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di Emanuele Vandac
“Unicredit è spacciata: anzi no, sta benissimo”. Con questa battuta si potrebbero riassumere le cronache recenti sull’aumento di capitale della seconda banca italiana per capitalizzazione di borsa. Una via di mezzo tra una spy story, con gli inevitabili anglo-furbetti, e il melodramma dei piccoli risparmiatori che escono per non bruciarsi le mani. La nostra storia comincia con il verdetto della EBA (European Banking Authority), che ad ottobre 2011 sentenzia: 71 banche europee devono aumentare il loro capitale, per un totale di circa 106 miliardi di euro (strano a dirsi, molte banche americane ed inglesi vanno ripetendo da mesi un mantra secondo cui le banche europee sono sottocapitalizzate al punto da non essere in grado di affrontare la crisi).
La somma sarà rivista l’8 dicembre 2011, arrivando a sfiorare i 115 miliardi. Unicredit è tra le banche europee obbligate all’aumento di capitale: così dapprima ne delibera uno da 7,379 miliardi, portandolo successivamente a 7,974 (a causa delle perdite del terzo trimestre del 2011).
Dopo un accorpamento tecnico dei titoli (dieci vecchie azioni contro una nuova azione), dal 9 gennaio il valore delle azioni della banca (ordinarie e di risparmio) è stato decurtato di quello del diritto di opzione. In altre parole, dallo scorso lunedì, al posto delle azioni che detenevano in portafoglio, gli azionisti Unicredit possiedono due titoli: l’azione vera e propria, ed il diritto ad acquistarne altre due di nuova emissione, aventi le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, al prezzo di Euro 1,943 (valore stabilito dal CdA il 4 gennaio 2012).
Ogni azionista della banca, dunque, si è trovato con le sue vecchie azioni più il diritto a comprarne il doppio tra il 20 e il 27 gennaio 2012. Il diritto di opzione è negoziabile in Borsa ed il suo valore iniziale è stato fissato in euro 1,359. La struttura dell’aumento di capitale è tale che le nuove azioni vengono offerte ad uno sconto del 43% sul valore “prezzo teorico del azioni dopo lo “stacco” del diritto” (TERP, con acronimo inglese). Non proprio un valore incoraggiante per i potenziali sottoscrittori, specialmente se si considera che, come specifica Monica D’Ascenzo su Il Sole 24 Ore, lo sconto medio applicato in Europa a simili operazioni è del 35% circa. Non a caso, il titolo, subito dopo l’annuncio delle determinazioni del CdA sull’aumento di capitale, crolla. Un naturale allineamento degli operatori di mercato al mood espresso con i numeri dalle figure apicali del management della banca.
I corsi dei titoli Unicredit (azione dopo lo stacco e diritto d’opzione) hanno continuato ad andare in picchiata per tutta la giornata del 9 gennaio; i diritti di opzione, che hanno iniziato la seduta attorno ad euro 1,30, hanno chiuso a circa 40 centesimi, con rimbalzi anche dell’80%. Non che mancassero ragioni per essere pessimisti: l’ancora irrisolto spettro del rischio paese si somma alla freddezza di alcuni importanti azionisti come le Fondazioni, combattuti tra l’enorme impegno dell’operazione di sottoscrizione dell’aumento di capitale ed il rischio concreto di essere “diluite” nel capitale e quindi di non contare più nulla in consiglio…
Ma la vicenda più incredibile è quella che ha per protagonista Blackrock. Il 2 Gennaio il fondo americano comunica a CONSOB la diminuzione della sua partecipazione nella banca italiana da oltre il 4% all’1%: un segnale di sfiducia nel progetto aziendale che ha contribuito non poco al peggioramento dell’umore dei possibili sottoscrittori. Ma non finisce qui, perché ieri CONSOB ha comunicato una notizia ancor più sconcertante: la segnalazione di Blackrock è, per ammissione dello stesso notificante, frutto di un errore tecnico commesso dal suo servizio legale (pare che gli avvocati del fondo non abbiano ben chiara la differenza tra una diminuzione nella quota di partecipazione causata da una diluizione e quella che invece è conseguenza della vendita dei titoli sul mercato…).
