di Fabrizio Casari

Rottura delle relazioni diplomatiche, invio di battaglioni armati di tutto punto e tanks alle rispettive zone di frontiera con la Colombia, accuse di servilismo, assassinio, menzogne e violazioni d’integrità territoriali ad Alvaro Uribe, il maggiordomo degli Stati Uniti in America latina. Il presidente del Venezuela Hugo Chavez e quello dell’Ecuador, Rafael Correa, hanno reagito nel modo più duro all’assassinio di Raul Reyes, portavoce delle Farc colombiane, ad opera delle truppe speciali dell’esercito di Bogotà. L’assassinio di Reyes e di altri guerriglieri è avvenuto in pieno territorio ecuadoregno, attraverso un attacco aereo al quale ha fatto seguito l’irruzione dei corpi speciali di Uribe che hanno finito a freddo con decine di proiettili i membri delle Farc. Nessuna resistenza da parte dei guerriglieri, colpiti in piena notte. Le truppe speciali di Uribe erano penetrate per diversi chilometri in territorio ecuadoregno, in flagrante violazione dello spazio territoriale di Quito. La cosa, ovviamente, non poteva rimanere sotto silenzio. Il presidente colombiano pensava forse che con una telefonata al suo collega ecuadoriano Correa, avrebbe avuto modo di risolvere rapidamente la questione, ma così non è stato. La reazione è stata durissima.

di Eugenio Roscini Vitali

Muovere confini, dividere popoli, stravolgere mentalità collettive e andare avanti con la testa rivolta all’indietro, senza guardare al futuro. E’ questa la politica che la comunità internazionale ha deciso di mettere in atto nei Balcani, un metodo già applicato in altri angoli dell’emisfero e che in molti casi non ha fatto altro che aggiungere disperazione alla disperazione. Trasformazioni che hanno portato alla creazione e alla dissoluzione di grandi imperi coloniali, che hanno ridefinito la mappa geo-politica e fatto nascere nuovi Stati. Basti pensare alla Conferenza di Berlino del 1885 durante la quale gli Stati europei si spartirono l'Africa, dichiarata res nullius o alla Conferenza di pace di Parigi del 18 gennaio 1919, che consegnò il Medio Oriente alla Gran Bretagna e alla Francia e ridisegnò i confini di mezza Europa; alla Conferenza di Yalta del 4 febbraio 1945 che divise la Germania e l'Europa in sfere di influenza e che fu il preludio della Guerra fredda; al crollo dell’Unione Sovietica e alla disgregazione della Jugoslavia. Un processo inarrestabile che dal 1958 ad oggi ha raddoppiato il numero degli Stati sovrani da 90 a 182.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La religione del potere resta la stessa. Cambia solo l’icona. Il volto da appendere ora negli uffici statali e nelle sedi ufficiali era pronto da mesi, stampato a colori e in tutti i formati. Un volto già vecchio perchè noto e scontato. Ma Dmitrij Anatoljevich Medvedev (nato a Leningrado nel 1965) non soffre di complessi. Brinda alla sua incoronazione avvenuta domenica 2 marzo (per il vecchio calendario il 18 febbraio, una quaresima che gli ortodossi venerano con i nomi di Santa Agalita e San Flavian) in seguito ad una votazione plebiscitaria, di stampo “sovietico” con una vetta del 70%, che rappresenta una legittimazione a quanto già deciso dal potere. Perchè per la casta attuale del Cremlino - dopo il tormentone mediatico del “Votantonio, Votantonio” con 2747 presenze di Medvedev nei telegiornali delle ultime settimane - quello che conta è il sigillo che viene posto sulla vicenda che si è consumata in questi ultimi tempi. Ora, si dice, parte una nuova tappa nella vita istituzionale del Paese. Ma il giro è sempre lo stesso. E la “carovana” di corridori, giudici, massaggiatori, tecnici e manager va avanti impegnata in un giro della Russia all’insegna di quel motto da Gattopardo: "Cambiare tutto, per non cambiare nulla".

di Fabrizio Casari

Sono sessanta i morti? O settanta? Arriveranno a centinaia con la prossima ondata dei caccia con la stella di David? Non si sa. Le cifre, quando si parla di Gaza, cambiano persino da quando si comincia a scriverne a quando si finisce. Difficile del resto, quanto forse inutile, aggiornare con numeri l’infamia di un’assedio che non distingue combattenti da civili, uomini da bambini, colpevoli da innocenti. La contabilità dei morti palestinesi sembra infatti proporre niente altro che dei numeri a supporto dell’indifferenza generale. Gaza, del resto, non è un paradiso fiscale, non produce petrolio e non è una lobby: Gaza è il luogo che non c’è, la striscia dove ammassare rifugiati di una terra e rifiutati della geopolitica, che non sono amici dell’Occidente, non rappresentano una causa ma un problema. Non suscita emozione, non provoca indignazione, non comporta reazioni, men che mai una crisi diplomatica; al massimo qualche scarno comunicato, più frequentemente qualche alzata di spalle.

di mazzetta

Nicolas e Carla sono scesi all'aeroporto di N'Djamena, lei, vestita sobriamente, in scuro, è stata guidata alla conoscenza del paese dalla “premiere dame” del Ciad, avvolta in un luminoso scialle rosa. Nicolas si è intrattenuto alcune ore con presidente-dittatore Idriss Deby Itno. I due leader hanno discusso della recente rivolta, domata nel sangue grazie all'aiuto essenziale dell'esercito francese presente in loco e del vertice del Cemac, la parodia di Commonwealth che la Francia ha organizzato tra le sue ex colonie in Africa Centrale. Della visita del presidente francese ci è stata restituito solo lo sbarco, occasione per diffondere una carezza di Carla a Nicolas intravista dalle telecamere attraverso il lunotto di una limousine e niente di più. Nemmeno un cenno alle ultime novità urbanistiche della capitale, ora circondata da un vallo che dovrebbe impedire l'accesso ai fuoristrada dei ribelli, consentendo l'accesso alla capitale solo da varchi tenuti sotto tiro dai carri armati. A Deby non è piaciuto essere assediato nel palazzo preso a fucilate e sta prendendo le sue precauzioni, tra le quali l'abbattimento degli alberi centenari dei boulevard, colpevoli di aver offerto riparo ai ribelli durante gli attacchi degli elicotteri.


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