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di Carlo Musilli
Mark Zuckerberg si è sposato sabato scorso e nella lista di nozze aveva espresso un solo desiderio: il boom di Facebook a Wall Street. Purtroppo per lui gli operatori di Borsa non sono gente dal cuore tenero e, invece del regalo, hanno deciso di fargli un bello scherzetto. Così la quotazione del mastodontico social network si è trasformata in uno dei flop più clamorosi della storia. Nelle prime tre sedute, il titolo è crollato del 19%, bruciando quasi un quinto del suo oceanico valore di partenza, superiore ai 100 miliardi di dollari.
Il costo di ogni singola azione è sceso sotto i 31 dollari, dai 38 iniziali. Fra le maxi-Ipo americane che hanno raccolto più di un miliardo (e quella di Facebook è stata la terza più grande della storia dopo Visa e General Motors), si tratta del peggior esordio negli ultimi cinque anni. Com'è possibile? La creatura di Zuckerberg non era una macchina da soldi?
Il tonfo di martedì (-8,9%) è quello che si spiega più facilmente e getta una luce sinistra sull'intera vicenda. Mary Schapiro, presidente della Securities and Exchange Commission (la Consob americana), ha annunciato che "saranno esaminati" i problemi legati all'Ipo del social network.
Venerdì, giorno del debutto sui listini, il Nasdaq ha fatto davvero una brutta (e insolita) figura: per una serie di guai tecnici, gli scambi sono iniziati con mezz'ora di ritardo e - quando finalmente sono partiti - l'indice ha avuto difficoltà nel comunicare l'esecuzione degli ordini ai trader. Uno degli investitori ha deciso di fare causa al Nasdaq, sostenendo di aver subito gravi perdite a causa del malfunzionamento.
Ma le stranezze non sono finite. Secondo il Financial Times, le autorità di sorveglianza dei mercati finanziari del Massachusetts hanno emesso un'ingiunzione nei confronti di Morgan Stanley, accusata di aver giocato sporco con gli investitori di Facebook. Alla vigilia dell'Ipo, gli analisti dell'istituto (per bocca dell' "esperto di internet" Scott Devitt) hanno tagliato le previsioni sugli utili 2012 dell'azienda.
A pesare sul giudizio è stato soprattutto il fatturato della pubblicità legata agli accessi tramite smartphone, un traffico in costante crescita rispetto a quello via computer, ma innegabilmente meno redditizio. Fin qui non ci sarebbe nulla di sospetto: si tratta di valutazioni sensate. Le autorità però intendono verificare se la Banca abbia comunicato la revisione dei target a tutti i clienti - come avrebbe dovuto fare - o solo ad alcuni.
“Dopo che Facebook ha presentato il 9 maggio un aggiornamento alla Sec, in cui forniva un'ulteriore guidance rispetto ai suoi trend di business - si difende la Banca in un comunicato - una copia del documento emendato è stata inviata a tutti gli investitori istituzionali e privati di Morgan Stanley e la modifica è stata ampiamente pubblicizzata dalla stampa in quei giorni”. Gli azionisti però non sono d'accordo e hanno avviato un'azione legale non solo contro la Banca, ma anche contro l'azienda stessa e l'amministratore delegato Zuckerberg.
Per fare chiarezza occorre però tener presente un dettaglio decisivo. Chi è stato il maggior sottoscrittore dell'Ipo e il responsabile del collocamento in Borsa di Facebook? Ma guarda un po', sempre Morgan Stanley. Bisogna capire allora perché mai una delle banche più prestigiose al mondo abbia tagliato le gambe alla stessa azienda in cui sta investendo un mucchio di soldi. Sembra addirittura che non sia stata l'unica: rumors di mercato dicono che anche Goldman Sachs e JP Morgan abbiano sottoscritto l'Ipo comportandosi allo stesso modo. Certo, gli analisti (in linea teorica) dovrebbero fare il loro dovere senza tener conto degli interessi della banca per cui lavorano. Ma nell'aria rimane odore di speculazione. Anche perché la lista dei misteri non è finita.