Non solo: a quanto sembra la rettifica del fondo americano è arrivata alla CONSOB il 6 Gennaio, giorno festivo in Italia, anche se la Borsa e la CONSOB erano comunque operative. La CONSOB non ha divulgato l’informazione in quanto attendeva il comunicato stampa dell’azionista, il quale peraltro non ha ritenuto di emetterlo prima dell’11 Gennaio. In pratica, come scrive su Il Giornale Marcello Zacché, “per un’intera settimana, la più grande operazione bancaria di aumento di capitale mai fatta in Italia, effettuata in piena bufera finanziaria, si è svolta mentre sul mercato circolavano notizie errate.” Anche se certamente qualcuno conosceva la verità.
Se si riuscisse a provare che le comunicazioni di Blackrock sono frutto di malizia anziché di malafede (cosa quasi impossibile), si tratterebbe di vero e proprio aggiotaggio: e per questo è sacrosanto l’intervento della CONSOB, che infatti sta indagando sulla vicenda. Un certo fastidio per l’accaduto traspare anche da Unicredit se è vero, come sostiene Antonio Vanuzzo sul sito di informazione Linkiesta, che un commento velenoso sia stato sibilato nei corridoi dell’alta direzione della banca: “I soliti furbetti anglosassoni”.
Certo è curioso che, mentre il 9 Gennaio tutti, ma proprio tutti, erano molto pessimisti sull’esito dell’aumento di capitale, il 10, l’11 e il 12 un caldo sole abbia ricominciato a splendere sull’operazione, facendo lievitare i corsi di azione e diritto d’opzione. Curioso che in un editoriale del 9 Gennaio il Financial Times attribuisse la débacle alla lentezza dell’AD Ghizzoni a procedere all’aumento di capitale tanto atteso. Anche se va detto che un altro articolo, pubblicato lo stesso giorno sul quotidiano economico, prendeva spunto da un documento della banca d’affari Nomura a firma di Chintan Joshi e Jon Peace (anch’esso citato da Vanuzzo), secondo cui i possibili movimenti al ribasso sui titoli coinvolti dall’operazione sarebbero stati assai più probabilmente frutto di speculazione che di aggiustamenti effettuati dai piccoli azionisti.
Un dato non del tutto sorprendente, dato che i disallineamenti nei prezzi sono stati velocemente recuperati attraverso un trading frenetico, pare per niente intimidito dal divieto (operativo in Italia dal 12 agosto 2011), di effettuare vendite allo scoperto. Non a caso, come spiega Morya Longo su Il Sole 24 Ore, sembra che ben “il 50% degli scambi sulle azioni UniCredit sia avvenuto in questi giorni fuori dalle mura di Piazza Affari, quindi fuori da mercati regolamentati, al telefono o nei cosiddetti “dark pool”[transazioni di notevole entità effettuate tra operatori istituzionali senza pubblicazione di dettagli ndr]”. Niente di nuovo sotto il sole.
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di Mario Braconi
L’esito del vertice dell’8 e del 9 dicembre si può riassumere con la battuta di un diplomatico europeo citato da Reuters: “La Gran Bretagna si arrabbia, la Germania fa il broncio, la Francia esulta”. Sarkozy è apparso soddisfatto di aver aggregato attorno al progetto di riforma dei trattati europei i diciassette Paesi dell’area euro, e di aver conquistato l’appoggio di altri 6 stati dell’Unione Europea. Solamente sei, perché, oltre alla Gran Bretagna, che ha rotto apertamente, Svezia, Ungheria e Croazia hanno messo le mani avanti, sostenendo che il loro eventuale supporto potrà avvenire solo dopo un confronto parlamentare.
La Svezia non intende vincolarsi per il momento a regole disegnate per l’area euro, la Croazia sembra arenata su posizioni di euroscetticismo, mentre l’Ungheria, le cui finanze dipendono in modo sostanziale dal sostegno dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non intende accettare condizioni che pongano limiti alla sua sovranità nazionale.
