di Alessandro Iacuelli

"In Italia i numeri del PIL, della ricchezza del nostro Paese e delle entrate dello Stato, tutti i numeri dell'economia, sono falsati dall'enorme dimensione dell'attività sommersa e mafiosa". L’affermazione non è di una qualunque organizzazione antimafia presente sul territorio, ma viene direttamente da Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, intervenuta alla presentazione del libro Mafia pulita di Elio Veltri e Antonio Laudati. Nell'occasione, Marcegaglia ha sottolineato che "la guerra culturale contro ogni forma di mafia è un elemento essenziale prima di tutto per lo sviluppo sociale e civile. Se non riusciamo a coinvolgere una quota forte della popolazione non riusciremo a vincere la battaglia".

La lunga sequenza di belle parole non è certo finita qui; il massimo dirigente di Confindustria ha ricordato di aver posto un anno e mezzo fa, "come uno degli obiettivi della presidenza, il rispetto delle regole e la legalità". La presidente di Confindustria ha parlato di un giro d'affari della mafia nel mondo "di 1.000 miliardi di dollari". In Italia "il giro d'affari va da 175 miliardi di Euro, se si considerano le attività strettamente mafiose, fino a 400 miliardi di euro se si mettono assieme anche le attività sommerse". La mafia "è un cancro che avvelena la vita civile del nostro Paese e non solo, visto che grazie alla sue ramificazioni continua a crescere ed é davvero un fenomeno globale" che vale "mille miliardi di dollari". Ma in Italia la situazione "é particolarmente grave".

La Marcegaglia, seduta accanto al presidente della Camera Gianfranco Fini, che è intervenuto subito dopo di lei, ha concluso il suo intervento proponendo "un patto nazionale tra le varie forze politiche, la magistratura e le forze dell'ordine" per affrontare radicalmente il problema nell'ambito di una vera e propria "guerra culturale". La numero uno degli industriali si è rivolta anche ai cittadini, auspicando "una grande mobilitazione dal basso". E augurandosi che i cittadini comprendano che "una situazione come questa condanna tutti".

L’imprenditrice ha avvertito che i mafiosi "sono moderni e usano internet e le tecnologie più sofisticate per gestire le proprie operazioni illecite". Per combatterli, Confindustria ha deciso di voltare pagina rispetto ai "pur giusti appelli" e mobilitarsi "in prima persona", conducendo una "vera battaglia per una società e un'economia migliori".

In cosa consiste questo voltare pagina? A dire il vero non molto, oltre i soliti patti che a nulla servono se non seguono i fatti. In realtà Confindustria è rimasta sulle posizioni assunte esattamente due anni fa, quando nel settembre 2007 da viale dell'Astronomia partì lo slogan "fuori da Confindustria gli imprenditori che pagano il pizzo". Scelta sbagliata a priori. La proposta di espellere chi versa il pizzo alla mafia o alle altre organizzazioni criminali non può essere un sistema per risolvere il problema. Anzi Confindustria, essendo prima di tutto un'organizzazione di categoria, dovrebbe stare vicino all'associato che subisce un'estorsione.

Il risultato è che chi ammette di avere paura delle mafie e di pagare, vittima di estorsioni, viene espulso dalle associazioni di imprenditori, viene lasciato solo, viene ulteriormente isolato. Di conseguenza, chi paga deve anche pagare più in silenzio di prima. Non è certo di questo che c'è bisogno in Italia. Piuttosto che espellere le vittime delle mafie, sarebbe stato più opportuno espellere quegli imprenditori che con la mafia fanno affari, in tutta Italia trattandosi oramai di un fenomeno nazionale, e magari anche quelli che alla mafia devono le loro fortune.

Ovviamente di questo non se ne parla proprio. E molti di quei 400 miliardi di Euro di budget delle mafie continuano a transitare - e ad arricchire - imprenditori ed industriali che di onesto fanno solo la facciata, magari anche iscritti a Confindustria. Come non ricordare le parole dei Gian Carlo Caselli, oggi procuratore a Torino, raccontate in un'intervista all'Espresso lo scorso aprile: "La criminalità mafiosa che si fa impresa economica è il problema dei problemi. C'è il boss che fa direttamente impresa, anche usando prestanome. Quello che mette capitale in attività con altri soggetti, più o meno consapevoli. E c'è il mafioso che spolpa un'azienda già attiva e, quando l'ha svuotata, s'impadronisce del guscio e la gestisce in prima persona. Oppure continuando a lasciar apparire il vecchio titolare. In tempi di crisi e debiti crescenti, ovviamente aumentano gli spazi per spolpare e impadronirsi delle aziende".