In tutta questa storia, la prima bizzarria in assoluto è il prezzo a cui sono state vendute in origine le azioni: quei famosi 38 dollari, che implicano una valutazione complessiva della società oltre il muro dei cento miliardi. La cifra è stata gonfiata in extremis, ancora una volta con l'aiuto di Morgan Stanley. A quel punto la Banca già sapeva che avrebbe dovuto rivedere i target della società, ma - a pochi giorni dalla quotazione - si è comunque battuta per aumentare i titoli in vendita da 337,4 a 421 milioni, ritoccando anche generosamente il loro valore rispetto al range di 28-35 dollari calcolato a inizio maggio. Un'esagerazione, e gli investitori se ne sono accorti subito. Facebook non vale tutti quei soldi.
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di Emanuele Vandac
Da qualche anno la reputazione delle banche d’affari è giustificatamente al minimo storico. In effetti, la crisi globale scatenatasi nel 2008 è la conseguenza di una colossale operazione di speculazione partita dal mercato immobiliare, che ha distrutto la credibilità delle istituzioni finanziarie, provocando fallimenti bancari e una crisi globale. I primi sono stati tamponati con il denaro dei contribuenti, mentre la seconda è ben lungi dall’essere risolta.
La stessa crisi dell’euro, esplosa nel 2010, non è altro che la conseguenza della speculazione contro la divisa comune, determinata degli stessi saggi ideatori dei prodotti finanziari che hanno scatenato il terremoto del 2008: veri e propri criminali che, non contenti di aver provocato due crisi sistemiche in quattro anni, sono sopravvissuti grazie alle tasse dei cittadini.
Nello specifico, poche istituzioni finanziarie incarnano l’odiosa ed asociale visione del mondo tipica delle banche d’affari anglosassoni quanto Goldman Sachs. Pensiamo al caso dei mutui subprime, ovvero fidi concessi a cittadini americani con una storia creditizia non molto solida per consentire loro l’acquisto delle prima casa (anche se non è mancato chi, grazie alla droga finanziaria, ha voluto strafare, comprandone più d’una).
Ad un certo punto, complice la bolla speculativa che gonfiava in modo ridicolo le quotazioni degli immobili dati in ipoteca, questi prestiti venivano concessi sostanzialmente a chiunque ne facesse richiesta, indipendentemente dalla sue reali possibilità di rimborsare il prestito. Nella soddisfazione generale: i banchieri commerciali si fregavano le mani perché, con la scusa che il cliente era un “cattivo pagatore” potevano caricare tassi molto alti; i clienti d’altra parte vedevano improvvisamente divenire concreta la prospettiva di avere una casa di proprietà (benché non siano mancati i furbi che hanno annusato la possibilità di fare soldi facili).
Ad essere particolarmente contenti erano i capi delle banche d’affari americane che compravano dalle banche commerciali questi mutui senza futuro, li facevano a pezzi per poi assemblarli in prodotti strutturati complicatissimi. L’insipienza delle agenzie di rating e il conflitto di interesse di cui erano vittime (essendo valutatori e fornitori paganti degli emittenti) ha fatto in modo che prestiti senza alcuna possibilità di essere ripagati siano stati valutati come assolutamente sicuri oltre che caratterizzati da rendimenti interessanti.
Il giocattolo ha funzionato bene finché il mercato immobiliare ha continuato a salire in modo irrazionale; quando la bolla è scoppiata, i mutuatari, che fino al giorno prima potevano sfruttare le quotazioni dell’immobile dato in garanzia per venderlo e chiudere il mutuo che non riuscivano più a pagare, ovvero per aumentare il prestito (ovvero, pagando il debito con nuovo debito) si sono trovati incastrati nel meccanismo: senza soldi per la rata, restava solo la strada della vendita della casa, che nel frattempo però valeva il 30-40% di meno di quando era stata data in garanzia.
