di Carlo Benedetti

La "rivoluzione arancione" promossa da Viktor Yushenko e sponsorizzata dagli americani doveva essere "un modello per tutto l'Est". Era stata paragonata al crollo del muro di Berlino. Aveva avuto la benedizione della Casa Bianca e di Giovanni Paolo II. In suo soccorso si erano precipitati il miliardario Soros e il drammaturgo Havel. Si erano mobilitate le banche tedesche e le centrali spionistiche della Cia e della Rand Corporation. Non è andata come previsto. Gli "arancioni" si sono scannati. Il sistema da loro prodotto si è frantumato tra mafie e clan, scandali e intrallazzi. Una sorta d'assalto alla diligenza di Kiev con in testa la "bella e affascinante" Julia Timoshenko, ricchissima imprenditrice ucraina che, nell'arco d'alcuni mesi, era riuscita a diventare multimiliardaria (citiamo dall'inglese The Guardian del novembre 2004).
Ed ora, crollato Yushenko, si torna a scoprire che il tanto bistrattato Viktor Yanukovich - presentato come "uomo di Mosca", "agente di una potenza straniera", "filorusso" e "filosovietico"- è stato il dominatore di questa campagna elettorale, combattuta con i grandi mezzi forniti agli "arancioni" dagli amici americani e, in particolare, dalla potente lobby ucraina presente negli Usa.
Sin qui i fatti.

di Bianca Cerri

I militari americani che hanno perso l'uso di uno o più arti si trovano ancora in ospedale, ma il ministero della Difesa se ne lava le mani. Gli stipendi non vengono versati da mesi e, per chi combatte con complicazioni dovute al rigetto di una protesi e ad infezioni, il pensiero delle utenze inevase e la famiglia senza mezzi diventa assillante. Non ultimo, le lunghe degenze in ospedale significano anche denaro da anticipare, perché l'esercito prevede solo una diaria di 180 dollari mensili per il personale in servizio effettivo, ma i lungo-degenti per cause di guerra devono provvedere personalmente al proprio vitto. In una struttura medica, tre pasti costano una media di 19 dollari che, moltiplicati per un mese, diventano una cifra non indifferente. La maggior parte dei feriti si trova al Walter Reed Hospital, dove i medici scarseggiano e si deve aspettare oltre un mese per una visita. Per quei pazienti che risultano affetti da patologie croniche che non presentano ferite da armi da fuoco o da esplosioni non è prevista alcuna forma di risarcimento.
La stessa direzione del Walter Reed è sull'orlo del collasso a causa dei ritardati pagamenti da parte del ministero della Difesa e i fondi federali, che dal 2001 sono stati ridotti, hanno portato a forti riduzioni dell'organico. I medici attualmente in servizio lavorano 70-80 ore a settimana, perché i feriti arrivano ogni giorno, a volte con in atto emorragie e febbre alta. I parenti che vogliono assisterli dovranno affrontare la spesa di un lungo soggiorno in albergo, che non tutti possono permettersi.

di Maurizio Musolino

Fra poche ore Israele andrà al voto. Si tratta di elezioni particolarmente importanti perché arrivano dopo un anno e mezzo che ha radicalmente cambiato gli scenari e i protagonisti di questo antico conflitto. Se la morte di Arafat ha messo in rilievo le difficoltà, ma anche le potenzialità della leaderships palestinese, imponendo un ricambio troppo a lungo rinviato, non meno traumatica è stata l'uscita di scena di Sharon proprio nella fase delicata che rimescolava le carte in tavola nel contesto politico israeliano.
La nascita di Kadima, la creatura politica fortemente voluta da Ariel Sharon dopo il ritiro e il ridispiegamento da Gaza, ha imposto ai due partiti storici di Israele una agenda ben diversa da quella precedentemente prevista. Da una parte il Labour, che dopo la sconfitta congressuale di Peres e la vittoria del segretario generale del sindacato Peretz aveva deciso di puntare al confronto elettorale sulla carta sociale, denunciando la grave crisi economica che soffoca l'esistenza di tantissimi israeliani, è stato costretto ad un ruolo di possibile alleato di minoranza di Kadima, riducendo le sue ambizioni e con esse la sua attrattività sull'elettorato.

di Carlo Benedetti

Nel cuore dell'Europa, in terra d'Ucraina, si prospetta di nuovo l'incubo di un'ulteriore divisione. Perché domenica 26 il paese torna a votare per le "politiche" dopo quella storica vittoria della "rivoluzione arancione" che, nel 2004, vide prevalere, nella competizione presidenziale, il filo-occidentale Viktor Jushenko sul filo-russo Viktor Janukovich. La "vicenda" non è chiusa: ora è la volta delle elezioni per il parlamento (Verkovna Rada). Lo scontro si annuncia drammatico. Da un lato ci sono le popolazioni di quelle regioni che guardano all'Occidente e alla Polonia; dall'altro quelle che hanno come riferimento il mondo slavo e la madre-Russia. Due realtà sociali, politiche ed economiche completamente diverse. La parte occidentale (che ha come "capitale" Lvov, città che noi chiamiamo Leopoli) e quella orientale che si riconosce nel centro industriale di Kharkov e che comprende i bacini carboniferi del Donbass. Tutto si ripresenta con lo scenario tradizionale caratterizzato da un clima generale dove sono usati (sotto slogan che rivendicano il rinnovamento della società) trucchi ed espedienti tra i più subdoli. Ma questa volta soffia un vento diverso. La cosiddetta "rivoluzione arancione" ha già attraversato duri periodi, con lotte intestine caratterizzate da episodi di corruzione, mafie e tangentopoli. E così quanti avevano manifestato appoggio alle posizioni tradizionali, filorusse e filoslave, si ritrovano ad avere il vento in poppa. Il riscontro lo si ha anche nel fatto che i media occidentali - in gran parte favorevoli a Jushenko - mettono il silenziatore sull'avvenimento. Ma vediamo - pur con una necessaria sinteticità - la situazione in dettaglio.

di Fabrizio Casari

Trent'anni fa, la storia dell'Argentina precipitò nel cono d'ombra. Prese il potere, con un colpo di Stato, la giunta militare guidata dai generali Videla (esercito), Agosti (aeronautica) e Massera (marina). Il primo era un pupillo di Kissinger, il secondo dell'oligarchia argentina, il terzo un iscritto alla loggia massonica P2 e raccomandato speciale di Licio Gelli. Insieme, formarono la triade assassina che fece sprofondare l'Argentina nel periodo più buio della sua storia. Se Isabelita Peron riuscì a lasciare la Casa Rosada a bordo di un elicottero, la sorte di una intera generazione venne gettata nell'immondezzaio della civiltà.
La governance dei militari si manifestò con tutta la barbarie possibile. Sciolti Parlamento e Governo, messi fuori legge partiti e sindacati, chiusi giornali e radio, il paese latinoamericano divenne una immensa dead-line fuori della quale passò solo chi riuscì a fuggire. Dentro, rimasero carceri, torture, voli della morte ed assassini a sangue freddo. Il prezzo che l'Argentina pagò alla "guerra alla sovversione comunista" fu di 32.000 morti. Diecimila vennero uccisi in combattimento o fucilati per le strade, mentre i 365 campi di sterminio, insediati in ogni dove della nazione, sequestrarono 10.000 persone. Un milione e mezzo riuscirono a percorrere la strada amara dell'esilio.


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