Secondo Caselli, infatti, "con l'attuale sete di liquidità, é chiaro che questa massa di denaro, di provenienza mafiosa, garantisce vantaggi imponenti: l'imprenditore disonesto possiede capitali a costo zero, senza garanzie e senza debiti con le banche. L'azienda criminale, inoltre, non ha bisogno di produrre guadagni immediati: può puntare a conquistare nuove fette di mercato, con prezzi e condizioni che spiazzano ed espellono la concorrenza. E ancora, l'imprenditore mafioso non ha nessuna preoccupazione per i diritti dei lavoratori o per l'ambiente. Sa bene come ottenere le migliori condizioni da fornitori e dipendenti e, se ha problemi, può risolverli con la minaccia, la corruzione o la violenza". Il problema è ormai diffuso in tutto il Paese, e non solo nelle regioni del Sud a tradizionale presenza mafiosa. Già Falcone spiegava che la mafia uccide a Palermo, ma investe a Milano. Più l'investimento è lontano dall'attività illecita, più è facile passare inosservati e farla franca.

Ma tutto questo non è stato toccato neanche tangenzialmente dalla signora Marcegaglia. Confindustria continua ad accusare il Paese di essere vittima delle mafie e chiede una risposta da parte dei cittadini, quando in realtà la prima risposta alle mafie, che può solo essere il frenarle economicamente, può solo venire da chi l'economia la fa, cioè dall'industria stessa, e dalla sua organizzazione di categoria. Ma, ancora una volta, sono le parole di Caselli a dare il giusto valore a quelle della presidente di Confindustria: "C'è anche chi non vede o fa finta di non vedere. È il vecchio discorso: pecunia non olet, il denaro non ha odore. Forse ha ragione uno studioso come Salvatore Lupo: ormai c'è una richiesta di mafia anche al Nord".

 

di Ilvio Pannullo

Dopo la palese incapacità dimostrata nella crisi ancora in atto, credere alle parole del Fondo Monetario Internazionale è diventato un atto di fede. Va detto, tuttavia, che se considerate nella giusta ottica, le valutazioni della celebre istituzione finanziaria possono risultare utili per intuire quanto non viene detto. In un discorso tenuto ieri a New York, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn, forse stanco di mentire, ha affermato: “La crisi potrebbe innescare una guerra nei Paesi più poveri”. La posta in gioco sul tavolo della crisi, ha detto Strauss-Kahn, "è molto alta nei paesi a basso reddito dove la popolazione è particolarmente vulnerabile" e per i quali "le conseguenze potrebbero essere disastrose".

Marginalizzazione economica, instabilità politica e sociale e un crollo della democrazia, potrebbero sfociare in una guerra. Nulla questio sulla gravità della situazione descritta, ma quello che non viene detto è che un simile scenario potrebbe riguardare anche il cuore dell’impero, gli Stati Uniti d’America. In un momento in cui la crisi sembra attenuarsi, sullo scacchiere internazionale c’é infatti chi muove i suoi pezzi in vista della sicura resa dei conti.

La notizia è di quelle dal basso profilo e dalle imponenti conseguenze. Dopo le colossali recenti immissioni di liquidità da parte della Federal Reserve per sanare i buchi di bilancio dei colossi di Wall Street, si aspetta alla finestra l’iperinflazione che interesserà la valuta americana. Non tutti però stanno a guardare: da tempo – come si è già segnalato – il gigante cinese sta silenziosamente liquidando le proprie riserve valutarie quotate in dollari per evitare di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, quando gli effetti delle politiche monetarie americane incominceranno a manifestarsi.

La novità recentemente segnalata dal giornalista Lawrence Williams sul sito Mineweb e ripresa da gran parte della rete, è che le organizzazioni statali cinesi stanno facendo pubblicità all'idea di comprare oro e argento. Come si trattasse di sapone in polvere, la popolazione cinese, nota per il suo numero e già nella mentalità di acquisto di oro e preziosi, viene sollecitata a mettere al sicuro i propri risparmi attraverso l’acquisto del pregiato metallo. Come risultato, quest'anno o il prossimo, la Cina probabilmente supererà l'India come maggiore acquirente di metalli preziosi.

L’idea, semplice ed efficace - in piena sintonia con la saggezza tipica dei grandi generali cinesi - è quella di portare dentro i confini nazionali la maggiore quantità possibile di quell’unico valore che, nei momenti di crisi strutturale, quando tutto pare di colpo perdere valore, si rivaluta. Il tutto, però, senza allertare i mercati finanziari per evitare che la situazione precipiti prima del dovuto. Sta di fatto che la strategia cinese è chiara come il sole allo zenit ed ancor più chiare sono le conseguenze di una simile politica. Senza l’appoggio del credito cinese il valore del dollaro crollerebbe alla prima vera spallata.

La Cina nell’ultimo decennio è stato il principale finanziatore di questa politica economica. Se il dollaro verrà sostituito come moneta per gli scambi internazionali e quindi come moneta di riserva di tutti gli Stati, questi saranno costretti a cambiare i dollari in loro possesso per la nuova o le nuove monete che si utilizzeranno negli scambi internazionali; ciò determinerebbe una forte svalutazione della moneta statunitense e per conseguenza, continuare ad avere enormi quantità di dollari significherebbe ritrovarsi con una quota di riserva fortemente svalutata.