E questo anche se, negli anni delle cicale, i mutui venivano concessi per cifre fino al 99% del valore - drogato - dell’immobile: ad esempio, se il debito era 100.000 dollari, la casa a quel punto si poteva vendere a 60.000: dove prendere i 40.000 che mancavano all’appello? Meglio abbandonare il mutuo e farsi prendere la casa dalla banca, che la metteva in vendita, alimentando la spirale negativa sulle quotazioni immobiliari.
Così milioni di famiglie svantaggiate e/o imprudenti si sono ritrovate sul lastrico. Non è andata meglio, mutatis mutandis, a chi ha comprato i prodotti derivati strutturati su quei mutui rapidamente incagliatisi, dato che, nel giro di qualche mese si sono trovati in portafoglio dei titoli senza valore. Goldman Sachs non solo ha fatto i soldi con i prodotti derivati sui subprime sfruttando come pochi il mantra “originate and distribute” (originare e distribuire); ma ha anche speculato assumendo posizioni ribassiste (di vendita) su indici che replicavano l’andamento dei titoli asset-backed (che loro avevano creato): più il prezzo di questi scendeva, e più erano i dollari che affluivano nei forzieri della banca di Wall Street.
Come se non bastasse, quando nel 2008 la crisi ha cominciato a picchiare duro, e perfino gli inossidabili banchieri hanno cominciato a vedersela brutta, Goldman Sachs, il tempio del capitalismo senza inibizioni, ha utilizzato senza parsimonia i fondi messi a disposizione dall’amministrazione USA: secondo i dati ufficiali SEC le due sedi americana ed inglese di Goldman Sachs sono rimaste esposte verso la Federal Reserve per una media giornaliera di poco meno di circa 7 miliardi di dollari nel solo periodo marzo - novembre 2008.
Goldman Sachs, inoltre, è coinvolta anche nella grandiosa truffa operata dal governo greco nel 2002: grazie ad uno swap (conversione reversibile del debito da una divisa all’altra) stipulato ad un tasso di cambio di fantasia, ma “comodo”, i pagliacci di Goldman Sachs hanno fatto sparire magicamente un miliardo di dollari di debito sovrano greco, aumentando le possibilità per il governo di contrarne di nuovo. Pura apparenza, naturalmente, dato che il debito sarebbe ritornato ai suoi livelli nel giro di pochi giorni o mesi: perfino nella finanza creativa, alla fine “nulla si crea e nulla si distrugge”, com’è facile constatare: basta vedere che brutta fine ha fatto il popolo greco.
Per concludere: gli uomini della Goldman Sachs infettano le istituzioni (corrotte) a tutti i livelli, comprese banche centrali, governi, solo per citarne un paio. Non è un caso se l’attuale premier greco è un ex GS, così come sono (ex?) Goldman Mario Monti e Mario Draghi. Mentre Henry Paulson, segretario di Stato del secondo governo Bush, dava il benservito al Lehman Brothers, si adoperava alacremente per evitare il fallimento di AIG, un gruppo assicurativo che, anche se fosse fallito com’era suo destino, avrebbe polverizzato Goldman Sachs, cui doveva una montagna di miliardi.
Sarà una coincidenza, ma Mr. Paulson, prima di assumere l’incarico al governo, è stato amministratore delegato della Goldman Sachs. Mentre il capo del gabinetto di Timothy Geithner (il successore di Paulson) è l’ex capo della lobby di Goldman Sachs, il cui amministratore delegato pare frequenti con insolita frequenza la Casa Bianca. Insomma, se Goldman Sachs è molto odiata, ci sono molte e validissime ragioni: non occorre essere anarchici per riconoscere che essa rappresenta in modo paradigmatico il parossismo di un capitalismo finanziarizzato che ha elevato la truffa a sistema di vita, e nel quale ogni valore civile, sociale, politico e umano viene messo in secondo piano, quando non apertamente calpestato, per ossequiare un'unica (com)pulsione: il profitto, meglio se ingiustificato.