Non è escluso che la frattura consumatasi tra Unione Europea e Gran Bretagna sia stata propiziata da quella che un diplomatico di lungo corso definisce la “goffa tecnica negoziale” di Cameron. Obiettivo dichiarato di Cameron è quello di difendere l’industria finanziaria britannica, che con le sue commissioni e interessi, realizza circa il 10% del PIL del Regno Unito. Analizzando i dettagli, si comprende come la rigidità britannica non costituisca solo l’ennesimo esempio del tradizionale isolazionismo.
Cameron non intendeva fare compromessi sul mantenimento a Londra della European Banking Authority (EBA) e sulla libertà di stabilire autonomamente i requisiti patrimoniali delle banche, oggi più stringenti nel Regno Unito rispetto all’obiettivo del 9% previsto per le banche dell’area euro. Ma soprattutto vuole impedire a tutti i costi misure di dubbia utilità ma che comporterebbero un danno certo all’industria finanziaria: il divieto di effettuare transazioni denominate in euro in mercati diversi dall’eurozona (su Londra ne transitano circa la metà) e la cosiddetta Robin Hood tax sulle transazioni finanziarie (il cui gettito, secondo una stima riportata sul Guardian potrebbe aggirarsi attorno ai 60 miliardi di euro l’anno).
Non è scontato però che la mossa di Cameron abbia mietuto unanimi consensi in patria: secondo un operatore della City sentito dal Guardian, ad esempio, il veto di Cameron “non ci ha aiutati, anzi ci ha esposto”. Secondo Sony Kapoor del think-tank Re-define, “il Regno Unito si è isolato e ha perso la possibilità di influenzare il dibattito in modo produttivo, senza alcun tornaconto”; secondo Kapoor, è addirittura surreale sostenere di aver difeso gli interessi della City, quando, in materia di capitalizzazione, liquidità e struttura delle istituzioni finanziarie, il Regno Unito è oggi più avanti dei piani (futuri) dell’Unione Europea.
La sintesi migliore è quella di Vicky Redwood, economista alla Capital Economics, casa indipendente di ricerca macroeconomica: “Non è detto che la vita delle banche in Gran Bretagna sia così facile [in effetti si parla di riforme per separare le banche commerciali dalle banche d’affari, mentre i requisiti patrimoniali, come detto, sono pesanti], ma non essendo soggetti alle ‘loro’ regole possiamo rimanere competitivi: e questo è un bene.” Resta aperto il problema del fatto che oggi l’Unione Europa potrà imporre le sue regole a maggioranza, e farle implementare mediante la Commissione Europea e la Corte Europea di Giustizia, anche senza la Gran Bretagna.
Non sono emerse novità di rilievo sui contenuti del nuovo trattato, che dovrebbe essere siglato al massimo entro marzo del 2012: viene confermata infatti la struttura imposta dal direttorio franco-tedesco, che ribadisce l’obbligo che il deficit dei singoli stati non superi lo 3%, rendendolo ancora più tassativo. In caso di sforamento, scatteranno sanzioni automatiche, anche se è prevista una scappatoia secondo cui la maggioranza qualificata può deliberare la mancata applicazione delle “punizioni”.
Più interessante la parte che riguarda i meccanismi difensivi: la BCE metterà la sua esperienze e conoscenze al servizio dello European Financial Stability Facility (EFSF), non solamente fungendo da agente nell’emissione della prima tranche di bond che verrà collocata il prossimo 13 dicembre. Viene anticipato a luglio 2012 il varo del ESM (European Stability Mechanism), che però, a causa del “nein” della Cancelliera non sarà una vera e propria banca, a differenza di quanto proposto da Van Rompuy. Si dà inoltre il via al leveraging del EFSF. Con il passaggio allo ESM, i fondi a disposizione del EFSF (attualmente 440 miliardi di euro, nella forma di garanzie prestate dagli stati membri) potranno essere aumentati (questa volta in forma di versamenti di cash) fino al limite massimo formalizzato nel documento di ieri (500 miliardi).