Esemplificando e semplificando quanto sopra: se oggi, i circa 2.000 miliardi di dollari in riserve cinesi ammontano a circa 1500 miliardi di Euro, domani con un dollaro svalutato ad esempio di un 50%, rispetto all’Euro, le attuali riserve cinesi passerebbero a valere circa 1.000 miliardi di Euro. Tra l’altro la svalutazione del dollaro è praticamente l’unica strada percorribile e sicuramente auspicabile dal governo USA per ridurre drasticamente l’ingente e sempre crescente debito pubblico accumulato: si comprende dunque, la necessità per i cinesi di liberarsi dei dollari accumulati o ridurre drasticamente questa cifra; maggiore sarà la riduzione, minori saranno le perdite.

Oggi la Cina è la terza economia del mondo e nel 2010, secondo stime del FMI, sarà la seconda, con un sensibile avvicinamento a quella USA; nel 2008 il PIL cinese era pari al 29% di quello USA, nel 2014, sarà pari ad oltre la metà. Fino ad ora, la crescita è stata assicurata soprattutto grazie alle esportazioni e paradossalmente il punto di forza dell’economia cinese sta nel fatto che non ha ancora un mercato interno; riprogrammare la produzione verso il mercato interno significa continuare la corsa alla crescita.

In sostanza, la Cina se in questi ultimi 20/30 anni ha fondato lo sviluppo sulle esportazioni, nei prossimi anni dovrà riprogrammare l’apparato produttivo verso il mercato interno, per stimolare il quale dovrà concederà maggiori benefici ai propri lavoratori. Non sarà ovviamente un’operazione automatica e indolore, ma questa è la strada che il gigante asiatico ha già cominciato a percorrere da qualche tempo a questa parte. Con queste premesse non si va lontano dalla verità se si afferma che la Cina rappresenta il futuro dell’attuale sistema economico. 

Al momento, all’orizzonte si profila un mondo multipolare che sostituirà progressivamente l’attuale mondo dominato dallo strapotere USA. Uno dei poli è precisamente incentrato sulla Cina e l’Asia. Gli altri poli saranno costituiti dal blocco Latinoamericano, dal blocco che fa capo alla Russia, dal mondo Arabo ed ovviamente dall’attuale occidente (USA, Canada, Europa occidentale ed Australia/Nuova Zelanda), che sia pure in declino continuerà a svolgere un ruolo importante a livello mondiale.

E’ probabile che in ognuno di questi poli si affermi una moneta di riferimento. Viste le condizioni attuali è molto probabile che il dollaro sia sostituito, almeno in una fase di transizione, non da una sola moneta, ma da un paniere di monete regionali. Una cosa è sicura: si preannuncia una fase molto interessante, un momento di redistribuzione del potere e - si sa - sono avvenimenti che non accadono mai tranquillamente. L’affabile Obama, speranza di milioni di americani e non solo, dovrà impegnare tutte le sue abilità per giocare al meglio questa partita. Una partita che gli Usa dovranno giocare senza l’alleato cinese.

di Ilvio Pannullo

Il divo Giulio difensore dei poveri ha gettato la maschera. Dopo aver incassato il 22 settembre l’approvazione in Consiglio dei Ministri della finanziaria 2010, il presunto no-global alla guida del dicastero dell’economia italiana ha pensato bene di benedire l’ultima porcata, in ordine di tempo, del governo Berlusconi. Quello che era nato come l’ennesimo regalo ai tanti evasori fiscali che ingrassano le file dei sostenitori della destra nostrana si è trasformato, dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal senatore del Popolo della Libertà, tale Salvo Fleres, in un vero e proprio mostro giuridico.

Non bastava sanare il comportamento illecito di quanti avevano esportato all’estero capitali che avrebbero dovuto dichiarare in Italia evitando di pagare le dovute imposte; non bastava far pagare un ridicolo obolo come premio per la condotta antigiuridica; non bastava estendere una simile misura a dichiarazioni inerenti ad anni fiscali sui quali la Guardia di Finanza ancora stava indagando. Si è dovuto andare oltre e permettere quello che mai un Governo dovrebbe permettere: il vilipendio dell’ordine legale e costituzionale del paese.

Lo chiamano «Scudo ter». È infatti questa la definizione con cui si indica lo scudo fiscale varato quest'anno, dopo quelli del 2001 e del 2003, e che consente di far riemergere capitali e patrimoni che si trovavano all'estero fino al 31 dicembre 2008 e non erano in regola con le norme sul monitoraggio dei capitali, né erano riportati nelle dichiarazioni dei redditi. L’infame scudo immaginato dal paladino Tremonti proteggerà i più furbi tra tutti i contribuenti italiani non solo da tutti i reati fiscali e societari commessi al fine di evadere il fisco e trasferire il denaro all'estero, ma anche dai delitti di frode fiscale, emissione e utilizzazione di false fatture, falso in bilancio e persino le cosiddette ''frodi carosello''. Reati che potranno dunque essere ''sanati'' con il pagamento di una somma pari al 5% dell'imposta evasa.  