Goldman fa montagne di denaro grazie al suo istinto a giocare sporco, immersa come è in conflitti di interessi talmente macroscopici che non è ben chiaro come una società democratica possa tollerarli: Goldman indossa di volta in volta il “cappello” del trader e poi quello dello strutturatore, quello del venditore e quello del compratore, quello del regolamentatore e quello del soggetto a regolamentazione.
La novità della settimana è l’op-ed pubblicato mercoledì scorso sul New York Times da Greg Smith, un suo dirigente di stanza a Londra, che ha scelto un modo a dir poco inedito per rendere più pepata la sua lettera di dimissioni. In sostanza, si tratta di una lettera aperta con cui Smith spiega le ragioni che lo hanno spinto alla decisione di lasciare la società (si noti, per inciso come il New York Times la pubblichi come op-ed, ovvero come editoriale che esprime un’opinione diversa da quella coerente con la linea del giornale, cosa che equivale ad una presa di distanza dal polemico e linguacciuto Smith).
Scrive Greg: “La banca ha modificato il mio concetto di leadership. Una volta leadership voleva dire avere idee, dare il buon esempio e fare la cosa giusta. […] Oggi, se fai fare alla banca abbastanza denaro (e non sei proprio un serial killer) farai carriera. […] Nell’ultimo anno ho sentito cinque diversi direttori riferirsi ai propri clienti con il termine ‘marionetta’, talora perfino nelle e-mail interne. […] Mettiamoci idealmente in un giorno qualsiasi tra dieci anni: non occorre essere dei geni per capire che il ragazzo di bottega che siede in silenzio all’angolo della stanza mentre sente parlare tutto il tempo di “marionette”, “cavare gli occhi” e “fare soldi” non sarà divenuto proprio un cittadino modello.” Deve essere quello che è successo a Smith prima che vedesse improvvisamente la luce dopo un decennio abbondante di occhi ed orecchie ben rivestiti (per non parlare della lingua paralizzata).
La Goldman Sachs ovviamente dà del bugiardo al suo ex dipendente, mentre la stampa amica (ad esempio il Wall Street Journal) spiega lo sfogo di Smith con un pagamento di bonus non soddisfacente o con una mancata promozione. Non contenti di queste patetiche giustificazioni da opporre alle semplici, perfino banali osservazioni di Smith, qualcuno di Goldman Sachs fa sapere alla Fox Business Network che Smith parla in questo modo perché sostanzialmente è una mezza calzetta: “Non ha mai guadagnato mai più di 750.000 dollari l’anno”.
Boomerang: fino a dove si può spingere l’arroganza di chi è convinto di possedere il mondo nelle sue mani. Visto che si parla di soldi, una piccola soddisfazione se la può prendere anche il cosiddetto movimento “99%” che continua a voler “occupare Wall Street”: un impiegato che ha solo detto che il re è nudo ha prodotto un calo nelle quotazioni di Goldman Sachs di oltre 2 miliardi di dollari in un giorno. In fin dei conti, fare i soldi sulla pelle della povera gente che resta senza casa e senza lavoro pare sia perfettamente accettabile: quello che proprio non va, però, è fregare i clienti. E’ per questo che la gioia di vedere per una volta la verità spiattellata sulle pagine di un giornale lascia presto il passo all’amarezza.
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di Carlo Musilli
La Grecia è già fallita. In modo ordinato, ma è "tecnicamente" fallita. Gli ultimi avvenimenti - la super ristrutturazione del debito e l'arrivo dei nuovi aiuti internazionali da 130 miliardi di euro - hanno due conseguenze fondamentali, nessuna delle due dal valore salvifico. Primo: la bancarotta incontrollata di Atene - l'incubo peggiore - viene rinviata di un paio d'anni. Secondo: il peso del prossimo salvataggio viene scaricato per intero sulle spalle dei contribuenti europei.