Mettendo insieme i due dati, limite massimo del contributo degli Stati più possibilità di indebitarsi (leveraging), ed ipotizzando un indebitamento pari al capitale, si raggiungerebbe una potenza di fuoco di circa 1.000 miliardi di euro. A questa somma si aggiungono gli ulteriori 200 miliardi (di cui 150 provenienti da Paesi dell’Area Euro) che, secondo il documento di ieri, potrebbero essere forniti nei prossimi dieci giorni dai paesi membri al Fondo Monetario Internazionale mediante accordi bilaterali. Il sistema di votazione del ESM prevede che, “quando è necessaria una decisione urgente relativa al soccorso finanziario in un contesto di pericolo per la continuità dell’area euro, l’unanimità viene rimpiazzata da una supermaggioranza dell’85%. Disposizione, questa, studiata per evitare il potere di ricatto dei paesi più piccoli, e pertanto fieramente osteggiata ad esempio da Finlandia e Slovacchia.
La cosa più importante è capire se quanto pattuito al vertice possa configurarsi come il fiscal compact (patto fiscale) che Draghi ha stabilito come pre-condizione al rafforzamento dell’azione diretta della BCE sui mercati dei titoli di stato. Il Presidente della BCE si è dimostrato cautamente soddisfatto: “L’accordo è la base per un buon patto fiscale e garantirà maggior disciplina da parte degli stati membri: riteniamo che verrà rimpolpato nei prossimi giorni”.
Per il momento, però, gli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale saranno limitati a 20 miliardi a settimana: secondo un banchiere centrale che si è confidato con Reuters a condizione di non essere citato: “Vedrete altri acquisti, ma non il grande bazooka che i mercati e i media si attendono”.
E’ vero che la BCE si dimostra restia ad interagire pesantemente sui mercati: tuttavia, come nota Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore, con l’ulteriore taglio ai tassi della BCE può davvero convenire alle banche europee prendere in prestito all’1% per investire in titoli di stato che rendono oltre il 6%, portando casa un bel 5%. E’ questa anche la “dritta” di Sarkozy, che ai giornalisti ha detto che “ogni stato potrà contare sulle sue banche, che avranno liquidità a loro disposizione”.
Sarebbe una buona cosa, se non fosse che va in conflitto con le indicazioni alle banche che vengono fuori dagli stress test: smobilizzare titoli italiani e ricapitalizzarsi. Secondo l’economista Holger Schieding della banca privata tedesca Berenberg, infatti, “comprare titoli italiani è forse l’ultima cosa che le banche faranno con la liquidità in eccesso”.
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di Carlo Musilli
Potremo ricordarci di oggi come del giorno in cui ci siamo salvati per un pelo. Oppure ritroveremo la data di venerdì 9 dicembre 2011 nei libri di storia come la data in cui ci rassegnammo al disastro, buttando al vento anche l'ultima occasione. Come se i maya avessero ciccato la loro profezia apocalittica di poco più d'un anno. Che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non fossero due statisti in grado di salvare da soli l'Eurozona era chiaro da tempo, distratti come sono dalle loro ragioni di politica interna. Ma a Bruxelles, nel vertice Ue e nel successivo summit dell'area euro, dovranno far finta che le président e la cancelliera siano davvero quello che non sono. E firmare un accordo per mettere un freno alla crisi del debito.
Diciamo subito che le premesse sono pessime. In una giostra di rimpalli, tatticismi e dichiarazioni vacue, i leader di Francia e Germania hanno lasciato ampiamente intendere che non è lecito aspettarsi da loro la mossa decisiva. Il risultato è stato che le speranze di un intero continente sono crollate prima ancora che i capi di Stato e di governo si sedessero a tavola, ieri sera, per la loro "cena informale".