"Il diritto penale richiede certezza ed effettività della pena, e non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie o sanatorie, in particolare nel settore delicatissimo dei reati economici e fiscali". Questa la posizione dell'Associazione nazionale magistrati che esprime "preoccupazione" per l'allargamento dello scudo fiscale. ''Si tratta – continua l'Anm – di reati oggettivamente gravi, puniti con una pena massima di sei anni di reclusione, per i quali lo Stato rinuncia alla punizione, in tutti i casi e indipendentemente dall'importo non dichiarato''. E poteva andare anche peggio. Fortuna infatti che nel pomeriggio di quello stesso tristissimo giorno le commissioni di Bilancio e Finanze del senato avevano modificato il testo dell’emendamento, che nella sua versione originale prevedeva l’estensione della sanatoria anche ai procedimenti in corso.

Lo stesso Luigi Zanda, senatore del Partito Democratico non nuovo ad emendamenti lampo di questo tipo(si ricordi su tutte la questione poi scoperta dalla trasmissione Report riguardante un presunto emendamento alla prima finanziaria del governo Prodi che prevedeva di fatto una norma salva Parmalat), tuona indignato: “Per fortuna lo scudo non è stato esteso ai procedimenti penali in corso, ma resta molto grave. Della portata di queste modifiche ce ne accorgeremo con il tempo, scoprendo quante e quali persone si nasconderanno dietro lo scudo fiscale per evitare di dover rispondere di falso in bilancio una volta scoperte”.

Ancora più diretto è il commento della presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, che dopo aver definito il provvedimento sullo scudo fiscale ampliato «una vera porcata» incalza: «Era più onesto il cartello di Medellin. Si è presentato con i suoi capi, con nome e cognome, al Governo colombiano per offrirgli di far rientrare i capitali dall'estero e aiutare così il bilancio pubblico. Il Governo colombiano non accettò. Ma da noi no. In violazione di tutte le norme si fanno rientrare capitali sulla cui costituzione nessuno indagherà mai e si garantisce l'anonimato». Un’allusione simile a quella sbandierata dal partito di Di Pietro che direttamente nell’aula del Senato dà luogo ad una protesta che ha il sapore dell’amara verità non raccontata. Una decina i cartelli comparsi fra i banchi dei senatori con slogan alternati: «Governo antitaliano» e «Mafiosi e evasori ringraziano». Il fedele tributarista del papi italiano non può, però, essere tacciato di incoerenza: se le grandi banche internazionali derubano gli Stati sovrani, che anche i cittadini furbi siano messi nelle condizioni di rubare. Un ragionamento che sarebbe un ossimoro ovunque, ma non in Italia.

La situazione è, infatti, più che critica, quasi pietosa. Se tre indizi non fanno una prova aiutano certo a farsi un’idea della reale situazione dei conti pubblici. L’ultimo in ordine di tempo è la benedizione all’emendamento Fleres, quello appunto che stringe i tempi dello scudo e ne allarga i confini. Il primo è invece contenuto nell’obbligo stabilito a gennaio per la Sace – un gruppo finaziorio di assicurazione del credito, protezione degli investimenti, cauzioni e garanzie finanziarie – di garantire i crediti nei confronti delle amministrazioni statali: una brillante trovata per non far pesare fino al 2011 l’extra-debito degli enti locali sul rapporto defecit - Pil. Il secondo indizio è l’emessione lampo da 2 miliardi di BPT (scadenza 2025), effettuata il 18 settembre a poche ore da una conference-call con le banche d’affari.

Ora questo scudo a caccia di soldi ”pochi, maledetti e subito”, dopo un’intera estate passata a fare da moralizzatore del sistema bancario. Tutto lascia presagire tempi cupi. Ma gli italiani possono stare tranquilli: il governo non metterà le mani nelle loro tasche. Il Robin Hood dei ricchi le tasse non le aumenta. È disposto a trasformare questo paese in una latrina del terzo mondo ma le tasse non le aumenta.

di Ilvio Pannullo

L’estate è finita, l’inverno è alle porte, la vita e la morte non cambiano mai. Vorremmo fosse uno scherzo, un paradosso, ma è la triste realtà: la crisi economica che ha devastato le economie di mezzo mondo mandando in frantumi una fiducia nel mercato che si riteneva più sacra di Dio, adesso pare solo un lontano e spiacevolissimo ricordo. I governi e le istituzioni finanziarie internazionali devono ancora risolvere i problemi, le storture, le irragionevolezze che sono state alla base di una caduta dei valori azionari peggiore di quella che si osservò in occasione della grande crisi, ma c’è già qualcuno che grida alla ripresa. Vorremmo fosse uno scherzo, ma è la triste realtà; è storia e quello che pare insegnarci è che la storia non insegna nulla.