Insomma, parlare di un vero "salvataggio" è improprio e l'ottimismo circolato sulle bocche dei leader europei nell'ultima settimana è falso. Eppure qualche segnale d'incertezza è trapelato anche nelle alte sfere. Wolfgang Schaeuble, potentissimo ministro tedesco delle Finanze, in un'intervista pubblicata domenica su La Repubblica ha ammesso che "nessuno può escludere la necessità di un nuovo pacchetto di salvataggio per la Grecia". Lui ha ancora dei dubbi, i mercati no. E proprio nelle ore in cui prendeva corpo l'eroico salvataggio di Atene, le Borse europee, invece di festeggiare, viaggiavano timide sopra e sotto la parità.
Secondo stime pubblicate dal Sole 24 Ore, i fondi che nei prossimi mesi affluiranno nelle casse d'Atene basteranno al Tesoro ellenico per far fronte ai suoi impegni finanziari da qui al 2014. Compresa una ricapitalizzazione delle banche da 50 miliardi. Dopo di che il Paese dovrà tornare a finanziarsi sul mercato.
Ora, è verosimile ipotizzare che in così poco tempo i conti della Grecia si stabilizzino e la sua economia si riprenda tanto da attirare nuovi investitori? No. Sanno tutti benissimo che il debito greco sarà sostenibile soltanto finché ci sarà Bruxelles a evitarne l'implosione. Allora perché affannarsi tanto per evitare l'inevitabile? L'Europa prende tempo, nella speranza che quando arriverà lo tsunami il sistema finanziario continentale sia abbastanza forte da reggere l'impatto.
La prossima volta che si presenterà il problema di salvare la Grecia, tuttavia, la partita sarà ben più difficile. Non ci saranno più banche da spremere e la ristrutturazione sarà completamente a carico dei singoli Stati. Quindi dei contribuenti.
A mettere fuori causa gli istituti di credito è stato lo swap sui titoli di Stato ellenici che si è chiuso la settimana scorsa e che - solo per il momento - dà un'ampia boccata d'ossigeno ad Atene. A ben vedere, però, nemmeno questa operazione si è risolta in un vero successo, come pure si è voluto far credere. In sostanza, i creditori privati della Grecia sono stati chiamati a scambiare "volontariamente" i propri bond ellenici con altri titoli a scadenza più lunga e rendimenti più bassi, con una perdita pari al 75% dell'investimento.
Le adesioni sono state dell’85,2%, una quota sufficiente a scongiurare il fallimento incontrollato e immediato, ma non abbastanza per evitare quello "tecnico". Il Tesoro di Atene è stato costretto ad attivare le cosiddette Cac (clausole di azione collettiva), il che significa imporre forzatamente lo swap (che solo così è salito al 95,7%) a chiunque abbia in mano bond regolati da legislazione greca. Come a dire: o fate come diciamo noi, oppure non siamo in grado di restituirvi un centesimo. Con tanti saluti alla presunta "volontarietà".
Questa mossa ha fatto scattare i pagamenti su oltre tre miliardi di Cds, titoli speculativi che funzionano come assicurazioni sulla vita dei bond, con rimborsi in caso d'insolvenza. Non solo. Lo swap ha fatto scatenare anche le agenzie di rating Fitch e Moody's: per entrambe si è trattato di "default tecnico".
Fin qui il quadro non è affatto rassicurante, ma abbiamo parlato solo di finanza. La situazione peggiora molto se andiamo a guardare quello che accade nell'economia reale, sempre più drammaticamente scollata dai numeri su cui si ragiona a Bruxelles. Solo nell'ultimo trimestre del 2011, il Pil della Grecia è crollato del 7,5%. Peggio del previsto. Intanto chi ha ancora dei capitali si affretta a portarli fuori dal Paese, mentre i giovani scappano per sfuggire al massacro sociale che arriverà dopo le ultime manovre d'austerity.
Chi mai potrà pensare d'investire in un Paese ridotto in simili condizioni? Il debito greco tornerà sostenibile solo quando l'economia ricomincerà a crescere. Una prospettiva per ora irrealizzabile, a meno di una colossale svalutazione. Della Dracma, naturalmente.
