di Carlo Benedetti

MOSCA. La Russia - nonostante le aperture all'occidente e, in particolare, all'Europa - rilancia il panslavismo. Lo fa in maniera ufficiale riferendosi alla situazione del Kosovo. E precisamente a quanto sta avvenendo tra Belgrado, Tirana e Pristina. Tutto questo mentre i serbi, dalla capitale jugoslava, fanno sapere di essere disposti a concedere al territorio del Kosovo una larga autonomia, pur restando fermi i confini del paese e, quindi, l'integrità nazionale della Serbia stessa. Mosca va ancora più avanti. Perché un suo autorevole ministro - Sergej Shojgu, che si occupa delle "situazioni d'emergenza" - afferma (ovviamente a nome del Cremlino) che il futuro status del Kosovo non dovrà essere imposto e il processo negoziale non dovrà essere limitato nel tempo. Il riferimento diretto è alle posizioni scaturite dal recente vertice (svoltosi a Vienna con la mediazione dell'Onu) tra il premier serbo Kostunica e gli esponenti del Kosovo, la provincia ribelle a maggioranza albanese trasformata di fatto in protettorato internazionale dopo la guerra sferrata dalla Nato nel 1999.

di Liliana Adamo

John Berger Non è esclusivamente un giornalista e un politologo John Berger, ma uno scrittore e un entusiasta critico d'arte, affatto turbato d'aver contribuito ad un vero e proprio "incidente diplomatico" con i lettori di Ynet e Ynetnews, quando, l'8 agosto scorso, ha espresso tutto il suo dissenso contro l'attuale politica israeliana, dichiarandosi contrario alla guerra scatenata sul territorio libanese ma, soprattutto, puntando il dito sull'annosa e intricata "questione palestinese". Berger, classe 1926, londinese, autore di saggi talmente celebri che la rete televisiva BBC, ha trasformato in una lunga serie TV, è il primo firmatario di una lettera aperta (e sottoscritta dalla migliore elite culturale attiva sulla scena odierna), che non usa mezzi termini, accusando le leadership israeliane di crimini di guerra contro l'umanità.
Harold Pinter, Noam Chomsky, il premio Nobel Josè Saramago, Arundhati Roy, Russell Banks, Gore Vidal e Howard Zinn, rinforzano unanimemente la medesima posizione: Israele ha torto.

di Fabrizio Casari

La ricorrenza del quinto anniversario degli orrendi attentati dell'undici settembre del 2001, ha dato modo di tracciare ricordi e bilanci di un avvenimento che, come molti dicono, ha visto il mondo cambiare in profondità. Dopo l'undici settembre, si dice da più parti, il pianeta non è più lo stesso. Certo, il gruppo di sauditi aiutati dai pakistani che cinque anni fa ha squarciato i cieli americani, nel rappresentare il punto più alto della storia di attacco militare contro gli USA, ne ha anche certificato la fine dell'inviolabilità territoriale. Sarebbe forse suggestivo proporre a simbolo della sconfitta militare statunitense l'immagine del gendarme del pianeta piegato da un gruppo di pazzi armato di taglierini per la carta, ma questa è solo l'immagine "giornalistica" di quanto avvenuto.

di Daniele John Angrisani

Negli ultimi mesi c'è una specie di tabù di cui si fa a meno di parlare sui media occidentali, a meno di avvenimenti eccezionali (come ad esempio attacchi contro le truppe italiane), di Iraq se ne parla sempre di meno. Eppure nella sola giornata di martedi a Khan Bani Saad, nella zona sciita, sono morte 7 persone, altre 6 in diverse zone dell'Iraq per via degli attacchi della guerriglia e nel quartiere di Mansour a Baghad altre 5 persone sono morte per lo scoppio di una autobomba. Come mai nessuno ne ha fatto cenno? E' senza dubbio vero che queste notizie ormai non fanno più audience, visto che questo bagno di sangue continua ininterrotto ogni giorno, ma ciò non toglie che questo velo di silenzio assurdo che sembra calato sull'Iraq lasci decisamente perplessi. Diciamocelo francamente: che gli Stati Uniti abbiano ormai perso la guerra in Iraq è un segreto di Pulcinella. In un rapporto segreto reso noto pochi giorni fa dal Washington Post, persino gli stessi alti comandi dei marines della provincia di Anbar definiscono la situazione come "senza ritorno" ed affermano che "gli Stati Uniti non hanno più alcuna prospettiva di vincere politicamente in Iraq".

di Bianca Cerri

In una lettera datata 9 agosto 2006, un comitato composto da lavoratori delle squadre di soccorso giunte a Ground Zero dopo il crollo del WTC aveva chiesto a George Bush un incontro per discutere dei gravissimi problemi di salute che affliggono migliaia di vigili del fuoco, poliziotti e paramedici che nel settembre del 2001 scavarono incessantemente tra le macerie alla ricerca di superstiti. Il presidente non ha neppure risposto, né hanno mostrato interesse per la questione
il governatore Pataki e l'attuale sindaco di New York Bloomberg. L'indifferenza nei confronti di persone che misero a repentaglio la propria incolumità lavorando fino a 17 ore al giorno in condizioni di precarietà assoluta, la dice lunga sul significato che la Casa Bianca e le altre autorità attribuiscono all'11 settembre. Molte di loro sono oggi invalide al 100% per i gravissimi danni riportati alle vie respiratorie e ai tessuti polmonari e sopravvivono a fatica.


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