di Michele Paris

Lontano da una Washington ancora travagliata dalle diatribe tra democratici e repubblicani, all’indomani dell’approvazione del piano di stimolo all’economia da 787 miliardi di dollari, il presidente degli Stati Uniti ha posto a Denver la propria firma su un provvedimento molto contrastato e ben diverso nella sua forma finale da quella inizialmente auspicata dalla nuova amministrazione. Nonostante il piano Obama abbia trovato il sostegno al Congresso di appena tre esponenti dell’opposizione, configurando un apparente compattamento dei ranghi in casa repubblicana, lo sforzo bipartisan – in gran parte fallito – del neo inquilino della Casa Bianca, ha messo in luce divisioni non trascurabili all’interno del partito che fu di George W. Bush. Da un lato una delegazione parlamentare sempre più rischiosamente arroccata sui tradizionali valori del conservatorismo repubblicano, dall’altro una parte dell’elettorato e degli amministratori locali orientati verso un pragmatismo dettato dai tempi di crisi e decisamente più in sintonia con l’azione presidenziale.

di Mario Braconi

La scorsa estate, in pieno periodo di vacanze, TIM e VODAFONE, che insieme, controllano il 60% del mercato della telefonia mobile in Italia, decisero di organizzare un piccolo colpo di mano ai danni dei loro clienti. A sentire loro, si trattò di rimodulare vecchie tariffe, operazione necessaria dopo il decreto Bersani, che aveva abolito l’assurdo costo di ricarica sulle “prepagate”: sconosciuto in tutto il resto del mondo, nella passiva Italia l’iniquo balzello ha regalato per anni ai due operatori dominanti una ricca messe di ingiustificati ricavi. E così, in piena estate, TIM azzerò 10 tariffe, mentre VODAFONE “semplificò” la sua offerta trasformando 31 offerte preesistenti in sette nuovi “piani”: inutile dire che le offerte cancellate erano vecchie e quindi in generale più economiche di quelle imposte in sostituzione.

di Eugenio Roscini Vitali

La rivoluzione della giustizia sociale, della lotta alla corruzione e al dispotismo; la rivoluzione che spazza via una monarchia millenaria e frantuma un regime asservito all’interesse straniero, che umilia le grandi potenze e sfida l’occidente, che vive in bilico tra conoscenza mistica e progresso, tra anticolonialismo e ideologia, la rivoluzione khomeinista compie trent’anni. Trent’anni segnati da una forte conflittualità interna, un contrasto dovuto alla differente legittimità in cui convivono i diversi organi dello Stato, quelli politici e quelli religiosi, quelli nati dal consenso popolare e quelli dovuti alla dirompente innovazione che ha caratterizzato il pensiero rivoluzionario khomeinista: il principio del giureconsulto, quello secondo il quale durante l’Occultazione del Dodicesimo Imam è il migliore tra i dotti religiosi a guidare il popolo. Un principio che dividerà lo stesso clero sciita e che indurrà parte degli specialisti del sacro ad abbandonare la tradizione quietista che impone l’obbedienza allo shah per assumere il controllo e la gestione diretta del potere.

di Luca Mazzucato

LOS ANGELES. Che la presidenza Obama stia seguendo una dottrina dello “shock and awe” al rovescio é tutti i giorni sulle prime pagine dei giornali: la chiusura di Guantanamo, l'abolizione della tortura e delle “extraordinary renditions,” il ritiro dall'Iraq, il colossale piano keynesiano di stimolo dell'economia. Tutte queste misure hanno annichilito i repubblicani e messo sotto shock l'opinione pubblica, trasmettendo un netto segnale di cambiamento per ridare fiducia alla nazione. Ma la prima legge varata dall'amministrazione democratica, meno vistosa ma molto efficace, inciderà profondamente sulla qualità della vita e sui diritti di quella parte della popolazione che viene discriminata ogni giorno sul luogo di lavoro. Si tratta della legge Ledbetter sulle pari opportunità. Lilly Ledbetter è una signora compita di mezz'età, sembra una maestra in pensione. Alla convention democratica che incoronò Barack Obama l'estate scorsa, pronunciò un commovente discorso con il suo forte accento del sud, raccontando la discriminazione subita per anni e la battaglia legale per i suoi diritti, che le fu negata dalla Corte Suprema e dai Repubblicani al Senato. Questa è la sua storia.

di Eugenio Roscini Vitali

Il presidente americano Barack Obama è pronto a fare pressioni affinché i leader dei maggiori partiti israeliani diano il via alla formazione di un governo di unità nazionale, unico modo per uscire dall’empasse istituzionale nel quale è caduto lo Stato ebraico e per fornire agli Usa un partner credibile per proseguire (o riprendere) i colloqui di pace con i palestinesi. E’ questo il primo vero cambiamento nella politica estera americana: forzare la mano nel tentativo di risolvere problemi invalicabili, senza pregiudizi o prese di posizione precostituite. La sintesi sta proprio nello slogan che ha accompagnato la campagna elettorale israeliana, il messaggio che ha dominato i cartelloni pubblicitari che ritraevano Tzipi Livni, Ehud Barak e Benjamin “Bibi” Netanyahu: “Il momento della verità”. L’equilibrio è tale che a questo punto l’unica “verità” nella meno auspicata delle soluzioni, una coesistenza forzata tra le diverse anime di Israele e che comunque escluda le frange più estreme, quelle più radicali, quelle con le quali neanche Barak Obama è disposto a trattare.


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