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di Carlo Musilli
Questa sera alle 21 scatta l'ora X per la Grecia. Dopo settimane di trattative, finalmente il Paese ellenico saprà quale destino deve attendersi: il default incontrollato e il probabile ritorno alla dracma, oppure la sopravvivenza forzata e la sottomissione definitiva al verbo di Bruxelles. Tutto dipende da come andrà il cosiddetto Psi, che si chiude appunto fra poche ore. L'acronimo sta per "Private sector involvement" e si riferisce al piano che prevede il coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio del Paese.
In sostanza, tutte le banche, le assicurazioni, i fondi di investimento e anche i semplici risparmiatori che hanno in mano titoli di Stato greci sono chiamati ad accettare sulle loro obbligazioni un taglio del valore nominale pari al 53,3%. Il che vuol dire perdere circa il 75% dei soldi investiti.
L'operazione si compie attraverso lo scambio (swap) dei titoli in portafoglio con altri bond a scadenza più lunga e rendimento più basso. Se tutto andrà come deve andare, alla fine il debito pubblico greco sarà alleggerito di circa 100 miliardi di euro, tornando perlomeno ad un'ipotesi di sostenibilità in rapporto al Pil. Ma non è tutto. La settimana scorsa i leader dell'eurozona hanno subordinato al successo del piano anche l'esborso del nuovo pacchetto d'aiuti internazionali destinato ad Atene (130 miliardi di euro).
Ora, perché il Psi sia davvero efficace è necessario che l'adesione dei creditori privati sia almeno del 90%. Ieri sera eravamo a quota 58%, dopo il via libera arrivato da ben 32 banche, comprese le italiane Unicredit, Intesa SanPaolo e Banca Generali. Se il computo finale si fermerà sotto il 75% non ci sarà più nulla da fare: la Grecia (e con lei mezza finanza europea) sarà investita dallo tsunami della bancarotta incontrollata. Se invece si rimarrà fra il 75 e il 90%, allora la partita si farà davvero complicata.
In questo caso, infatti, Atene potrebbe attivare quelle che si chiamano "clausole di azione collettiva" (Cac), il che significherebbe imporre forzatamente a tutti i creditori privati di aderire allo swap e rimetterci dei soldi.
Sembra un dettaglio, ma non lo è. Ad oggi lo scambio dei titoli è presentato come "volontario" e da questo aggettivo dipende un particolare decisivo. L'Isda (l'associazione internazionale su swap e derivati) ha stabilito che lo swap su base volontaria non costituisce un "credit event" e quindi non fa scattare i rimborsi sui Cds.
Questa sigla sta per "credit default swaps" e indica dei titoli derivati che funzionano come assicurazioni sulla vita di altre obbligazioni (in questo caso i titoli di Stato greci). Se Atene dovesse obbligare i suoi creditori ad accettare delle perdite, senza possibilità di scelta, l'Isda dovrebbe rivedere la propria decisione: l'insolvenza della Grecia sarebbe priva di ogni maschera e il pagamento dei Cds diventerebbe inevitabile.
A quel punto si scatenerebbe un effetto domino che oggi è impossibile quantificare con precisione. I Cds sono da sempre scambiati su un mercato non regolamentato (in gergo "over the counter"), il che significa che nel tempo si sono create delle interconnessioni finanziarie di cui a posteriori è impossibile ricostruire il quadro completo.
Non si sa nel dettaglio chi dovrebbe pagare chi, né di quali somme si stia parlando. Ma dopo il disastro di Lehman Brothers (che ha avuto ripercussioni globali proprio seguendo questo schema) non è assurdo ipotizzare conseguenze a livello di sistema, con diversi bilanci a rischio collasso.
E' chiaro che tutto questo castello di carte si regge su una grossa ipocrisia. Il presupposto fondamentale per evitare il crollo è che lo swap sia "volontario", ma è assolutamente evidente che si tratta di un trucco. I creditori sanno benissimo che se non accettassero di perdere il 75% del loro investimento probabilmente lo perderebbero per intero. A scanso di equivoci, l'Agenzia per il debito greca ha fatto sapere che il Paese "non contempla la possibilità di mettere a disposizione risorse per i creditori privati che non aderiranno al Psi". Una minaccia bella e buona. Il libero arbitrio degli investitori non c'entra davvero nulla. No swap? No party.
