedesca da un lato e del direttore del Dipartimento europeo del Fondo Monetario Internazionale Antonio Borges dall’altro, aiutano a comprendere quali siano i fronti su cui si sta combattendo la guerra per la difesa dell’euro: il debito sovrano dei paesi sotto attacco e il sostegno ai sistemi bancari dei singoli paesi. Nel corso di una sua visita a Bruxelles, la Frau Merkel ha sottolineato la necessità di mettere a punto e condividere celermente i “criteri comuni” alla base di un sistema di salvataggio per le banche europee potenzialmente in difficoltà.
Merkel ha anche spiegato che il dispositivo di supporto agli istituti da ricapitalizzare dovrebbe prevedere tre livelli: in primo luogo, ricorso ai privati, poi, in caso d’insuccesso, accesso ad un sistema di tutela nazionale; solo in ultima istanza, dopo il fallimento delle altre due possibilità, dovrebbe occuparsene il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria.
Borges, dal canto suo, ha sostenuto che il FMI potrebbe attivare un “veicolo” speciale attivo sui mercati primari e secondari dei titoli di stato. Questa entità giuridica comprerebbe soprattutto obbligazioni emesse dal governo italiano e spagnolo, contribuendo così ad allentare la pressione al rialzo sui tassi causata dalla crisi. Un meccanismo efficace e politicamente vendibile per diverse ragioni. Innanzitutto, il FMI agirebbe solo a fronte d’impegni concreti da parte dei singoli governi. La possibile iniziativa del FMI, inoltre, alleggerirebbe la posizione della Banca Centrale Europea, certamente non a suo agio nella veste di obbligazionista forzato della Repubblica Italiana e di quella spagnola. Infine, il peso politico e finanziario del Fondo aiuterebbe a contrastare con efficacia le mosse degli speculatori che stanno mirando a distruggere l’euro.
Peccato che, per diventare realtà, l’idea di Borges dovrà essere condivisa dagli stati azionisti del Fondo; non è in questo senso di buon auspicio il fatto che nessun rappresentante degli Stati dell’Eurozona si sia fatto avanti. A dispetto delle apparenze, sembra proprio che i politici europei siano soddisfatti di come funzionano le loro istituzioni (Commissione, Banca Centrale, Governi...).
Quando la Merkel parla di salvataggi bancari, è impossibile non pensare alla crisi della Dexia, che per la seconda volta in quattro anni sta bussando alla porta dei governi francese e belga per evitare il fallimento (è già successo nel 2008 quando la banca franco-belga-lussemburghese è stata salvata con un intervento pubblico da oltre 6 miliardi di euro). Il caso Dexia è emblematico: pur essendo una banca ben capitalizzata (ha un tier-one ratio superiore al 10%), ha nel suo attivo 3,5 miliardi di euro di titoli greci e circa 18 di emittenti di paesi europei sotto tiro (Italia, Spagna e Portogallo).
Dexia ha già riflesso nei suoi conti un deprezzamento dei titoli greci in portafoglio del 21%, cosa che ha ovviamente prodotto dei danni significativi, ma non catastrofici. E’ però molto probabile che le percentuali in gioco finiscano per essere di molto superiori (50-60%): se questo dovesse avvenire, il crack è garantito. L’esempio eclatante di Dexia spiega la freddezza con cui fino a ieri la Francia ha accolto i progetti della Cancelliera, secondo cui è giusto che i portatori di titoli greci (privati inclusi) accettino una svalutazione del 50% sul loro valore nominale.
Il vero timore del governo francese è che una tornata di salvataggi di stato pesanti finisca in breve tempo per appannare il merito di credito della Republique, che oggi (ancora) può fregiarsi della sua luccicante tripla A (per quello che vale). Sembra incredibile che i politici francesi continuino ad esibirsi in complicati giri funambolici quando l’unica soluzione possibile in casi come questi è quella, già seguita nella liberista Gran Bretagna ed in Germania, di nazionalizzare le banche.
Può piacere o meno, ma al momento altre soluzioni non se ne vedono. Del resto, come spiega il Financial Times, è necessario evitare gli errori già fatti a suo tempo dall’Irlanda, che ha preferito mettere a rischio il debito sovrano del Paese per salvare le sue banche. Il vero nodo del problema, infatti, è il rischio di contagio spinto dalla crisi di fiducia nei debiti sovrani dell’area euro.
