di Daniele John Angrisani

Sono passati sei anni esatti dall'11 settembre 2001, il giorno che ha cambiato il mondo e, mentre in America si svolgono, sempre più sottotono, le celebrazioni per ricordare gli "eroi dimenticati" di quella giornata, anche nel resto del mondo oggi ci si ferma per riflettere. Cosa è cambiato da allora? E' un mondo migliore o peggiore? Si poteva fare qualcosa per evitarlo, e soprattutto si potrà evitare un'altra carneficina del genere? Tutte domande alle quali ora è impossibile dare una risposta circostanziata. Ma si tratta pur sempre di domande che si porranno anche negli anni a venire ed a cui solo gli storici in futuro potranno dare una risposta definitiva. Ciò che è sicuro è che molte cose sono cambiate da allora, ma altrettante sono rimaste uguali. L'America quel giorno si è scoperta per la prima volta da decenni vulnerabile a ciò che accade nel resto del mondo, anche e spesso soprattutto a causa delle sue politiche. La più grande superpotenza economica, militare e politica mondiale ha visto così il suo centro colpito a sangue dall'arma più improbabile che potesse essere usata a questo scopo: quella flotta aerea che aveva rappresentato in molte parti del mondo il simbolo della potenza americana, con i suoi stendardi e l'aquila a due teste.

di Bianca Cerri

Tutto ebbe inizio con quella colonna di fumo che si alzava verso il cielo completamente privo di nubi sopra New York, provocata dall’impatto di un aereo schiantatosi su una delle due maestose torri gemelle in pieno centro della città. Per le leggi della fisica, il precipitare a terra di tonnellate di cemento e lamiere che trascinarono chissà dove migliaia di vite fu inevitabile. In quel momento, George Bush era in Florida e stava leggendo una favola che parla di caprette smarrite ai bambini di una scuola elementare di Saratosa. Le foto che lo hanno immortalato con il libro di fiabe ancora in mano mentre uno degli uomini del suo staff gli comunica che l’America è stata attaccata sono la miglior allegoria di un paese attaccato a tradimento, nessun creativo avrebbe saputo inventare uno spot più efficace. Il primo ad accorrere sul luogo della sciagura fu l’allora sindaco di New York, Rudi Giuliani, che subito si fece immortalare curvo e dolente sulle rovine ancora fumanti, realizzando anche lui lo spot vincente per un’eventuale candidatura alle presidenziali. Dotato di buona presenza scenica e ferreo assertore del libero mercato, Giuliani sa che anche le tragedie sono merce vendibile purché l’imbonitore sappia rendersi credibile. Per questo non esitò ad incitare il popolo americano a “dirigere l’ira verso un unico bersaglio” e a tirare fuori il meglio di sé allo scopo di apparire come il leader giusto di cui il paese aveva bisogno in quel momento.

di Giuseppe Zaccagni

Anche a Sidney - per russi ed americani - si è nuovamente registrata una sottolineatura della continuità di una guerra fredda che resta calda. Perchè la situazione dei rapporti - sulla base dei risultati del XV incontro di 21 capi di Stato dei paesi dell'Apec, l'Associazione per la Cooperazione Economica Asia-Pacifico - si rivela, nonostante le dichiarazioni di facciata, fluida ed incerta. Restano, nell’agenda diplomatica dei due paesi, tensioni latenti e valutazioni critiche. Bush e Putin, attori principali del vertice australiano, non sono riusciti a superare la fase di stallo che esiste sin dal momento in cui gli Usa hanno dato il via al loro piano di espansione all'Europa orientale del sistema di difesa anti-missilistica, il cosiddetto “scudo” che Mosca respinge ritenendolo come una aperta minaccia alla propria sicurezza. C’è stato un solo spiraglio distensivo firmato Putin. E’ stato il capo del Cremlino ad annunciare che alti esponenti della Russia e degli Usa s'incontreranno presto per ispezionare congiuntamente la base radar di Qabala, in Azerbaigian, data in concessione dalla Repubblica caucasica alla Russia che, a sua volta, in alternativa all'ampliamento dello “scudo”, ne ha offerto agli Usa l'utilizzo congiunto per meglio, e più da vicino, prevenire eventuali attacchi all'Occidente da parte di quegli stati come Iran e Corea del Nord che la Casa Bianca definisce “stati canaglia”.

di Elena Ferrara

Le agenzie turistiche lo reclamizzano come “terra di folklore”, “Svizzera indiana”, paese di “esotica bellezza”, “paradiso per gli stilisti”, mondo ideale per “sfuggire alla frenesia e al trambusto della vita di città e dove la vita scorre al ritmo di una scena al rallentatore”. Sarà anche vero, ma la realtà del Nagaland (uno dei sette stati dell’India con due milioni di abitanti e un territorio di 17mila chilometri quadrati a cavallo tra le foreste birmane e gli attuali Stati indiani dell’Assam, dell’Arunachal Pradesh e di Manipur) è anche un’altra. Perchè le notizie che arrivano dalla capitale Kohima rivelano che il paese è una “Restricted area” dove si accede solo con un lasciapassare del ministero degli Interni di Delhi. E questo non per le antiche storie che ricordano che qui, un tempo, abitavano feroci guerrieri noti come “cacciatori di teste”. Ma per il fatto che il Nagaland dal 1956 rivendica l’indipendenza con un movimento separatista di grande portata. Al governo centrale indiano si chiede, infatti, che vengano ridisegnati i confini in modo da inglobare i vicini stati di Manipur, Assam (il terzo stato per produzione di greggio) e Arunachal Pradesh. I quali, però si oppongono fortemente a questo eventuale tipo di annessione. Perciò il movimento per l’autonomia è sceso in campo anche con formazioni armate, che dal 1988 sono divise in due schieramenti.

di mazzetta

Abbandonati al loro destino i popoli di Iraq, Afghanistan e Somalia, la nostra opinione pubblica può tranquillamente dedicarsi al campionato di calcio appena iniziato, distraendosi al più con la guerra ai lavavetri e dimenticare la guerra al terrorismo senza che cattivi pensieri e sensi di colpa turbino una quotidianità imperniata sul consumo del superfluo. Il mondo dell’informazione nel nostro paese sembra aver dimenticato la War on Terror. Dimessa l’opera di Pio Pompa, di Renato Farina e delle altre betulle, nel nostro Paese è calato un silenzio impressionante sulle guerre che G. W. Bush ha iniziato e che non sa come finire. Se nel nostro paese esistesse un dibattito degno di questo nome, sarebbe invece interessante sentire il parere dei grandi sostenitori della guerra in Iraq (e quella dei genuflessi a Washington più in generale) sulla politica americana dopo il 9/11, perché molti sono i punti sui quali sarebbe interessante conoscere l’opinione attuale dei fan del presidente americano.


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