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di Emanuele Vandac
La storia recente delle agenzie di rating è costellata di episodi che dimostrano crassa incapacità di far di conto (indimenticabile quello di Standards & Poor's, che giustificò il declassamento del merito di credito degli USA in base a calcoli errati per “soli” 2.000 miliardi di dollari). La loro credibilità ormai dovrebbe essere vicina allo zero, se si considerano i sesquipedali conflitti di interesse in cui operano: non solo, infatti, sono enti di lucro privatistici, ma sono anche controllate dagli speculatori che dovrebbero valutare, mentre le fee sulle stime sono la loro fonte di reddito, cosa che le ha spinte non di rado ad essere di manica troppo larga (Lehman Brothers, Bear Stearns, Fanny Mae e Freddy Mac, Enron e Parmalat).
Questo per non parlare della imperdonabile sciatteria di cui hanno dato prova in qualche caso, come ad esempio quando a novembre, a causa di un errore tecnico, il sito di Standards & Poor's sembrava annunciare il downgrade del debito sovrano francese. Dopo il declassamento della Repubblica italiana, cui venerdì Standards & Poor’s ha abbassato “i voti in pagella” fino a BBB+, è evidente pure che esse sono talmente asservite agli interessi della grande speculazione made in USA da essere diventate una barzelletta. Per parlar chiaro, l’ultima mossa di S&P, che porta il merito di credito dell’Italia pericolosamente vicino al discrimen rerum tra investment grade e “junk” (spazzatura), è una vigliaccata degna di una gang di quartiere come se ne vedono nei film di serie B.
“In un certo senso [il downgrade] è incoerente ed è una valutazione condivisa da parte dei mercati da quello che ho potuto vedere finora", protesta giustamente Maria Cannata, direttrice generale del Tesoro per la gestione del debito pubblico. Non è coerente, certo, se si segue una logica improntata al buon senso e all’onestà intellettuale. Ma è molto coerente con gli interessi delle banche e dei fondi che hanno avviato e mantenuto alta la pressione su una falsa crisi dell’euro che ha il chiaro obiettivo di ridimensionare e normalizzare il sistema culturale e sociale europeo.
Colpevole, secondo gli ispiratori dell'operazione, di un atteggiamento leggermente meno prono all’idolatria mercatista made in USA. Ridurre ogni cosa a merce, scardinare il welfare, creando nel contempo occasioni ghiotte per i capitani coraggiosi solo a parole, campioni nell’arte della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. Un'orgia sconsiderata a chi arraffa di più, talmente truculenta e cinica da perdere il consenso perfino degli ambienti politici più liberisti, di destra come di sinistra.
Come noto, nel 2012 l’Italia dovrà lanciare emissioni di titoli per ben 440 miliardi di euro. Per il solo rifinanziamento del debito in scadenza, come ricordano le impietose tabelle del Bollettino trimestrale del Ministero del Tesoro, il prossimo febbraio occorrerà sostituire oltre 53 miliardi di debito da rimborsare; il conto di marzo è un po’ più basso (“solo” 45 miliardi), mentre ad aprile si dovranno piazzare altri 36 miliardi. Circa 135 miliardi di euro in tre mesi: solo una volta passato marzo senza gravi traumi si potrà (forse) dire che l'Italia ce l'ha fatta.
La già infelice situazione è aggravata dal fatto che, di questo immenso fabbisogno, oltre il 40% (56 miliardi) è costituito da BTP, ovvero da titoli con scadenze pluriennali (tra i 3 e i 30 anni): non è difficile comprendere che, in un contesto di grave incertezza, i titoli pluriennali di un emittente che per una serie di ragioni (alcune fondate, molte francamente speciose) viene percepito dai mercati come traballante non vanno esattamente a ruba.