Pertanto l’obiettivo dovrebbe essere mettere al sicuro gli emittenti nazionali dell’Area in tutti i modi possibili (rafforzamento del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, intervento del FMI sono passi nella direzione giusta): una volta conseguito questo obiettivo, magicamente i bilanci delle banche europee diventeranno più solidi, e forse si potrà evitare ai governi di correre al salvataggio di altri “campioni nazionali” della finanza.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Emanuele Vandac
Downgrade di tre tacche per il debito sovrano italiano: questo l’esito delle lunghe riflessioni di Moody’s sul merito creditizio del nostro Paese, che tra l’altro avevano causato l’estensione di un mese del periodo di review sull’Italia. Un declassamento del debito italiano era nelle cose, se non altro perché da organismi che si sono arrogati il diritto di dare un’opinione autorevole ai mercati sulla qualità degli emittenti ci si attenderebbe quanto meno un po’ di coerenza.
In effetti, dopo il downgrade deciso il 19 settembre da Standard & Poor’s, il “voto” assegnato da Moody’s all’Italia era di tre notch più alto rispetto a quello dato dall’altra agenzia: adesso i due concorrenti sono allineati su una valutazione di cosiddetta “singola A” (rispettivamente A2 e A). Va segnalato in ogni caso che Moody’s doveva avere una certa fretta di adeguarsi al S&P: infatti aveva a suo tempo dichiarato che avrebbe atteso fino al 15 ottobre per completare la sua review sull’Italia.
A giustificare la decisione dell’agenzia di rating sono tre ordini di motivazioni: primo, il rischio concreto di una crescita ancora più debole del previsto provocata da una crisi globale; secondo, la scarsa credibilità (nel quantum e nel quando) delle cosiddette misure di austerità varate dal governo italiano negli ultimi mesi; terzo, la “erosione non ciclica della fiducia dei mercati degli investitori istituzionali negli Emittenti Sovrani dell’Eurozona, spinta dall’attuale crisi del debito”.
Sul secondo tema, quello della tenuta dei conti di Tremonti, nulla da obiettare alla cruda bocciatura di Moody’s. Anche se un’agenzia di rating tanto attenta alla temperie politica dei Paesi valutati dovrebbe considerare l’effetto di misure inique sul sentiment generale di milioni di Italiani onesti e depressi da un sistema che ignora - quando non tende ad aggravare - i loro problemi primari (lavoro, servizi, condizione femminile e giovanile), salvo spremerli come limoni al momento in cui si tratti di fare cassa. Un’ipotetica misura qualitativa in grado di stimare l’impatto di questa rabbia impotente sulla possibilità del Terzo Stato italico di sentirsi pienamente parte di un “sistema” e, quindi, di generare reddito e ricchezza potrebbe aggiungere valore impensato alle loro analisi.
Per quanto riguarda invece il primo ed il terzo argomento di Moody’s, non si può fare a meno di notare che si tratta di elementi in qualche modo esogeni. C’è una crisi globale? L’Italia ne soffrirà. Gli speculatori e i fondi (tra cui, per inciso si contano non pochi azionisti rilevanti di Moody’s, tra cui Warren Buffet, Blackrock, State Street, Vanguard Group) hanno deciso che l’euro ha i giorni contati? L’Italia è in prima fila a subirne le conseguenze. Sembra abbia centrato il punto Nicholas Spiro, proprietario dell’omonima società di consulenza londinese specializzata sul debito sovrano, sentito ieri mattina da Reuters: “L’Italia viene punita non perché la sua sia improvvisamente peggiorata la situazione delle sue finanze, ma perché gli investitori sono diventati più sensibili alle sue debolezze strutturali”.
E, aggiungiamo, tendono a diventarlo sempre di più quando le agenzie di rating, che per inciso sono sotto il controllo azionario di speculatori, soffiano sul fuoco, in un grottesco circuito vizioso. "I mercati obbligazionari sono più preoccupati dell’incapacità di crescita dell’Italia più che della riduzione dei disavanzi primari dell’Italia, che sono tra i più bassi dell’area Euro”.