Ad aprire le danze ci aveva pensato quel genio di Steffen Seibert, portavoce della Merkel, che mercoledì aveva definito l'incontro "molto impegnativo", confermando la voce fatta trapelare da un oscuro funzionario tedesco secondo cui l'esecutivo di Berlino sarebbe sempre più pessimista riguardo una possibile soluzione dell'impasse. La cancelliera ha provato a correggere il tiro, ma è stata ancora una volta troppo timida. Sarkò invece ci ha messo il carico: "Il rischio d'esplosione dell'Europa non è mai stato così grande". Risultato: mercoledì e giovedì le Borse sono crollate e gli spread sono tornati a impennarsi.
Il tonfo di ieri è tanto più significativo perché arrivato in concomitanza con un altro evento che - in condizioni normali - avrebbe catalizzato l'attenzione di tutti. La Bce di Mario Draghi ha deciso di tagliare nuovamente i tassi d'interesse, portandoli ad un tondo 1%. Questo significa più soldi nel sistema, quindi dovrebbe piacere ai mercati. Invece non è stato così: le perdite sono continuate come nulla fosse. Perché?
La verità è che gli operatori si attendevano anche un'altra conferma da parte di Draghi. Volevano che il banchiere italiano ribadisse l'intenzione dell'Eurotower di proseguire ad libitum con la scorpacciata luculliana di titoli di Stato. Questo sì li avrebbe rassicurati: un surrogato accettabile di fronte alla consapevolezza che la Bce non può (e probabilmente non potrà mai) diventare prestatore di ultima istanza (vale a dire concedere crediti direttamente ai singoli Stati). Ma questo comportamento da parte dei mercati testimonia anche l'assoluta mancanza di fiducia in una soluzione politica. D'altra parte, se non ci credono i politici, è difficile chiedere uno slancio fideistico a chi per mestiere fa girare soldi.
Al momento, la questione più calda sul tavolo è la proposta franco-tedesca di modificare i trattati Ue. Si punta a blindare le discipline di bilancio dei vari Paesi membri, prevedendo delle sanzioni molto severe per chi sgarra. In realtà le ombre su questo progetto sono molte. Innanzitutto pare che sia frutto di una sorta d'imposizione da parte di Merkel a Sarkò, piuttosto che di un ponderato studio, considerando che i criteri di giudizio sui bilanci si annunciano talmente severi che la Francia sarà la prima ad essere colta in fallo.
In secondo luogo non è affatto detto che chiudere le casse europee in una botte di ferro sia la strada migliore per uscire dalla crisi. Forse così facendo si potranno calmare gli speculatori, raffreddando i timori incontrollati per la crisi dei debiti. Ma certamente non basterà a risolvere il vero problema di base: il fatto che ormai siamo in recessione. E in economia un sistema che non cresce non è sostenibile. Da questo punto di vista, anche le tanto sospirate e incerte riforme dell'Efsf e della Bce non potranno mai svolgere il ruolo di deus ex machina, a fronte della completa mancanza di un coordinamento politico unitario dell'Europa.
Ma di questo si parla poco. Affannati a spegnere l'incendio finanziario, non ci accorgiamo delle crepe sul muro che stanno per farci crollare il tetto sulla testa. Forse ci ricorderemo di oggi come del giorno in cui abbiamo creduto di salvarci.
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di Emanuele Vandac
Come noto, la cosiddetta “crisi del debito” euro è causata dalla speculazione internazionale. A differenza di quanto si vuole far credere, il problema non è finanziario, ma politico: nel corso degli ultimi tre anni, i Paesi dell’Area euro hanno dimostrato di non essere in grado di agire di concerto, tanto per impreparazione che per opportunismo politico dettato da problemi domestici.
Una “crisi” che viene da lontano, dunque, e che sfrutta le debolezze intrinseche del sistema Europa per riorganizzare il continente nel modo desiderato dagli Stati Uniti. Per dirne una: che i due uomini della provvidenza siano entrambi italiani e che entrambi si chiamino Mario è un fatto casuale. Che siano o siano stati entrambi alle dipendenze della Goldman Sachs no.
Si sa, situazioni di emergenza richiedono soluzioni estreme: solo facendo appello a un’emergenza - che esiste solo nelle sale cambi delle banche e dei fondi che hanno scatenato la “crisi” - si poteva giustificare la sconvolgente scelta di Germania e Francia di auto-costituirsi in direttorio permanente a baluardo della salvezza dell’euro.