La bellezza della finanza è proprio questa: come in un mercato del pesce della periferia dell’impero, gli investitori fanno a gara a disprezzare la merce che però intendono portare a casa. Alla fine della sceneggiata, molto probabilmente i titoli verranno comprati, ma ad un prezzo molto basso. Ora, se un titolo a reddito fisso viene collocato sul mercato ad un prezzo inferiore a 100 (o sotto la pari, come anche si dice), vorrà dire che la cedola (fissa) avrà un valore più alto di quello nominale. Gli speculatori saranno contenti, dato che con questo giochino si saranno messi in portafoglio un titolo redditizio, mentre gli italiani onesti, già tartassati da una pressione fiscale degna di un paese scandinavo e da interventi punitivi casuali, pagheranno il conto per tutti.
Orbene: in quale momento Standards & Poor’s decide di menare il suo colpo sotto la cintura all'Italia (anche se per la verità il declassamento ha riguardato anche altri paesi europei, come Francia, Austria, Spagna e Portogallo)? Giusto qualche giorno prima dell'inizio del trimestre “nero” del rifinanziamento del debito pubblico, saturo di titoli lunghi in scadenza. Non sbaglia, per una volta, l’Osservatore Romano, che si spinge a definire “sospetta” la tempistica di S&P's. Contro l’impudenza di Standards’ and Poor’s tuonano anche rappresentanti eminenti del jet set aduso alla frequentazione delle stanze dei bottoni, da Prodi (“le agenzie di rating hanno interessi precisi e competenze parziali”) a Guido Roberto Vitale, Presidente della Vitale & Associati, società di consulenza specializzata nell’advisory sull’investment banking.
Vitale, intervistato da Fabrizio Massaro del Corriere della Sera, è un fiume in piena: con un'enfasi non comune nel suo ambiente, parla di “terza guerra mondiale”, scatenata da ambienti di destra americani, che vedono come il fumo negli occhi la formazione di un centro di potere europeo in grado di bilanciare l'egemonia USA. Secondo Vitale, questa “guerra” finanziaria lanciata da oltreoceano contro l’Europa è una gran perdita di tempo: più opportuno, dice il finanziere, sarebbe che USA e Europa collaborassero facendo fronte comune contro il rischio rappresentato da India e Cina, le cui giuste aspirazioni allo sviluppo costituirebbero un rischio per i paesi occidentali.
Lo stato del capitalismo moderno è di tale confusione che capita perfino di sentire un uomo di mercato come Vitale tessere le lodi dello statalismo comunista: “I cinesi, che sono intelligenti e lungimiranti, per prima cosa si sono creati una loro agenzia di rating [la Dagong, fondata nel 1994 Ndr]. […]. Un funzionario che vende rating [infatti] non deve pensare al bonus, come invece avviene con S&P, Moody' s e Fitch”.
Ed in effetti, la creazione di un’agenzia di rating europea di diritto pubblico risolverebbe almeno il problema della terzietà del valutante rispetto al valutato. Oggi infatti, la situazione, come riassunta da Il Sole 24Ore è simile a quella di una scuola dove “gli studenti fossero i proprietari […] e decidessero quali stipendi assegnare agli insegnanti”. Basti pensare che i principali azionisti di Moody’s sono Warren Buffet e il fondo USA Capital World Investors e che quest'ultimo è pure il primo azionista di Standards & Poor’s. Quanto a Fitch, è essa controllata al 60% dalla società di investimento francese Fimalac, mentre il resto delle azioni è in mano al gruppo editoriale Hearst.
Anche se per un problema chiuso, ne sorgerebbero altri nuovi; per esempio, non si sarebbe mai certi che le valutazioni fossero del tutto immuni da considerazioni politiche. Inoltre, non è detto che l'interesse dello Stato sia per forza quello dei popoli: a meno che non si voglia credere che i funzionari del Partito Comunista cinese, che controllano le nomine della Dagong, possano e vogliano tutelare i diritti dei loro sudditi più di quanto non faccia un manipolo di banche d’affari e/o gruppi di investitori americani che in Occidente fanno, loro pure, il buono e il cattivo tempo.