E’ questo l’argomento chiave del dibattito: peccato che interessi poco alle rating agency. Ed ancor meno al governo, che ritiene di venir incontro a questa indubbia necessità semplificando le procedure di licenziamento anziché lavorare a misure che rendano più appetibili per le imprese (e dignitose per la forza lavoro) le nuove assunzioni. Ma questo, nelle condizioni attuali, sarebbe pretendere troppo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Mario Braconi
Missione compiuta per Frau Merkel, che porta a casa l’approvazione del pacchetto di provvedimenti di diretto al salvataggio dell’euro. L’estrema sinistra (Linke) ha votato contro il provvedimento sostenendo che servirà solamente a rendere più ricche le grandi banche a spese dei ceti sociali più svantaggiati. Ma anche se Socialdemocratici e Verdi hanno votato a favore, il dato nodale è la tenuta della maggioranza Merkel. La coalizione di Centrodestra della Cancelliera ha retto, assicurandosi addirittura un risicato margine (i voti favorevoli dei membri della coalizione al governo sono stati infatti 315 contro i 311 strettamente necessari).
“Una volta ottenuta la ratifica dagli altri stati membri [mancano ancora Austria, Olanda, Malta e Slovacchia, ndr], avremo uno strumento più forte e versatile per assicurare la stabilità finanziaria [nell’area ndr]”, così ha commentato il voto tedesco un portavoce della Commissione Europea. A dispetto del suo profilo deliberatamente basso, è chiaro che il voto favorevole della Germania ha un valore politico molto importante: il governo tedesco è intenzionato a fare la sua parte per difendere l’euro.
Dunque, a dispetto della robusta ed esplicita contrarietà della popolazione a misure di sostegno ai Paesi europei più deboli, il governo tedesco si è dichiarato favorevole portare dagli attuali 120 a 211 miliardi di euro il valore delle garanzie prestate dalla Repubblica Federale al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (EFSF). Il quale vede così aumentata la sua dotazione dagli attuali 440 a 780 miliardi di euro.
Ma non è finita qui: restano aperti due temi principali, uno di bassa cucina istituzionale (il potere di ricatto dei Paesi più piccoli) e uno più di sostanza, ovvero la possibile insufficienza dei fondi di EFSF anche dopo il passaggio a 770 miliardi di euro di dotazione. Come noto, le procedure dell’Area Euro prevedono che, affinché si possa procedere alla trasformazione del Fondo, occorre la ratifica dei governi di 17 dei Paesi che utilizzano l’euro. La Finlandia, i cui governanti si sono già fatti ridere dietro chiedendo alla Grecia (e ovviamente non ottenendo) “garanzie” quale contropartita del loro contributo al pacchetto di aiuti specificamente diretti al Paese ellenico, questa volta ha dato una prova migliore, approvando lo scorso mercoledì il rafforzamento di EFSF.
Ma la Slovacchia può riservare qualche sorpresa: succede infatti che il futuro dell’euro dipenda dalla capacità del Governo di quel Paese di approvare il piano di salvataggio. Proprio così, un paese che contribuisce al Fondo con un ragguardevole 0,99%, (oggi pari a poco meno di 4,4 miliardi di euro) potrebbe costituire il proverbiale granello di sabbia in un meccanismo di per sé non particolarmente lubrificato ed efficiente.
Se da un lato il Presidente del Parlamento slovacco Richard Sulik ha dichiarato che farà di tutto per impedire che l’Assemblea si pronunci sul tema, dall’altro la premier Iveta Radic?ová dovrà fare affidamento sull’opposizione per ottenere luce verde ai provvedimenti anti-crisi. E’ comunque probabile, per non dire certo, che il Parlamento slovacco non riesca ad esprimersi in tempo per il summit euro del 17 e 18 ottobre. Purtroppo, l’attesa e l’incertezza sono come il miele su cui si avventano le mosche della speculazione.
E’ possibile comunque che, quando finalmente si saranno ottenute tutte le ratifiche, ci si renda conto che i suoi mezzi non sono sufficienti. Timothy Geithner sta spingendo in modo addirittura imbarazzante in questa direzione (la sua presenza da ospite non invitato all’Ecofin informale in Polonia ha infastidito non poco alcuni politici presenti): secondo gli USA, infatti, la dotazione ideale dell’organismo europeo non dovrebbe essere di molto inferiore ai 2.000 miliardi. Anche se la Merkel fa sapere che il passaggio da 440 a 780 miliardi è (davvero, lo giuro...) l’ultimo sacrificio che la Germania è disposta a sopportare, è difficile sostenere che i politici europei abbiano del tutto accantonato l’ipotesi di un ulteriore irrobustimento del Fondo.
