di Elena Ferrara

La “tigre thailandese” ha una nuova Costituzione. L’hanno scritta gli uomini della giunta militare (al potere dopo il colpo di stato del settembre 2006) e al voto, con un referendum al quale erano stati chiamati 45 milioni di elettori, sono andati solo in 26 milioni. Nel sud del paese, a Bangkok e nelle province a maggioranza musulmana, l'88% ha approvato la “carta”, mentre nel nord-est, fedele all’ex premier Thaksin Shinawatra (il miliardario delle telecomunicazioni che fu destituito dalla giunta e che oggi è in esilio tra Singapore e l’Inghilterra), i “No” hanno raggiunto il 63%. Quanto al risultato generale, la Commissione elettorale parla di un 57,6% favorevole al testo della nuova Costituzione. Intanto le prime valutazioni parlano di una volontà popolare che punta al ritorno della democrazia e della stabilità politica. Ma sono anche in molti a denunciare gli aspetti negativi di una “carta” nata nel clima della giunta che è al potere. La consultazione non è stata, comunque, uno “tsunami” politico e sociale. Il Paese l’ha accolta come un fatto di ordinaria amministrazione, senza però dimenticare i profondi contrasti che caratterizzano e sconvolgono la società: una “democrazia” corrotta che sta seguendo la cura del Fondo Monetario Internazionale e con un sistema economico che potrebbe non reggere a un nuovo shock finanziario simile a quello degli anni scorsi.

di Luca Mazzucato


Alcuni mesi fa, avevamo raccontato della manifestazione che si svolge tutti i venerdì da quasi tre anni, nel villaggio palestinese di Bil'in, in West Bank. Il muro dell'apartheid, che dalla Linea Verde si snoda nella profondità dei Territori, ha rubato centinaia di ettari appartenenti al villaggio, per annetterli alla vicina colonia illegale israeliana: olivi secolari e terre coltivate, sottratti ai legittimi proprietari adducendo i soliti “motivi di sicurezza.” La scorsa settimana, la Corte Suprema israeliana ha accolto la petizione degli abitanti di Bil'in e ordinato al governo Olmert di abbattere il muro e ricostruirlo lasciandone fuori i terreni del villaggio. Un vero e proprio schiaffo per chi sostiene che il muro serva a proteggere Israele: la Corte ha infatti sconfessato il governo e messo a nudo il sistema di corruzione che lega le imprese di costruzione israeliane alle colonie illegali in continua espansione in West Bank. Millecinquecento persone hanno festeggiato a Bil'in lo scorso venerdì, con il primo ministro dell'ANP in West Bank Salam Fayyad e alcuni parlamentari arabi-israeliani. Per dimostrare che, laddove il confronto militare fallisce miseramente, le mobilitazioni non-violente della popolazione possono fare davvero la differenza.

di Maura Cossutta

La ricerca della verità non è separabile dalla ricerca della libertà. Con buona pace - si fa per dire - delle gerarchie vaticane. Il progresso della conoscenza umana non ci sarebbe stato senza l’insopprimibile libertà del pensiero. Quando questa libertà è stata sottoposta a coercizioni ed umiliazioni, la conoscenza si è arrestata. E il buio delle coscienze ha sempre trascinato con sé arretratezza sociale, disuguaglianze, guerre, povertà, distruzioni. Senza libertà del pensiero sono cresciute e crescono le società e i regimi autoritari. Si dovrebbe ripartire da qui; e soprattutto la Chiesa dovrebbe ripartire da qui, quando si accinge a rilanciare crociate per la Verità. Verità Assoluta, s’intende, cioè quella di Dio. Ma quando e come la Chiesa ha aiutato il progresso della conoscenza e quindi il progresso dell’umanità? E’ una semplice domanda, che però nessuno fa più. Da sempre la Chiesa ha piegato alla verità assoluta di Dio ogni campo della conoscenza, prima la filosofia, poi la scienza, oggi la biologia (l’economia no, è zona franca). L’unica possibile conoscenza doveva e deve continuare ad essere “ancilla domini”. Conoscenza “sana”, laicità “sana”: è la Chiesa a certificare e a prescrivere. Forse Galileo Galilei è tornato tra noi o comunque noi siamo sprofondati nel Seicento.

di Giuseppe Zaccagni

E’ ancora lunga la strada che dovrebbe portare ad una soluzione del problema del Kosovo. In questo prolungato ristagno della crisi, c’è una nuova tappa prevista per fine mese. Questa volta si esce dai confini europei per sbarcare a New York, dove le delegazioni della Serbia e dell’Albania si troveranno a confronto con la troika di quei mediatori che rappresentano Usa, Russia e Unione europea. Prima di questo vertice ci sarà una riunione dei ministri degli Esteri di Usa, Russia, Inghilterra, Italia, Germania e Francia, che fanno parte del “Gruppo di Contatto”. Ma tra questi paesi le differenze, a proposito del rapporto con Belgrado, sono notevoli. C’è il capo della diplomazia russa, Serghiej Lavrov, che ha già messo in guardia gli interlocutori americani sul fatto che per Mosca esiste una questione sulla quale va tirata una "linea rossa", da non oltrepassare. Il riferimento è ben preciso: è lo status del Kosovo, alla cui indipendenza dall'alleata Serbia la Russia si oppone strenuamente. Decisa - e di segno nettamente contrario - la posizione dell’Albania. Paese che rivendica il territorio kosovaro presentandolo come area di interesse nazionale in quanto abitata da una maggioranza albanese. E così il portavoce di Tirana, Skender Hyseni, parla a nome del Kosovo e dichiara: ''Pristina è sempre pronta a partecipare a tutti gli incontri che saranno proposti dalla troika perchè il nostro obiettivo è chiaro, è l'indipendenza della regione”.

di Daniele John Angrisani

La grande partita per il Cremlino del dopo Putin è definitivamente iniziata. Dopo giorni in cui si speculava in continuazione su questa possibilità, oggi pomeriggio il primo ministro russo, l'oscuro e spento tecnocrate Mikhail Fradkov, ha deciso di rassegnare le dimissioni sue e del suo intero governo nelle mani del presidente russo, Vladimir Putin, che le ha accettate immediatamente. La notizia è rimbalzata immediatamente in tutta la Mosca che conta: nei minuti successivi le televisioni ed i siti web russi sono stati infatti inondati di dichiarazioni di analisti politici e parlamentari della Duma che si attendevano a momenti la nomina di Sergei Ivanov, fino ad oggi il principale candidato alla successione di Putin, come primo ministro. Tale prospettiva era stata rafforzata dalle parole di colui che viene definito il "Karl Rove del Cremlino", ovvero Gleb Pavlovsky, che alla televisione russa aveva affermato che il prossimo primo ministro sarebbe stato "inequivocabilmente" anche il candidato presidente alla successione di Putin. Si può dunque immaginare facilmente lo shock del mondo politico russo, e non solo, quando Boris Gryzlov, lo speaker della Duma e segretario del partito filo-Putin Russia Unita, ha affermato dinanzi ai giornalisti che il presidente Putin aveva appena nominato nuovo primo ministro Viktor Alekseyevich Zubkov.


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