Quello al quale stanno assistendo i piccoli risparmiatori di tutte le economie, emergenti e non, incapaci come sono di comprendere le reali dinamiche sottese ai finti proclami da spot pubblicitario, è un gioco al massacro. Ogni uomo e donna che abbia una sia pur minima connessione con le leve del potere o sia in grado di spendere una qualche credibilità sul mainstream televisivo, la scorsa settimana ha levato la sua lode alla sopravvivenza del sistema finanziario mondiale, a quello che si è rivelato alla fine come un banale riflusso gastroesofageo prolungato. Le nostre preoccupazioni sono finite, insomma, se si crede a queste buffonate. E tutto lascia intendere che sarebbe saggio non farlo.

Non fate ciò che dico, fate ciò che faccio. Potrebbe riassumersi così l'analisi del comportamento di molte banche e investitori istituzionali. Un articolo di Vittorio Carlini su Il Sole24Ore coglie esattamente il senso di quanto sta accadendo oggi sui mercati e, per farlo, aiuta il lettore a seguire il suo ragionamento, nascosto neanche troppo tra le righe dell’articolo, focalizzandone l’attenzione sull’unica cosa che ha un valore reale: i numeri. “Per rendersene conto – scrive Carlini - basta ritornare con la mente al 26 agosto scorso. In quella data si è svolta un'asta di titoli di Stato, con la domanda che ha superato l'offerta. I BOT semestrali sono stati collocati con un rendimento medio ponderato dello 0,550%.

Secondo Assiom, vuole dire un yield semplice e cioè al netto di tassazione e commissioni dello 0,08 per cento”. Dato che lo yield rappresenta il rapporto dividendo-prezzo corrispondente al rapporto tra l'ultimo dividendo annuo per azione corrisposto agli azionisti e il prezzo in chiusura dell'anno di un'azione ordinaria, è utilizzato come indicatore del rendimento immediato, indipendentemente dal corso del titolo azionario. Un numero, insomma, cui prestare attenzione in momenti come questo.

Ebbene - si chiederà - cosa mostra questo fatto? La risposta è semplice: visto che gli acquirenti sono stati in maggior parte banche ed investitori istituzionali, ciò vuole dire che questi soggetti, spesso impegnati a distribuire ottimismo (pur con le debite riserve) sui rally dei mercati, preferiscono parcheggiare la loro liquidità a breve in investimenti con rendimenti vicino allo zero. Potrebbe essere un caso di scuola per dare dimostrazione della teoria sull’asimmetria informativa tanto cara al professor Stiglitz e, se lui ci vinse un Nobel, vorrà dire che ci sarà pur un briciolo di logica in quello che questa teoria sostiene.

È importante, infatti, comprenderne il senso soprattutto per i risvolti pratici che si potrebbero cogliere, in via del tutto casuale ed ipotetica, se si decidesse di guardare quanto accade oggi consapevoli di non sapere. In questo Stiglitz assomiglia molto ad un Socrate moderno che, invece di bighellonare in giro per l’agorà ateniese interrogando tutti i passanti sulle questioni più disparate, abbia deciso di interessarsi al solo argomento che pare avere importanza ai giorni nostri: il mercato. Similmente al filosofo greco, il professore americano ammonisce chiunque si avvicini alle teorie economiche esortandolo alla vigilanza e all’onestà intellettuale. L'asimmetria informativa é infatti quella condizione in cui un'informazione non è condivisa integralmente fra gli individui facenti parte del processo economico. Stando così le cose, dunque, una parte degli agenti interessati avrebbe maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti, potendo trarre un vantaggio da questa configurazione.

Ovviamente siamo nel campo delle mere speculazioni. Diversamente già si leverebbero nel cielo le grida di quanti, non potendo accettare la crudezza della realtà, ridurrebbero precise ricostruzioni a mere coincidenze. Se non fosse una speculazione, insomma, sarebbe nell’ennesima teoria del complotto. Ma siamo proprio sicuri che sia tutto frutto della mente di qualche mitomane?

Antonella Randazzo scriveva sul suo blog: “Il termine complottisti viene oggi utilizzato con toni assai dispregiativi, ad indicare alcune persone che denunciano l’attuale sistema come dovuto al potere criminale di uno sparuto gruppo di persone. Tale denuncia risulta essere, per il potere costituito, assai dannosa, poiché mirerebbe a rendere le persone comuni coscienti di non avere alcun potere politico o finanziario. Per questo motivo, coloro che denunciano questo stato di cose vengono coperti di etichette o nomignoli, atti a spostare l’attenzione su particolari irrisori o su aspetti personali, al fine di minimizzare le loro denunce o di renderle poco credibili.

C’è da interrogarsi su quest’esigenza di etichettare persone che a un certo punto della loro esistenza scoprono che le guerre non vengono fatte per “portare democrazia”, che alle autorità politiche non frega un baffo se loro hanno un lavoro decente oppure no, che la storia insegnata a scuola non la conta giusta sul potere che i grandi banchieri-imprenditori hanno avuto nel provocare determinati eventi, o che la scienza ufficiale non lavora sempre a favore degli esseri umani. Queste persone si sono rese conto, con non poco sconcerto, che quello che accade in ambiti finanziari, economici o politici non è esattamente come lo raccontano i mass media.”