Intanto i tecnici stanno lavorando a tre ipotesi alternative su quello che potrebbe costituire il profilo del futuro ESFS: a quanto risulta al Guardian, il fondo potrebbe essere trasformato in banca o compagnia assicurativa; altrimenti potrebbe essere autorizzato a prendere denaro in prestito dalla Banca Centrale Europea (o perfino dai privati) per acquistare obbligazioni governative emesse da Paesi dell’Eurozona. E’ evidente che le questioni istituzionali hanno un pesante risvolto politico, capace di aprire nuovi conflitti tra Membri e anche all’interno dei Parlamenti dei singoli Paesi. Non resta che aspettare con il fiato sospeso le decisioni della Slovacchia.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Mario Braconi
Il presidente della Commissione Europea Barroso ha presentato così l’idea di una nuova imposta sulle transazioni finanziarie: “Negli ultimi tre anni, gli Stati membri hanno speso 4.600 miliardi di euro in operazioni di sostegno alle banche in crisi, sotto forma di liquidità o di garanzia. E’ giunto ora il momento per la finanza di restituire qualche cosa sotto forma di un contributo alla società”. Da un punto di vista dei principi, persino sotto il profilo etico, il ragionamento è ineccepibile, anche se, analizzato un po’ più da vicino, il provvedimento presenta molti punti di attenzione.
Innanzitutto, non è chiara la destinazione del denaro che verrebbe raccolto con la potenziale nuova imposta: secondo i calcoli della commissione, una Tobin Tax dello 0,1% sulle transazioni aventi ad oggetto obbligazioni e dello 0,01% su tutte le altre dovrebbe produrre, dal 2014 in poi, un gettito di 54 miliardi di euro, che dovrebbero essere utilizzate per finanziare il fabbisogno finanziario della Commissione.
Ora, è vero che la somma di cui si parla, sempre che sia realistica, paragonata ai volumi in gioco quando si tratta di effettuare interventi massici a favore dei paesi membri rischia di sembrare una goccia nell’oceano. Tuttavia, sarebbe stato politicamente più vendibile immaginare di destinare il gettito della nuova tassa ad esempio alla patrimonializzazione del Fondo Europeo di Stabilizzazione Europea; fermo restando che non è certo con una simile somma che si possono cambiare le cose.
Anche se può contare sul supporto del presidente di turno dell’Unione Sarkozy, che spera metterla in agenda al prossimo G20 di novembre a Cannes, da un punto di vista pratico la proposta non sembra avere le ali molto robuste. Per funzionare, la futura tassa dovrebbe essere applicata unanimemente da tutti e 27 gli stati membri: ed è evidente che ce ne è uno in particolare, la Gran Bretagna, che vede la Tobin Tax come il fumo negli occhi. Anche dal Ministero del Tesoro fanno sapere di non avere obiezioni di principio a questo tipo di provvedimenti, la tassa dovrebbe essere applicata in modo globale.
Tradotto: non abbiamo nessuna voglia di fare il tifo per una nuova tassa che potrebbe avere impatti negativi sulla City e soprattutto che incontra la fiera opposizione degli americani. C’è dell’ironia, peraltro, nel fatto che la Gran Bretagna, dal 1600 circa, applica a tutte le transazioni azionarie una piccola imposta di bollo: strano che gli scrupoli vengano fuori solo quando si tratta di far affluire qualche sterlina a Bruxelles.
Nonostanti le buone intenzioni del provvedimento e la sua vendibilità politica popolare (Barroso ha citato un sondaggio dell’Eurobarometro secondo cui il 65% degli Europei sosterrebbe l’applicazione della Tobin Tax nell’Area), un nodo importante è quello dell’impatto sui cittadini. Anche se alla Commissione già si sbracciano a precisare che la tassa non verrà applicata alle transazioni finanziarie chiuse con privati o piccole imprese, tutti sanno quello che accadrebbe veramente: le banche continueranno ad operare sui mercati, anticipando le tasse che gireranno a tutti i loro clienti (imprese, famiglie, istituzioni) nascondendole abilmente dietro un qualsiasi schermo di commissioni. Insomma benché i principi siano pienamente condivisibili, il modo in cui si sta muovendo la Commissione sulla Tobin Tax suscita più perplessità che ammirazione.