Viene così evocato un altro spettro che per qualche decennio era rimasto chiuso dentro un armadio: l’antica e a quanto pare mai sopita brama germanica di dominare il continente e di imporre a tutti gli altri, i più deboli, i meno organizzati, gli “inferiori”, le sue proprie regole. La specialità di questo gioco demenziale consiste nello spingere i paesi recalcitranti e o politicamente deboli verso il precipizio della dissoluzione della moneta unica al fine di estorcere loro le misure desiderate: ci si augura vivamente che nell’equazione trovi posto anche la considerazione del rischio calcolato che anche chi spinge finisca nel burrone.
Quella di Sarkozy, invece, è semplicemente la brama di un uomo malato di grandeur, desideroso di far bella figura facendosi vedere quanto più possibile in giro con il primo della classe, nella speranza che quest’ultimo lo aiuti durante il compito in classe. In Italia, intanto, viene installato un “tecnico” che ridà fiducia ai mercati facendo una manovra che più italiana non avrebbe potuto essere: una bordata impressionante di tasse, strappate dalle tasche dei soliti noti tra patetismi d’accatto ed evocazioni mesmeriche. Una manovra “facile” in modo imbarazzante, e per giunta svincolata da fastidiose ricadute elettorali; il tutto per dire che, sarà pure un governo “tecnico”, ma gli interessi tutelati, come quelli colpiti, sono sempre gli stessi.
L’Europa, per la verità, ha disperato bisogno di una Banca Centrale Europea che possa sostenere in caso di necessità i governi: come ha fatto, guarda caso, la Federal Reserve. Questo è l’unico caso in cui l’indebita e irritante pressione americana sui governi europei potrebbe effettivamente portare a qualcosa di utile per gli europei. Non appena insediato a Francoforte, l’ex uomo della Goldman Sachs, infatti, ha fatto capire che la BCE è pronta a continuare e perfino a rafforzare gli acquisti di titoli italiani e spagnoli, purché i paesi dell’Eurozona prendano impegni seri e formali in tema di disciplina fiscale.
L’apertura di Draghi arriva, guarda caso, appena qualche giorno prima dell’euro summit dell’8 e 9 dicembre. Il duo Merkel-Sarkozy ha deciso che prenderà decisioni (per lo meno) per gli altri 17 paesi dell’area euro, se non anche per gli altri 10: per questo i due si sono incontrati ieri a Parigi con l’obiettivo di stendere il piano definitivo da lanciare ufficialmente mercoledì. A valle di un colloquio di due ore, si sono fatti immortalare nell’ormai consueta conferenza stampa comune nella quale, tanto per cambiare, hanno fatto sapere di essere d’accordo su tutto.
Il risultato del tête-à-tête è una modifica dei trattati, sulla quale il dinamico duo va avanti a tutta birra, a dispetto della contrarietà di alcuni paesi quali Gran Bretagna, Irlanda e Olanda, che fieramente avversano l’idea, sapendo che ci sono ottime probabilità di perdere i referendum che tassativamente dovrebbero ratificare i cambiamenti (e questo la dice lunga sul curioso significato che sta assumendo la parola “democrazia” nel nostro continente). Questa la bozza che hanno in mente: il nuovo trattato dovrebbe prevedere sanzioni automatiche in caso di sforamento dei limiti di deficit; secondo Reuters una “supermaggioranza” di stati, però, potrebbe immunizzare il paese spendaccione dalla giusta punizione.
Ma gli arzigogoli barocchi per cui gli europei vanno famosi (e per i quali potrebbero rimetterci le penne vien da aggiungere) non finiscono qui. Per compiacere Monsieur, sembra che sarà pure prevista una clausola secondo cui la Corte di Giustizia europea potrebbe essere chiamata a valutare (udite udite!) se i nuovi vincoli di bilancio sono riflessi correttamente nelle legislazioni nazionali degli Stati membri, anche se essa non sarà in grado di rigettare le leggi di bilancio.