Tombola. La realtà è così, ma solo se si crede al pifferaio. Basta un attimo di distrazione dal campionato, dall’ultimo gossip, un attimo in cui si spegne la televisione si accende il cervello e magari si legge un buon libro, che tutto pare tornare a posto come in un videogioco. In un attimo di lucidità si realizza che, in effetti, il messaggio di ottimismo sui mercati è arrivato con chiarezza. Però, tutta questa sicurezza sull'equity evidentemente non c'è. Gli investitori istituzionali, che sono i primi a fare pressioni perché torni ad instaurarsi un clima di fiducia (e che ovviamente sono già esposti sul mercato azionario) preferiscono diversificare. Strano: diffondono fiducia, ma sembrano non averne. Non è certamente un comportamento coerente.

Si potrebbe obiettare che l'attuale forte inclinazione della curva dei tassi, sia negli Usa sia in Europa, segnala i timori della ripresa dell'inflazione e quindi, indirettamente, presuppone la ripresa dell'economia. Insomma, le condizioni per proseguire nella salita dei mercati ci sarebbero. Ma non ci s’illuda, è solo fumo negli occhi. Le obbligazioni a lunga durata scontano sì il surriscaldamento dei prezzi ma, in verità, ciò che non viene detto è che questo aumento fittizio dei valori nominali è più conseguenza dell'enorme liquidità immessa dalle banche centrali, piuttosto che di una reale ripresa dell'economia reale.

Come dire, insomma, che passato l'effetto ondata di liquidità sul mercato, se il mondo dell'economia reale non riparte, i corsi azionari ripiomberanno nel buco nero dal quale sembra stiano per uscire. Alle sirene degli economisti si preferisca dunque la saggezza popolare: il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

di mazzetta

L'ottimismo sparso a piene mani da media e politici si é rivelato inutile e la crisi bussa di nuovo alle porte. Sembra ormai imminente uno shock ancora peggiore di quello dell'anno passato e non saranno certo le parole interessate dei demagoghi e di chi sta guadagnando anche dalla crisi a impedire la resa dei conti. Se c'é una certezza è che le parole non sono mai bastate a saldare i conti e lo stato dei conti non é affatto migliorato dall'anno scorso, tanto più che i massicci interventi governativi sembrano essere finiti nuovamente nelle tasche dei finanzieri, aumentando significativamente il debito pubblico nelle economie avanzate senza effetti sensibili sui conti, sulla produzione o sull'occupazione.

Uno sguardo al maggior mercato mondiale, quello americano, e alla fabbrica-mondo cinese, non lascia dubbi. In Cina le fabbriche si svuotano e basta il dato del calo del 48% dei consumi elettrici a rendere la dimensione del calo della produzione reale nascosto dietro le dichiarazioni dei dirigenti cinesi, che cercano ovviamente di limitare il panico. Negli Stati Uniti le cose sono più complesse, come si conviene a un'economia più sofisticata, ma non c'è alcun dubbio che si vada verso un altro schianto imminente. Come previsto, il massiccio intervento statale è stato incamerato dalla finanza statunitense e non poteva essere diversamente, visto che la task-force chiamata da Bush a “risolvere il problema” era composta degli stessi avidi incapaci (in realtà abilissimi) che hanno provocato il disastro.

Fidando nella copertura di un governo americano fin troppo amico e legato a doppio filo con l'elite finanziaria, i grandi player della finanza hanno incamerato gran parte dei fondi destinati al “salvataggio” dell'economia, senza mutare sostanzialmente i loro comportamenti; anche il pacchetto di “stimolo” deciso da Obama si sta rivelando funzionale agli stessi interessi (e non poteva essere diversamente). L'attuale confronto sulla riforma sanitaria ha messo in chiaro che solo la lobby assicurativa è in grado di schierare sei lobbysti per ogni deputato statunitense, produrre vagonate di spot falsi e tendenziosi e persino di sollevare discrete folle di americani arrabbiati, convinti da repubblicani e lobbysti che l'introduzione di un'opzione per la copertura sanitaria pubblica significa delegare al governo il diritto di vita e di morte sugli anziani, ai quali verrebbero negate le cure perché conviene poco curarli vista l'età.

Non diversa la reazione delle corporation dell'energia al piano “verde” dell'amministrazione, che attraverso il finanziamento dell'American Petroleum Institute (API) stanno promuovendo una resistenza analoga a difesa dei propri profitti e bombardano di falsità l'opinione pubblica americana, promuovendo assurdità come il “carbone pulito”, spargendo falsità sulle energie alternative e negando in ogni modo l'esistenza della minaccia di cambiamenti climatici determinata dalle emissioni inquinanti.