La disciplina di bilancio, inoltre, diverrà un dogma di fede da scrivere a chiare lettere nelle costituzioni di tutti gli eurostati. In poche parole, molto rumore per nulla, o quasi. La speranza è che questo topolino partorito dalla montagna possa convincere il sig. Draghi ad aprire i cordoni della borsa o, per meglio dire, far partire le rotative che stampano le variopinte banconote europee. I due capoclasse hanno concluso con il loro convinto nyet sugli eurobond, non sia mai che un debito tedesco possa essere mai confuso con un debito italiano o spagnolo!
Che la preoccupazione americana sia alta si capisce dal fatto che Timothy Geithner, autoinvitatosi, sarà domani in Europa, a dare una mano, alla maniera americana, of course (è la quarta visita da settembre). Incontrerà, in Germania, i boss della BCE e il ministro delle finanze tedesco: non è necessario essere maghi per indovinare che si parlerà di quantitative easing, beninteso nell’esclusivo interesse degli europei.
E se ci fossero dubbi su quanto a Washington siano preoccupati e vogliosi di rendersi utili in tema di riforme europee, arriva anche Standards & Poors’: proprio mentre i due capi europei discutevano, la rating agency ha fatto sapere ai mercati di essere pronta ad abbassare il rating di 15 stati: da ieri sono a rischio di un downgrade di un notch Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Olanda e Lussemburgo; non che cambi molto le cose, ma anche Estonia, Francia, Irlanda, Italia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Slovenia and Spagna rischiano un declassamento di ben due livelli.
Poiché, come dice Paul Donovan, un capo della ricerca di UBS Londra, “le azioni dei governi europei negli ultimi tre anni hanno dimostrato l’incapacità di agire collegialmente, la mossa di S&P’s potrebbe rendere più desiderabile una soluzione che ‘blindi’ Francia e Germania”. Il timing dell’agenzia di rating è sospetto, così come fanno pensare le altre circostanze sopra accennate: la Goldman Sachs al governo dell’Italia e della moneta europea e le insistenti visite di Geithner. Proprio niente di casuale.
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di Emanuele Vandac
Per quanti auspicano un cambiamento nel mandato della Banca Centrale Europea, diretto a renderla prestatore di ultima istanza su modello della Federal Reserve americana, il discorso pronunciato giovedì da Mario Draghi all’Europarlamento appare promettente. Non a caso, la stampa americana, dal New York Times al Wall Street Journal, nell’occasione ha dato un’ampia copertura alle parole del Presidente. Il mandato attuale della BCE è il “mantenimento della stabilità dei prezzi”: si tratta, in tutta evidenza, di un’impostazione ereditata dalla Bundesbank, sulla quale è stato plasmato l’istituto monetario europeo.
Innanzitutto, Mario Draghi ha posto l’accento sulla sua interpretazione del ruolo che dovrebbe avere l’istituzione di cui è il capo: “Stabilità dei prezzi”, secondo il Governatore, deve essere intesa “in entrambe le direzioni”. Senza sminuire il terrore germanico per l’iperinflazione sperimentata negli anni Venti del secolo scorso, Draghi ha posto l’accento sul rischio opposto, quello rappresentato dalla deflazione. E, cosa ancora più rilevante, la BCE è legittimata ad agire utilizzando tanto la leva dei tassi d’interesse ufficiali, quanto l’“implementazione di misure non standard”.
Parole importanti, che al di là della necessaria cautela rappresentano il tentativo di andare oltre una visione germano-centrica dell’Istituzione. La banca centrale ha dimostrato chiaramente l’intenzione di agire per sostenere e fluidificare il mercato: acquistando titoli italiani e spagnoli per un totale stimato di 200 miliardi di euro, abbassando di 25 centesimi il tasso ufficiale il 3 novembre e, solo qualche giorno fa, prendendo parte all’iniziativa concordata dalle principali banche centrali mondiali per abbassare il costo di accesso ai fondi denominati in dollari americani.