Una marea di falsità auto-evidenti che però attecchiscono come le balle di Berlusconi grazie lla complicità di media e politici legati a filo doppio agli stessi interessi. Nonostante la sanità “privata” americana, che lascia molti cittadini e molte patologie senza copertura, costi il 17% del Pil americano a confronto del 10% mediamente impiegato dai paesi avanzati per coprire tutti i cittadini e tutte le patologie, sembra che la riforma sanitaria non passerà, lasciando al paese una palla al piede incredibile e altrettanto incredibili profitti alle corporation. Non è un caso che gli Stati Uniti siano l'unico paese a continuare in questa scelta suicida. Un dato che le assicurazioni e la canea che finanziano riescono a oscurare, terrorizzando l'elettorato più ignorante e trasformando questa gente in folle di squilibrati arrabbiati che assalgono le riunioni volute dall'amministrazione per spiegare la riforma sanitaria.

Un clima che spiega benissimo come i grandi della finanza siano riusciti ad evitare le conseguenze del fallimento e siano restati saldamente in sella nel corso dell'ultimo anno. Anno trascorso a saccheggiare il saccheggiabile, attraverso le alchimie contabili ormai note e che permetterà loro, abbastanza incredibilmente, di lucrare compensi superiori a quelli degli anni passati. Un successo ottenuto socializzando parte delle perdite e investendo gli aiuti governativi in operazioni spericolate che, invece di ridurre il rischio sistemico, lo sta aumentando, come evidenzia il caso di Goldman Sachs.

Questa, dopo aver rinunciato allo status di banca d'affari e aver scelto di diventare una banca “normale” per ottenere gli aiuti governativi, sta ora operando spericolatamente in regime di “proroga”; ma non prima di aver cambiato le proprie regole contabili, “perdendo” il disastroso dicembre 2009 nel passaggio, potendo così annunciare profitti puramente teorici che ingrasseranno il management, ma non gli azionisti e nemmeno l'azienda nel lungo periodo.

Le operazioni di Goldman Sachs negli ultimi mesi hanno aumentato il rischio di sistema statunitense e i bonus dei suoi dirigenti senza altri vantaggi per nessuno. Non di meglio hanno fatto i concorrenti, che pur non potendo contare sugli ex-dipendenti nella cabina di regia dei salvataggi, hanno selvaggiamente approfittato della possibilità offerta dal governo di taroccare i bilanci valorizzando i titoli-spazzatura come se fossero buoni. Citigroup ad esempio, già “salvata” dal governo e ora de facto di proprietà pubblica, conserva oltre 83 miliardi di dollari di assetti dal valore reale attualmente prossimo allo zero e parcheggiati in un capitolo contabile denominato “Special Asset Pool”, che di speciale non ha proprio nulla. Non diversamente fanno gli altri giganti della finanza.

Non potendo riempire i buchi, il governo americano ha infatti offerto a banche e finanziarie la possibilità di coprirli virtualmente, assegnando valori di fantasia a robaccia priva di valore in attesa di tempi migliori: una soluzione che ha le gambe corte e che sta già rivelando i suoi limiti. L'unica speranza di emendare veramente i bilanci, è l'avvento di una spirale inflazionistica che deprezzi il valore reale dei debiti; e già è all'opera un robusto partito che spinge per questa scelta, per nulla preoccupato dalle conseguenze devastanti che potrebbe avere per le popolazioni.

Di buone intenzioni sono lastricate le fosse, ma anche ammesso che le intenzioni fossero buone, i falliti della finanza internazionale (non solo gli statunitensi) hanno preso i soldi pubblici e hanno continuato a fare esattamente quello che facevano prima. Se i governi speravano che l'iniezione di soldi buoni nel sistema avrebbe riaperto le dighe del credito, si sono dovuti presto ricredere: i grandi prestatori al consumo stanno taglieggiando i piccoli consumatori, spingendoli sempre di più verso la miseria e le aziende non se la passano tanto meglio.

Persino Toyota ha dovuto accettare finanziamenti molto opachi legati alla sorte dei famigerati “derivati”, che continuano a circolare perché nessuno ha il coraggio di vietarli. A vuoto anche il tentativo di regolamentare il mercato di questi titoli tossici, stante la pretesa dei loro detentori di giungere a un regime fondato sull'auto-regolamentazione. Una chiara beffa che per il momento non ha avuto sbocchi lasciando il problema sul tavolo, più esattamente spingendolo sotto il tappeto.

Al quadro già pessimo si sono aggiunti comportamenti ancora più censurabili, come la corsa al trading ad alta frequenza, un'attività resa possibile dal vantaggio di una frazione di secondo nel conoscere le operazioni di borsa che alcuni grandi operatori ottengono pagando (legittimamente, pare) il New York Stock Exchange, e che poi sfruttano con computer potentissimi, lucrando senza fatica e con nessuna utilità per il sistema sulla massa delle operazioni finanziarie.

Nemmeno gli altri fondamentali dell'economia statunitense offrono conforto. I prezzi degli immobili restano sdraiati, dopo che si è avuta conferma che la crisi non è stata determinata dai muti sub-prime e che la percentuale dei muti immobiliari in default è in aumento costante, il settore inclina al pessimismo. Ormai è accertato che i “cattivi clienti” ai quali erano stati concessi i sub-prime (comunque una percentuale risibile sul totale) rispettano i loro impegni più dei clienti ritenuti solidi e garantiti che, travolti da una disoccupazione galoppante, sono ormai giunti all'esaurimento dei risparmi e degli ammortizzatori sociali, quando ce li hanno.