Draghi, ovviamente, è ben lontano dall’aver anche ventilato la possibilità di fare quantitive easing (stampa di moneta per assorbire i titoli di stato di paesi sotto stress): ha però detto chiaro e tondo che una situazione di mercato “patologica” dei mercati dei titoli di stato di diversi paesi può “difficoltizzare la capacità di intervento della banca centrale, dal momento che l’efficacia della politica monetaria è funzione dei prezzi dei bond”.
Se i prezzi dei titoli precipitano, i tassi d’interesse salgono in modo incontrollato, le banche sono in seria difficoltà (tanto perché i loro attivi si sgretolano quanto in conseguenza della chiusura dei mercati interbancari). Se le banche non si prestano denaro tra loro, imprese e famiglie non verranno finanziate: per tutte queste ragioni, la BCE è perfettamente titolata ad agire sui mercati, ovvero ad agire in modo “non conforme ai suoi normali standard”. Sia chiaro, aggiunge Draghi, che “questo tipo di interventi possono solo essere limitati (nel tempo e nella quantità ndr). I governi - da soli e collettivamente - dovranno recuperare la propria credibilità”.
Per questo, secondo Draghi, i tempi sono maturi per un nuovo “patto fiscale”, che vincoli i governi dell’area Euro alla disciplina di bilancio: un primo abbozzo della famosa “unione fiscale”, la cui assenza è poi la ragione per la quale la divisa comune europea si è trovata sguarnita di fronte agli attacchi speculativi. Una mano tesa, dunque, al progetto tedesco di modifica dei trattati, con sanzioni automatiche per gli “spendaccioni”, che incontra il favore anche del nuovo campione del rigore italico, e il recalcitrante sostegno di Sarkozy.
Insomma nel suo discorso Draghi ha detto: se voi governi farete i vostri compiti (e sarà lì che bisognerà preoccuparsi, specie in Italia), la BCE continuerà a sostenere i mercati dei titoli di stato e forse anche aumenterà anche il suo impegno diretto sui mercati. Come sottolinea il New York Times di venerdì scorso, con questa clausola apposta in calce al nuovo contratto verbale tra la BCE, i governi e le banche, Draghi ha voluto fare proprie almeno in parte le ossessioni dei tedeschi, che continuano a rimanere fedeli al divieto dogmatico per cui la banca centrale non deve finanziare i governi, mentre restano affezionati all’idea ricattare, se non proprio mandare a fondo, quelle che, con qualche ragione, considerano le cicale d’Europa.
Senza però tenere nella dovuta considerazione il fatto che la morte delle cicale provocherebbe gravissimi guai anche alle formiche “a tripla A”. In poche parole, come sostiene un analista di Barclays Capital citato dal NYT, “Draghi ha ventilato un aumento degli interventi di supporto della banca centrale, se nel prossimo summit europeo verranno concordate regole fiscali più severe”.
In effetti, sarebbe teoricamente facile mettere in minoranza i tedeschi al consiglio della BCE (dove si decide a maggioranza) e dove i rappresentanti tedeschi sono due su un totale di 23; tuttavia è improbabile che i rappresentanti degli altri paesi si convincano a mettersi in una posizione di conflitto con il gigante teutonico. Perché una vera trasformazione accada, sarà necessario che Angela Merkel e il capo della Bundesbank Jens Weidmann si convincano che non esiste una vera alternativa a contrastare la speculazione rafforzando le banche ed erigendo un firewall contro le vendite massive.
Il gioco di Angela Merkel è però molto, molto pericoloso: come nota Ezra Klein sul suo blog sul Washington Post, la sua scelta di trasformare in una “maratona” un processo che potrebbe essere veloce come una competizione sui cento metri, le permette di costringere con le buone o le cattive i paesi non germanici verso il patto fiscale di cui parla anche Draghi, e di cui si conosceranno i dettagli al prossimo euro-vertice dell’8 e 9 dicembre. Ma così facendo, “non sta somministrando le dovute cure a un paziente molto, molto malato. Se da una parte è vero che questo paziente deve impegnarsi a fare una vita più sana e responsabile, per farlo dovrà prima sopravvivere”.