I valori di borsa hanno goduto di un effimero rally al rialzo che è durato qualche mese, per lo più determinato proprio dai tagli selvaggi dell'occupazione; che notoriamente in questa economia malata aumentano i valori di borsa delle aziende (ai quali sono legati i bonus dei dirigenti); operati anche da aziende più o meno sane, ma che a loro volta determinano e amplificano l'erosione del consumo, trascinando tutto il sistema nella spirale al ribasso.

Qualche centinaio di banche americane è in lista per il fallimento e nell'anno in corso falliranno più banche che durante il precedente, anche il recente crack di un gigante come Colonial BancGroup Inc. conferma la tendenza. Fallimenti che non mancheranno di scatenare effetti a catena in giro per il mondo. Se la ricetta per la salvezza del sistema prevede la ripresa dell'erogazione del credito e il sostegno ai consumi, è fin troppo evidente che la finanza mondiale stia andando nella direzione opposta, incamerando i finanziamenti pubblici a coprire le perdite pregresse e a retribuire lautamente i maghi della finanza fin che si può. Non vi è traccia di responsabilità sociale ai piani alti dell'economia. I consumi, infatti, continuano a diminuire ovunque, anche se i media passano con la fanfara solo dati parziali che raccontano di minimi aumenti calcolati su dati già sprofondati nella tragedia.

Un'assenza di responsabilità che da diverso tempo è stata rilevata e stigmatizzata, ma alla quale nessuno sembra voler porre rimedio; difficile attendersi provvedimenti draconiani da una classe politica da tempo al soldo della grande finanza. Un'assenza di responsabilità che giunge addirittura ad intaccare l'istituto proprietario, fino al punto che negli Stati Uniti stanno lavorando attivamente per negare agli azionisti persino la possibilità di criticare le retribuzioni degli amministratori, con il risultato paradossale d'impedire ai proprietari di sindacare l'operato di quelli che, almeno formalmente, sono loro dipendenti, spesso strapagati e spesso responsabili di aver condotto le loro aziende sull'orlo del fallimento, mentre personalmente si arricchivano in misura oltraggiosa. L'immagine di un capitalismo che arriva a minacciare la proprietà privata dovrebbe preoccupare e smuovere anche i più adamantini sostenitori dell'attuale falsa economia di mercato, ma ancora non succede.

Una situazione tragica che non mancherà di esigere il conto e che è ancora in grado di travolgere e mandare a gambe all'aria l'intera economia globalizzata, costruita, come si è visto, su fondamenta di cartaccia, valori virtuali e falsità fin troppo reali. Non per niente la grande crisi del '29, alla quale si paragona l'attuale, durò anni e non lo spazio di qualche quadrimestre come commentatori e politici cercano di farci credere annunciando ormai da mesi l'arrivo della ripresa.

Nel nostro paese non andrà meglio che altrove e non abbiamo nemmeno bisogno di altri shock catastrofici per mordere la polvere nei prossimi mesi. Le sciocchezze sparse a piene mani dal gran bugiardo a capo del governo, non producono reddito e non riempiono le dispense. Il peggioramento dei conti pubblici è lì a dimostrare che il debito pubblico è destinato ad aumentare, anche se Tremonti non ha scucito un Euro a favore dei cittadini comuni ed è stato parco anche nel restituire multipli della ridicola “Robin Hood Tax” alle banche e distribuire elemosine agli imprenditori amici.

Anche in Italia tutti i dati macroeconomici volgono al peggio e la disoccupazione impennerà dall'autunno in avanti in coincidenza con l'esaurimento degli ammortizzatori sociali, che fino ad ora avevano consentito la sopravvivenza di disoccupati a cassintegrati. Previsioni pessime ed esiti inevitabili, tanto più che il ministro dell'economia non ha soldi in cassa e che il debito già enorme non consente politiche di spesa simili a quelle intraprese dai partner europei. L'ondata di mancati rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, su tutti quelli nel settore dell'istruzione, aggiungeranno benzina al rogo delle speranze dell'italiano medio.

Tempi ancora più cupi all'orizzonte, quindi, aggravati dall'evidente incapacità della classe politica di ritrovare il filo del discorso e dall'avida irresponsabilità della classe imprenditoriale e finanziaria, nel nostro paese, più che altrove dipendente dagli aiuti pubblici. Un futuro che è facile prevedere sarà caratterizzato da una sequenza di shock destinata a ripetersi nel corso dei prossimi anni senza che nessuno dei responsabili o dei cantori di un'economia malata e insostenibile abbia il coraggio di dire basta e di accettare l'evidente necessità di pesanti riforme, giacché perdurando gli attuali assetti, non saranno certo loro a pagare il terribile prezzo di questa follia.


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